Olivier De Schutter è il relatore speciale dell'Onu per il diritto al cibo, e ha recentemente presentato all'Assembla generale delle Nazioni Unite il rapporto "Fisheries and the Right to food"
GreenReport - Il rapporto di Oliver de Schutter evidenzia che «a livello mondiale, le attività di pesca in mare e di pesca continentale garantiscono la sicurezza alimentare di milioni di esseri umani, ai quali apportano le proteine alimentari di qualità delle quali hanno bisogno per vivere e forniscono un mezzo di sussistenza o un guadagno. Ora, tutti sanno che questa risorsa alimentare si sta inaridendo, a causa essenzialmente di pratiche di pesca distruttive e non sostenibili
e delle distorsioni provocate dalle sovvenzioni, ma anche dai cambiamenti climatici che aggravano la situazione». Il rapporto fa il punto sui problemi posti dalla pesca e presenta delle proposte «Miranti a concretizzare progressivamente il diritto all'alimentazione per le persone più vulnerabili (Gli abitanti dei Paesi in via di sviluppo costieri ed insulari e, in particolare, dei paesi a basso reddito ed a deficit alimentare), sapendo che è cruciale adottare un approccio basato sui diritti umani per assicurare lo sviluppo sostenibile del settore della pesca».
A due settimane dalla presentazione di quel rapporto all'Onu De Schutter avverte su Ecologist: «L'attuale stato dell'ambiente marino non segnala un futuro disastro ecologico, ma uno che è già qui tra noi. In tutto il mondo i sistemi alimentari e gli ecosistemi su cui si basano sono messi sotto pressione da un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali. Ma in nessuna parte questi effetti si verificano più rapidamente e drammaticamente che negli oceani del mondo».
Il relatore speciale dell'Onu, ispirandosi all'accaparramento delle terre fertili, conia il nuovo termine di "Ocean-grabbing" e se la prende soprattutto con i generosi sussidi per il carburante e la costruzione di imbarcazioni che, tra gli anni '70 e '90 hanno fatto crescere capacità di pesca 8 più velocemente del tasso di crescita degli sbarchi: «Questo ha portato ad una situazione in cui la capacità di pesca globale della flotta mondiale è almeno il doppio di quel che è necessario per sfruttare gli oceani in modo sostenibile».
Un circolo vizioso che a costretti pescherecci a calare profondità alla ricerca dei pesci, degradando cosi sempre più l'ambiente marino e riducendo gli stock ittici. «Metodi di pesca come la pesca a strascico industriale di profondità - scrive De Schutter - l'equivalente di deforestazione nelle acque profonde, si sono dimostrati particolarmente distruttivi e veri sprechi, mentre i cambiamenti climatici, l'acidificazione degli oceani e l'inquinamento hanno ulteriormente destabilizzato gli ambienti marini» e si chiede: «Di fronte a questa crisi, si è tentati di proporre soluzioni drastiche. Dovremmo smettere di mangiare pesce del tutto? Nel caso di un settore che sta precipitando lungo la china della sua stessa estinzione dovrebbe sere fermato completamente? Certo, a livello globale devono essere adottate misure urgenti per reprimere la pesca illegale, non regolamentata e non registrata (illegal, unregulated and unrecorded Iuu) ed arrestare il depauperamento degli stock ittici in via di estinzione. Ma questo può essere solo parte della soluzione, perché affronta solo parte dell'economia globale della pesca».
De Schutter ci invita a correggere lo strabismo "occidentale" con il quale guardiamo al problema dello sfruttamento del mare: «Parallelamente alle pescherecci industriali e flotte che operano a distanza, circa 12 milioni di piccoli pescatori operano nelle zone costiere marine ed interne di tutto il mondo, derivando un reddito vitale e proteine alimentari dalle attività di pesca in un modo che fornisce un contributo essenziale alla sicurezza alimentare di intere comunità».
Il consumo di pesce rappresenta il 15% di tutte le proteine animali consumate nel mondo, e 22 dei 30 Paesi nei quali la pesca contribuisce a più di un terzo della fornitura totale di proteine animali sono Paesi a basso reddito e con deficit alimentare, quindi con la maggiore insicurezza alimentare. La pesca sostiene indirettamente anche il reddito ed i mezzi di sussistenza di altri milioni di persone, spesso in zone dove altre opportunità economiche sono scarse.
Secondo De Schutter «I governi devono quindi adottare un duplice approccio che non solo abbatta le dannose pratiche industriali, ma che anche sostenga e attivamente, su piccola scala, i pescatori artigianali.
La pesca industriale ha certamente portato più pesce sulle tavole dei consumatori dei Paesi ricchi ed emergenti, ma ad un enorme costo ambientale e sociale. Gli accordi per gli accessi delle flotte straniere nelle acque dei Paesi in via di sviluppo si sono trasformati in un saccheggio, spesso senza nessuna supervisione nbè monitoraggio da parte dello Stato che ha rilasciato le licenze e da parte di quello di rovenienza dei pescherecci. «Le conseguenze di questo "Oceane-grabbing" - scrive l'inviato speciale Onu su Ecologist - sono la pesca eccessiva, le catture non dichiarate, le incursioni nelle acque protette e, nel tempo, la diversione delle preziose risorse della pesca lontano dalle popolazioni locali».
Intanto l'acquacoltura sta ampliandosi massicciamente e fornisce fino al 45% di pesce consumato dall'uomo, ma insieme alla sua produttività crescono anche gli interrogativi sulla sua sostenibilità. «Come nel caso dei i sistemi agroalimentari, il cibo si sposta in verso dove le necessità sono maggiori, ma nel punto in cui il potere d'acquisto è più elevato», evidenzia De Schutter.
Lo squilibrio di potere d'acquisto è tale che i consumatori ricchi sono disposti a pagare a caro prezzo per i pesci d'allevamento catturati in natura. L'utilizzo di pesci selvatici come mangime negli allevamenti ittici «E' come la trasformazione delle foreste pluviali in campi di soia per l'alimentazione del bestiame in Occidente: riduce l'accesso locale alle risorse alimentari e comporta un enorme footprint di risorse per ogni caloria di cibo che viene data alla fine del la catena. L'acquacoltura e i modelli di pesca industriali possono rappresentare opzioni "economiche", ma solo perché segnali economici sono distorti. Le flotte sono in grado di intascare ingenti sussidi mentre esternalizzano i costi del sovrasfruttamento e del degrado delle risorse su comunità vulnerabili, il cui accesso alle proteine del pesce e gli stili di vita legati alla pesca vanno persi, e sulle generazioni future che pagheranno il prezzo quando gli oceani di tutto il mondo saranno a secco. Nel frattempo, i piccoli pescatori costituiscono una parte fondamentale del settore in molte parti del mondo in via di sviluppo. La loro importanza è talvolta sottovalutata perché alcune di queste piccole pesche artigianali sono puramente occasionale, funzionano come una rete di sicurezza indispensabile per le comunità costiere in tempi di crisi. Tuttavia, i dati mostrano che i piccoli pescatori in realtà catturano più pesci per gallone di carburante delle flotte industriali e, altrettanto importante, scartano meno pesce».
Per questo i governi dovrebbero muoversi con la massima urgenza per tenere lontano l'Ocean-grabbing dalle loro risorse della pesca e favorire l'utilizzo sostenibile del mare da parte delle popolazioni locali. Qualche buon esempio c'è: in Cambogia nel 2010 i diritti di sfruttamento del Tonle Sap, il più grande lago di acqua dolce del Sud Est Asiatico, sono stati concessi alle comunità di piccoli pescatori, mentre recentemente le Maldive hanno vietato la pesca industriale del tonno a favore della pesca locale "pole and line".
Per De Schutter, «Questi esempi indicano la via da seguire: le risorse della pesca devono essere co-gestite in modi che coinvolgano i piccoli pescatori che vivono di pesca come reddito base le cui comunità si basano sulle proteine del pesce locale e che hanno un interesse intrinseco nel sostenere tali risorse in futuro».
A due settimane dalla presentazione di quel rapporto all'Onu De Schutter avverte su Ecologist: «L'attuale stato dell'ambiente marino non segnala un futuro disastro ecologico, ma uno che è già qui tra noi. In tutto il mondo i sistemi alimentari e gli ecosistemi su cui si basano sono messi sotto pressione da un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali. Ma in nessuna parte questi effetti si verificano più rapidamente e drammaticamente che negli oceani del mondo».
Il relatore speciale dell'Onu, ispirandosi all'accaparramento delle terre fertili, conia il nuovo termine di "Ocean-grabbing" e se la prende soprattutto con i generosi sussidi per il carburante e la costruzione di imbarcazioni che, tra gli anni '70 e '90 hanno fatto crescere capacità di pesca 8 più velocemente del tasso di crescita degli sbarchi: «Questo ha portato ad una situazione in cui la capacità di pesca globale della flotta mondiale è almeno il doppio di quel che è necessario per sfruttare gli oceani in modo sostenibile».
Un circolo vizioso che a costretti pescherecci a calare profondità alla ricerca dei pesci, degradando cosi sempre più l'ambiente marino e riducendo gli stock ittici. «Metodi di pesca come la pesca a strascico industriale di profondità - scrive De Schutter - l'equivalente di deforestazione nelle acque profonde, si sono dimostrati particolarmente distruttivi e veri sprechi, mentre i cambiamenti climatici, l'acidificazione degli oceani e l'inquinamento hanno ulteriormente destabilizzato gli ambienti marini» e si chiede: «Di fronte a questa crisi, si è tentati di proporre soluzioni drastiche. Dovremmo smettere di mangiare pesce del tutto? Nel caso di un settore che sta precipitando lungo la china della sua stessa estinzione dovrebbe sere fermato completamente? Certo, a livello globale devono essere adottate misure urgenti per reprimere la pesca illegale, non regolamentata e non registrata (illegal, unregulated and unrecorded Iuu) ed arrestare il depauperamento degli stock ittici in via di estinzione. Ma questo può essere solo parte della soluzione, perché affronta solo parte dell'economia globale della pesca».
De Schutter ci invita a correggere lo strabismo "occidentale" con il quale guardiamo al problema dello sfruttamento del mare: «Parallelamente alle pescherecci industriali e flotte che operano a distanza, circa 12 milioni di piccoli pescatori operano nelle zone costiere marine ed interne di tutto il mondo, derivando un reddito vitale e proteine alimentari dalle attività di pesca in un modo che fornisce un contributo essenziale alla sicurezza alimentare di intere comunità».
Il consumo di pesce rappresenta il 15% di tutte le proteine animali consumate nel mondo, e 22 dei 30 Paesi nei quali la pesca contribuisce a più di un terzo della fornitura totale di proteine animali sono Paesi a basso reddito e con deficit alimentare, quindi con la maggiore insicurezza alimentare. La pesca sostiene indirettamente anche il reddito ed i mezzi di sussistenza di altri milioni di persone, spesso in zone dove altre opportunità economiche sono scarse.
Secondo De Schutter «I governi devono quindi adottare un duplice approccio che non solo abbatta le dannose pratiche industriali, ma che anche sostenga e attivamente, su piccola scala, i pescatori artigianali.
La pesca industriale ha certamente portato più pesce sulle tavole dei consumatori dei Paesi ricchi ed emergenti, ma ad un enorme costo ambientale e sociale. Gli accordi per gli accessi delle flotte straniere nelle acque dei Paesi in via di sviluppo si sono trasformati in un saccheggio, spesso senza nessuna supervisione nbè monitoraggio da parte dello Stato che ha rilasciato le licenze e da parte di quello di rovenienza dei pescherecci. «Le conseguenze di questo "Oceane-grabbing" - scrive l'inviato speciale Onu su Ecologist - sono la pesca eccessiva, le catture non dichiarate, le incursioni nelle acque protette e, nel tempo, la diversione delle preziose risorse della pesca lontano dalle popolazioni locali».
Intanto l'acquacoltura sta ampliandosi massicciamente e fornisce fino al 45% di pesce consumato dall'uomo, ma insieme alla sua produttività crescono anche gli interrogativi sulla sua sostenibilità. «Come nel caso dei i sistemi agroalimentari, il cibo si sposta in verso dove le necessità sono maggiori, ma nel punto in cui il potere d'acquisto è più elevato», evidenzia De Schutter.
Lo squilibrio di potere d'acquisto è tale che i consumatori ricchi sono disposti a pagare a caro prezzo per i pesci d'allevamento catturati in natura. L'utilizzo di pesci selvatici come mangime negli allevamenti ittici «E' come la trasformazione delle foreste pluviali in campi di soia per l'alimentazione del bestiame in Occidente: riduce l'accesso locale alle risorse alimentari e comporta un enorme footprint di risorse per ogni caloria di cibo che viene data alla fine del la catena. L'acquacoltura e i modelli di pesca industriali possono rappresentare opzioni "economiche", ma solo perché segnali economici sono distorti. Le flotte sono in grado di intascare ingenti sussidi mentre esternalizzano i costi del sovrasfruttamento e del degrado delle risorse su comunità vulnerabili, il cui accesso alle proteine del pesce e gli stili di vita legati alla pesca vanno persi, e sulle generazioni future che pagheranno il prezzo quando gli oceani di tutto il mondo saranno a secco. Nel frattempo, i piccoli pescatori costituiscono una parte fondamentale del settore in molte parti del mondo in via di sviluppo. La loro importanza è talvolta sottovalutata perché alcune di queste piccole pesche artigianali sono puramente occasionale, funzionano come una rete di sicurezza indispensabile per le comunità costiere in tempi di crisi. Tuttavia, i dati mostrano che i piccoli pescatori in realtà catturano più pesci per gallone di carburante delle flotte industriali e, altrettanto importante, scartano meno pesce».
Per questo i governi dovrebbero muoversi con la massima urgenza per tenere lontano l'Ocean-grabbing dalle loro risorse della pesca e favorire l'utilizzo sostenibile del mare da parte delle popolazioni locali. Qualche buon esempio c'è: in Cambogia nel 2010 i diritti di sfruttamento del Tonle Sap, il più grande lago di acqua dolce del Sud Est Asiatico, sono stati concessi alle comunità di piccoli pescatori, mentre recentemente le Maldive hanno vietato la pesca industriale del tonno a favore della pesca locale "pole and line".
Per De Schutter, «Questi esempi indicano la via da seguire: le risorse della pesca devono essere co-gestite in modi che coinvolgano i piccoli pescatori che vivono di pesca come reddito base le cui comunità si basano sulle proteine del pesce locale e che hanno un interesse intrinseco nel sostenere tali risorse in futuro».
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