mercoledì, ottobre 24, 2012
La nostra Costituzione, all’art. 33, proclama solennemente che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole, ma “senza oneri per lo Stato”. Come la mettiamo allora con i finanziamenti statali alle scuole private paritarie? Una rottura della Costituzione o un’attuazione consapevole del modello del pluralismo scolastico ed educativo? Una scelta sensata o solo oneri a carico dell’erario?

di Bartolo Salone

Il 4 luglio il Ministro dell’Istruzione Francesco Profumo annunciava tagli per 60 milioni di euro ai finanziamenti per le scuole private paritarie (che pertanto, dai 511 milioni di euro dell’anno in corso, scenderanno nel 2013 a 450 milioni). In tal modo, si riduce ulteriormente quello che, all’evidenza, appare tutt’oggi come un mero contributo di sostentamento, con il rischio di chiusura di numerosi altri istituti scolastici privati, in aggiunta alle 605 scuole che nell’autunno del 2011 non hanno riaperto i battenti.

Una decisione, quindi, quella del governo, destinata a riaccendere le polemiche tra i sostenitori e gli avversari del finanziamento pubblico alle scuole private. E non è azzardato prevedere che il dibattito si concentrerà proprio sull’art. 33 della Costituzione, il quale, se al comma 4 impone alla legge il delicato compito di assicurare alle scuole private che chiedono la parità “piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole statale”, al comma 3 sottolinea come “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione”, ma “senza oneri per lo Stato”. La questione si gioca tutta sul modo di intendere l’inciso “senza oneri per lo Stato”. Ma siamo sicuri che tale inciso, nella sua infelice formulazione, si traduca in un divieto assoluto per lo Stato di sostenere le scuole paritarie mediante la previsione di erogazioni finanziarie in loro favore?

In realtà, una simile interpretazione, come da parecchi studiosi osservato, finirebbe col contraddire altri importanti principi costituzionali, come il principio del pluralismo scolastico ed educativo (che osta a qualsiasi velleità per lo Stato di monopolizzare l’istruzione pubblica) nonché lo stesso diritto all’istruzione, che implica fra l’altro il riconoscimento ai fanciulli e ai loro genitori della libertà di scelta tra scuola statale e scuole paritarie. Viene poi in gioco il principio di eguaglianza sostanziale, nella misura in cui emerga la necessità di eliminare quegli ostacoli di carattere economico e sociale che impediscono agli alunni e alle loro famiglie di compiere in tal senso una scelta realmente libera e consapevole. La concreta attuazione di tali principi non può non passare anche (e soprattutto) attraverso la considerazione degli aspetti finanziari delle politiche pubbliche in favore della libertà di istruzione e del pluralismo del sistema educativo. Ecco perché, in un’ottica sistematica (che guardi cioè al testo costituzionale nel suo complesso), appare difficilmente sostenibile un’interpretazione così restrittiva dell’art. 33, co. 3 Cost.

Ma se l’inciso “senza oneri per lo Stato”, a dispetto del dato letterale, non implica un divieto assoluto per lo Stato di finanziare le scuole private paritarie, cosa altro può significare? Qui dobbiamo guardarci, invero, dal rischio di interpretazioni “riduttive”, come quella proposta da chi ritiene che l’inciso faccia riferimento alle scuole private tout court (cioè a quelle che non hanno ancora ottenuto la parificazione o che non sono interessate a chiederla), escluse pertanto dalla possibilità di finanziamenti pubblici, e non alle scuole private paritarie, le quali avrebbero al contrario un diritto costituzionale a erogazioni da parte dello Stato. Anche questa interpretazione, a dire il vero, va respinta, traducendosi in una sorta di “interpretatio abrogans” che non dà conto dell’intenzione dei Padri costituenti. Se andiamo ai lavori preparatori (si veda al riguardo il resoconto della seduta svoltasi in seno all’Assemblea costituente il 29 aprile 1947), ci accorgiamo, infatti, che fin dall’inizio della seduta che portò all’approvazione dell’attuale testo dell’art. 33 Cost. si era formato un accordo trasversale tra i diversi gruppi politici sul significato da attribuire alla norma. In particolare, quasi tutti concordavano sul fatto che l’art. 33 Cost. non dovesse occuparsi degli aspetti economico-finanziari e che pertanto la formula dell’equipollenza di trattamento scolastico (confluita infine nel comma 4) andasse rigorosamente circoscritta all’organizzazione della scuola e dei diplomi, escluso nel modo più assoluto il trattamento economico. Con l’inciso “senza oneri per lo Stato”, inserito nell’ultima votazione, l’Assemblea costituente ha voluto così eliminare ogni ambiguità, ribadendo l’inesistenza di un diritto costituzionale al finanziamento per le scuole private, senza però imporre, d’altro canto, al legislatore un divieto esplicito in tal senso. In sintesi, nell’esercizio della sua discrezionalità, il legislatore non ha un obbligo, ma una semplice facoltà di prevedere stanziamenti pubblici in favore delle scuole private. Pertanto, vanno respinte, a ragion veduta, le due contrapposte tesi, tanto quella di chi pensa che le scuole private paritarie abbiano un diritto costituzionalmente garantito al finanziamento statale, quanto quella che fa discendere dall’art. 33 Cost. un divieto tassativo per lo Stato di disporre stanziamenti in favore delle scuole private.

La destinazione di finanziamenti pubblici alle scuole paritarie si appalesa pertanto per il legislatore come una scelta, se non obbligata, sicuramente corretta dal punto di vista costituzionale. Il discorso si sposta allora dal piano della legalità costituzionale a quello dell’opportunità politica. Anche sotto questo profilo, tuttavia, gli argomenti degli oppositori non sono dei più convincenti. Uno degli argomenti più utilizzati al riguardo è di tipo economicistico: si dice in sostanza che erogando finanziamenti alle scuole private lo Stato danneggerebbe le scuole statali, privando queste ultime di preziose risorse. Altri argomenti sono di carattere più squisitamente ideologico, come quello che considera qualsiasi finanziamento alle scuole private come un privilegio accordato a pochi, a discapito della collettività. Sia l’uno che gli altri, però, ad un’attenta analisi, si rivelano lontani anni luce dalla realtà. Uno studio dell’Associazione genitori cattolici (condotto sulla base dei dati ministeriali relativi all’anno 2009) ha infatti messo infatti in evidenza come lo Stato, per ogni alunno delle statali, spenda qualcosa come 6635 euro all’anno, mentre per ogni allievo della paritaria eroga in media 661 euro, ossia circa 10 volte di meno. Più che di privilegio, dovrebbe allora parlarsi di penalizzazione, poiché i genitori che decidono di iscrivere i loro ragazzi alle scuole paritarie sosterranno interamente il costo delle rette (come è giusto che sia), potendo però contare dallo Stato su un aiuto che è – come detto – dieci volte inferiore rispetto a quello che lo stesso eroga in favore dei suoi alunni. Eppure, il diritto all’istruzione in teoria sarebbe lo stesso, così come le stesse sono le imposte pagate dai genitori che decidono di far frequentare ai figli una scuola paritaria rispetto a quelle pagate da tutti gli altri, che optano invece per la statale. Per non parlare del fatto che, da un punto di vista puramente economico, e alla luce dei dati anzidetti, notevole è il risparmio che alla collettività generale deriva dall’esistenza delle scuole private. Infatti, se lo Stato dovesse farsi carico direttamente, con le proprie scuole, degli alunni che attualmente frequentano le scuole paritarie (1 milione circa), spenderebbe molto, ma molto di più, con un aggravio per l’erario dieci volte maggiore. Le scuole paritarie costituiscono, pertanto, un fattore di contenimento della spesa pubblica e non un peso per la collettività nazionale, come invece vengono spesso ingiustamente dipinte. Più oneroso, alla prova dei fatti, si rivela il monopolio statale dell’istruzione pubblica, a cui il nostro Paese stenta tuttora a rinunciare.

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