Un’America divisa lungo linee etniche e sociali ha concesso a Barack Obama altri quattro anni per portare avanti le sue politiche.
Radio Vaticana - Con solo la Florida ancora in bilico, il presidente torna alla Casa Bianca con il 50% del voto popolare contro il 48 del suo avversario Romney e con 303 grandi elettori (ascolta). Sarà breve questa volta la luna di miele di Obama con l’America. La sua vittoria, con margini più stretti rispetto a quattro anni fa e un Congresso spaccato in due, non gli renderà facile governare. Obama ha però assicurato di voler lavorare per tutti: “We are an american family and...
Noi siamo una famiglia americana e andiamo avanti insieme come una sola Nazione e un solo popolo”.
Lo sfidante Romney ha promesso collaborazione ed è uscito di scena a testa alta.
“I have just called president Obama...
Ho espresso le mie congratulazioni al presidente Obama. Prego che abbia successo nel guidare la Nazione”.
La sfida piu’ urgente sulla scrivania di Obama è quella del debito pubblico. Sia Fitch che Moody’s non hanno perso tempo per avvertire il nuovo presidente: “se non stabilizzeranno il debito gli Usa – hanno minacciato oggi – perderanno il loro rating”. Sul fronte internazionale, il mondo arabo guarda con cauta speranza al secondo mandato di Obama, mentre dalla Cina arrivano auspici di una svolta meno tesa nei rapporti economici. E stando alla stampa britannica il primo ministro David Cameron, sebbene conservatore, avrebbe ’tirato un sospiro di sollievo’ per la conferma alla Casa Bianca. Il voto di ieri ha visto sconfitti i difensori della famiglia tradizionale in quattro referendum sulle nozze gay, mentre la California ha votato per mantenere la pena di morte e la Florida ha conservato il finanziamento pubblico all’aborto.
Da New York, Elena Molinari per la Radio Vaticana
Al di là del risultato, le presidenziali americane hanno rappresentato una grande celebrazione della democrazia. Ne è convinto l’ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Miguel Diaz, che nei giorni scorsi si è congedato da Benedetto XVI. L’intervista è di Alessandro Gisotti: ascolta
R. – Prima di tutto sono lieto, una volta di più, per aver visto il popolo americano votare secondo questo grande ideale della nostra Nazione americana: il principio democratico. Una società in cui si può liberamente votare ed esprimere la volontà di un popolo. L’affermazione della democrazia è una cosa fondamentale.
D. – Un dato di queste elezioni, che colpisce molto, è il voto delle minoranze, in particolare degli ispano-americani, che mai hanno votato così tanto come in queste elezioni...
R. – Quello che si può dire è che ovviamente la nostra Nazione è sempre stata in cambiamento: non è un Paese statico, ma ha un dinamismo sempre in fase di miglioramento. Durante la storia, abbiamo avuto il contributo di differenti gruppi, differenti comunità e, in questa elezione, penso si sia vista la grande diversità americana, sia di quelli che hanno votato per Romney, sia di quelli che hanno votato per il presidente Obama. Quello, però, che mi è piaciuto davvero è il fatto che il popolo abbia voluto offrire la sua opinione. Io sono stato il primo ambasciatore ispano-americano presso la Santa Sede: mi piace allora sapere che il popolo ispanoamericano abbia offerto la sua visione e il suo voto nella società americana.
D. – Quattro anni fa, il presidente Obama aveva ottenuto il 54% del voto cattolico, mentre quest’anno si è ridotto. Probabilmente, ha pesato anche la controversia sul tema della vita e sull’obiezione di coscienza nella riforma sanitaria. Su questo c’è la possibilità di un nuovo terreno comune con i cattolici?
R. – Sia negli Stati Uniti, che nell’ambito internazionale, abbiamo un gran bisogno di “fare ponti”. Quello che io penso sia importante in questo momento, non solo per il nostro Paese, ma per il mondo intero, è continuare a lavorare per il dialogo, continuare l’azione comune, continuare lo sforzo per il bene comune. Questa penso sia la sfida più grande, che abbiamo non solo nella nostra nazione, ma nel mondo intero.
I festeggiamenti di Obama sono partiti prima degli annunci ufficiali; Romney invece ha tardato a riconoscere la sconfitta. Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Alberto Simoni, americanista del quotidiano La Stampa: ascolta
R. - Romney ha aspettato di avere la certezza del voto in Virginia: voleva avere la certezza che non ci fossero scarti minimi che obbligassero al riconteggio in alcuni Stati. Nel momento in cui ha capito che non c’era il margine per rimontare, a quel punto è arrivata la decisione di concedere la vittoria a Obama.
D. – Romney ancora non aveva riconosciuto la sconfitta, i festeggiamenti erano in corso e Obama ha parlato sulla rete con un messaggio, ribadendo "continueremo il lavoro iniziato", un po’ violando il rito che vede il vincitore parlare solo dopo l’ammissione della sconfitta da parte dell'altro candidato. Una particolarità di queste elezioni?
R. - Obama nel 2008 fu il primo ad utilizzare Internet, il web, i social network, come potentissimo strumento di campagna elettorale. Uomo del suo tempo, è capace di avere un contatto immediato col suo elettorato e col popolo americano. Ecco, quindi, che intervenire su Twitter, per anticipare i tempi, fa un po’ parte di quella trasformazione della politica e della comunicazione americana, che ormai è sotto gli occhi di tutti.
D. – Che cosa ha pesato in questa vittoria di Obama?
R. – Penso che, alla fine, Obama abbia vinto perché molti americani non erano convinti del candidato repubblicano. Il presidente è arrivato al voto indebolito, con un’economia in difficoltà, in lenta ripresa, e Romney era tra tutti quelli che si erano presentati alle primarie come il più accreditato. Però, non era sicuramente un candidato totalmente convincente. Quindi, la vittoria di Obama è anche in parte legata alla debolezza del suo avversario.
D. – Gli ultimi interventi sul settore auto, il rilancio del settore auto hanno inciso in questi ultimi mesi?
R. – Sì, penso che abbiano inciso perché Stati che potevano essere dalla parte di Romney e in genere dei repubblicani, di fatto, non sono mai stati in gara. Pensiamo al Michigan che è andato agilmente a Obama; pensiamo al Wisconsin che addirittura è lo Stato di Paul Ryan, il "running mate" di Romney, il Wisconsin che è stato ancora assegnato a Obama; pensiamo all’Ohio dove tutto sommato la partita c’è stata ma si è risolta a favore di Obama. Sono tre Stati molto importanti dove General Motors e Chrysler hanno i loro quartieri generali, dove ci sono tantissimi operai, tantissimi lavoratori legati all’indotto dell’industria automobilistica. La politica di Obama di salvare l’industria dell’auto, evidentemente, è piaciuta a questi elettori.
D. – A un certo punto, si è parlato anche del peso del voto dei cattolici preoccupati dei temi etici soprattutto per le decisioni di Obama in merito all’aborto. Pensa che questo abbia spostato consensi?
R. – I temi etici sono rimasti fondamentalmente esclusi da questa campagna elettorale, come in parte la politica estera, quindi non penso che il mondo cattolico abbia avuto un ruolo determinante questa volta. Penso che un po’, come storicamente accade, i cattolici si siano divisi: qualcuno più preoccupato delle questioni etiche, come l’aborto, come la riforma della sanità che non piace alla Chiesa e non piace neanche a molti cattolici, ma altri abbiano preferito seguire le questioni legate al sociale e le politiche di welfare, che con Obama dovrebbero, quantomeno, avere una priorità e certezza.
Il voto presenta, dunque, un Paese diviso. Su questo aspetto, Antonella Palermo ha intervistato Ferdinando Fasce, americanista dell'Università di Genova: ascolta
R. – I partiti da decenni non riescono più a coagulare un consenso tale da costruire delle maggioranze coese tra l’esecutivo e il Congresso. L’elettorato è spaccato, ma è spaccato anche perché una parte – forse un terzo – vota in maniera divisa: vota il partito del presidente, da un lato, e vota un partito diverso alla Camera o al Senato.
D. – Quali sono i nervi scoperti negli Stati Uniti?
R. – La questione economica. Non dimentichiamo che è una questione che ha molte sfaccettature. La questione di una tassazione più equa è un tema davvero molto importante, così come lo è quel mancato – finora, nel primo quadriennio obamiano – tentativo di regolamentare i grandi potentati economici. Poi, ci sono le questioni dell’immigrazione, delle armi, dell’aborto, la questione delle unioni tra persone dello stesso sesso…
Ma quali le sfide sul fronte internazionale che il nuovo quadriennio di Obama si appresta ad affrontare? Emanuela Campanile lo ha chiesto a Mattia Diletti, docente di Relazioni internazionali all'Università La Sapienza di Roma: ascolta
R. – Obama ha lasciato anche alcune crisi non risolte alle spalle. Vedremo come verrà affrontata, anche in seguito alle nuove elezioni, quella in Israele e in Medio Oriente. Ci sono alcune questioni che sono ancora aperte, come anche quella della crisi in Asia tra Cina, Giappone e Nord Corea. Ce ne sono molte altre che vanno affrontate e che non sono state trattate in questa campagna elettorale, perché si è parlato poco di politica estera. Adesso, il presidente sarà più libero di cercare di fare la storia su questi temi. Poi, c’è da sostenere questo sistema ancora fragile di nuovi governi, che sono usciti dalle “primavere arabe”. C’è anche il capitolo Russia e che cosa fare rispetto al rapporto con Mosca. Più in generale, l’America ha bisogno di rafforzare se stessa. Questo è un messaggio che Obama lancia sempre. Anche nel discorso di oggi ha detto che “noi siamo credibili e sapremo ricostruire l’America come un esempio per tutti” e quindi diventare di nuovo forti dal punto di vista economico, della qualità della vita, nel saper tollerare le diversità. Questo è il messaggio che lancia Obama: l’America è forte e riesce a essere un esempio per se stessa e per gli altri.
Radio Vaticana - Con solo la Florida ancora in bilico, il presidente torna alla Casa Bianca con il 50% del voto popolare contro il 48 del suo avversario Romney e con 303 grandi elettori (ascolta). Sarà breve questa volta la luna di miele di Obama con l’America. La sua vittoria, con margini più stretti rispetto a quattro anni fa e un Congresso spaccato in due, non gli renderà facile governare. Obama ha però assicurato di voler lavorare per tutti: “We are an american family and...
Noi siamo una famiglia americana e andiamo avanti insieme come una sola Nazione e un solo popolo”.
Lo sfidante Romney ha promesso collaborazione ed è uscito di scena a testa alta.
“I have just called president Obama...
Ho espresso le mie congratulazioni al presidente Obama. Prego che abbia successo nel guidare la Nazione”.
La sfida piu’ urgente sulla scrivania di Obama è quella del debito pubblico. Sia Fitch che Moody’s non hanno perso tempo per avvertire il nuovo presidente: “se non stabilizzeranno il debito gli Usa – hanno minacciato oggi – perderanno il loro rating”. Sul fronte internazionale, il mondo arabo guarda con cauta speranza al secondo mandato di Obama, mentre dalla Cina arrivano auspici di una svolta meno tesa nei rapporti economici. E stando alla stampa britannica il primo ministro David Cameron, sebbene conservatore, avrebbe ’tirato un sospiro di sollievo’ per la conferma alla Casa Bianca. Il voto di ieri ha visto sconfitti i difensori della famiglia tradizionale in quattro referendum sulle nozze gay, mentre la California ha votato per mantenere la pena di morte e la Florida ha conservato il finanziamento pubblico all’aborto.
Da New York, Elena Molinari per la Radio Vaticana
Al di là del risultato, le presidenziali americane hanno rappresentato una grande celebrazione della democrazia. Ne è convinto l’ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Miguel Diaz, che nei giorni scorsi si è congedato da Benedetto XVI. L’intervista è di Alessandro Gisotti: ascolta
R. – Prima di tutto sono lieto, una volta di più, per aver visto il popolo americano votare secondo questo grande ideale della nostra Nazione americana: il principio democratico. Una società in cui si può liberamente votare ed esprimere la volontà di un popolo. L’affermazione della democrazia è una cosa fondamentale.
D. – Un dato di queste elezioni, che colpisce molto, è il voto delle minoranze, in particolare degli ispano-americani, che mai hanno votato così tanto come in queste elezioni...
R. – Quello che si può dire è che ovviamente la nostra Nazione è sempre stata in cambiamento: non è un Paese statico, ma ha un dinamismo sempre in fase di miglioramento. Durante la storia, abbiamo avuto il contributo di differenti gruppi, differenti comunità e, in questa elezione, penso si sia vista la grande diversità americana, sia di quelli che hanno votato per Romney, sia di quelli che hanno votato per il presidente Obama. Quello, però, che mi è piaciuto davvero è il fatto che il popolo abbia voluto offrire la sua opinione. Io sono stato il primo ambasciatore ispano-americano presso la Santa Sede: mi piace allora sapere che il popolo ispanoamericano abbia offerto la sua visione e il suo voto nella società americana.
D. – Quattro anni fa, il presidente Obama aveva ottenuto il 54% del voto cattolico, mentre quest’anno si è ridotto. Probabilmente, ha pesato anche la controversia sul tema della vita e sull’obiezione di coscienza nella riforma sanitaria. Su questo c’è la possibilità di un nuovo terreno comune con i cattolici?
R. – Sia negli Stati Uniti, che nell’ambito internazionale, abbiamo un gran bisogno di “fare ponti”. Quello che io penso sia importante in questo momento, non solo per il nostro Paese, ma per il mondo intero, è continuare a lavorare per il dialogo, continuare l’azione comune, continuare lo sforzo per il bene comune. Questa penso sia la sfida più grande, che abbiamo non solo nella nostra nazione, ma nel mondo intero.
I festeggiamenti di Obama sono partiti prima degli annunci ufficiali; Romney invece ha tardato a riconoscere la sconfitta. Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Alberto Simoni, americanista del quotidiano La Stampa: ascolta
R. - Romney ha aspettato di avere la certezza del voto in Virginia: voleva avere la certezza che non ci fossero scarti minimi che obbligassero al riconteggio in alcuni Stati. Nel momento in cui ha capito che non c’era il margine per rimontare, a quel punto è arrivata la decisione di concedere la vittoria a Obama.
D. – Romney ancora non aveva riconosciuto la sconfitta, i festeggiamenti erano in corso e Obama ha parlato sulla rete con un messaggio, ribadendo "continueremo il lavoro iniziato", un po’ violando il rito che vede il vincitore parlare solo dopo l’ammissione della sconfitta da parte dell'altro candidato. Una particolarità di queste elezioni?
R. - Obama nel 2008 fu il primo ad utilizzare Internet, il web, i social network, come potentissimo strumento di campagna elettorale. Uomo del suo tempo, è capace di avere un contatto immediato col suo elettorato e col popolo americano. Ecco, quindi, che intervenire su Twitter, per anticipare i tempi, fa un po’ parte di quella trasformazione della politica e della comunicazione americana, che ormai è sotto gli occhi di tutti.
D. – Che cosa ha pesato in questa vittoria di Obama?
R. – Penso che, alla fine, Obama abbia vinto perché molti americani non erano convinti del candidato repubblicano. Il presidente è arrivato al voto indebolito, con un’economia in difficoltà, in lenta ripresa, e Romney era tra tutti quelli che si erano presentati alle primarie come il più accreditato. Però, non era sicuramente un candidato totalmente convincente. Quindi, la vittoria di Obama è anche in parte legata alla debolezza del suo avversario.
D. – Gli ultimi interventi sul settore auto, il rilancio del settore auto hanno inciso in questi ultimi mesi?
R. – Sì, penso che abbiano inciso perché Stati che potevano essere dalla parte di Romney e in genere dei repubblicani, di fatto, non sono mai stati in gara. Pensiamo al Michigan che è andato agilmente a Obama; pensiamo al Wisconsin che addirittura è lo Stato di Paul Ryan, il "running mate" di Romney, il Wisconsin che è stato ancora assegnato a Obama; pensiamo all’Ohio dove tutto sommato la partita c’è stata ma si è risolta a favore di Obama. Sono tre Stati molto importanti dove General Motors e Chrysler hanno i loro quartieri generali, dove ci sono tantissimi operai, tantissimi lavoratori legati all’indotto dell’industria automobilistica. La politica di Obama di salvare l’industria dell’auto, evidentemente, è piaciuta a questi elettori.
D. – A un certo punto, si è parlato anche del peso del voto dei cattolici preoccupati dei temi etici soprattutto per le decisioni di Obama in merito all’aborto. Pensa che questo abbia spostato consensi?
R. – I temi etici sono rimasti fondamentalmente esclusi da questa campagna elettorale, come in parte la politica estera, quindi non penso che il mondo cattolico abbia avuto un ruolo determinante questa volta. Penso che un po’, come storicamente accade, i cattolici si siano divisi: qualcuno più preoccupato delle questioni etiche, come l’aborto, come la riforma della sanità che non piace alla Chiesa e non piace neanche a molti cattolici, ma altri abbiano preferito seguire le questioni legate al sociale e le politiche di welfare, che con Obama dovrebbero, quantomeno, avere una priorità e certezza.
Il voto presenta, dunque, un Paese diviso. Su questo aspetto, Antonella Palermo ha intervistato Ferdinando Fasce, americanista dell'Università di Genova: ascolta
R. – I partiti da decenni non riescono più a coagulare un consenso tale da costruire delle maggioranze coese tra l’esecutivo e il Congresso. L’elettorato è spaccato, ma è spaccato anche perché una parte – forse un terzo – vota in maniera divisa: vota il partito del presidente, da un lato, e vota un partito diverso alla Camera o al Senato.
D. – Quali sono i nervi scoperti negli Stati Uniti?
R. – La questione economica. Non dimentichiamo che è una questione che ha molte sfaccettature. La questione di una tassazione più equa è un tema davvero molto importante, così come lo è quel mancato – finora, nel primo quadriennio obamiano – tentativo di regolamentare i grandi potentati economici. Poi, ci sono le questioni dell’immigrazione, delle armi, dell’aborto, la questione delle unioni tra persone dello stesso sesso…
Ma quali le sfide sul fronte internazionale che il nuovo quadriennio di Obama si appresta ad affrontare? Emanuela Campanile lo ha chiesto a Mattia Diletti, docente di Relazioni internazionali all'Università La Sapienza di Roma: ascolta
R. – Obama ha lasciato anche alcune crisi non risolte alle spalle. Vedremo come verrà affrontata, anche in seguito alle nuove elezioni, quella in Israele e in Medio Oriente. Ci sono alcune questioni che sono ancora aperte, come anche quella della crisi in Asia tra Cina, Giappone e Nord Corea. Ce ne sono molte altre che vanno affrontate e che non sono state trattate in questa campagna elettorale, perché si è parlato poco di politica estera. Adesso, il presidente sarà più libero di cercare di fare la storia su questi temi. Poi, c’è da sostenere questo sistema ancora fragile di nuovi governi, che sono usciti dalle “primavere arabe”. C’è anche il capitolo Russia e che cosa fare rispetto al rapporto con Mosca. Più in generale, l’America ha bisogno di rafforzare se stessa. Questo è un messaggio che Obama lancia sempre. Anche nel discorso di oggi ha detto che “noi siamo credibili e sapremo ricostruire l’America come un esempio per tutti” e quindi diventare di nuovo forti dal punto di vista economico, della qualità della vita, nel saper tollerare le diversità. Questo è il messaggio che lancia Obama: l’America è forte e riesce a essere un esempio per se stessa e per gli altri.
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