lunedì, novembre 19, 2012
L’attuale presidente di MetaMorfosi interviene sulla politica industriale della cultura del Belpaese: c'è una possibilità concreta per creare 10 miliardi di Pil e 100mila occupati in più all’anno

Greenreport - È ormai calato il sipario sul teatro Eliseo di Roma, dove ieri hanno avuto luogo gli Stati Generali della Cultura. Nonostante l'ampio eco che sono riusciti a raccogliere - soprattutto in virtù della sensibilità dimostrata dal presidente della Repubblica durante il suo intervento - la paura è che dopo lo show tutto si fermi di nuovo. «È importante che pezzi significativi del potere economico e dell'informazione si pongano il problema dell'assoluta centralità della cultura, anche se è forse improprio parlare di Stati Generali, dato la scarsa voce - se non quella che si sono presa ieri - che hanno avuto gli operatori, i lavoratori, i precari e le piccole imprese della cultura». Ad ogni modo, commenta per greenreport.it Pietro Folena (Nella foto), presidente dell'associazione culturale MetaMorfosi, sottolineando l'aspetto più rilevante di quest'evento, è «importante iniziare, che di cultura si cominci a parlare». Certo, c'è anche un problema di sensibilità, perché se non si investe in cultura, è anche perché troppi italiani non sentono la necessità di chiedere tutela e valorizzazione per ciò che il Bel Paese ha da offrire, anche se «il mondo giovanile, sotto tanti aspetti, rappresenta una controtendenza».

Ad ogni modo, con gli Stati Generali della Cultura, non stiamo certo assistendo ad cambio di paradigma: «Sono più propenso a pensare in termini di un'aggiunta, non di un cambiamento radicale. Trovo comunque stucchevole la retorica degli investimenti sulla cultura che si accompagna ad una politica di austerità e di rigore che continua a tagliare. Anche l'attuale esecutivo è molto deficitario». L'Italia assiste ad un calo della propria attrattività culturale, tranne nei settori del design, della moda, del cibo. Questo sembra emergere dagli Stati Generali: pensa sia una visione corretta del problema? «I parametri utilizzati sono discutibili, sebbene la relazione in merito sia stata molto interessante. Penso che questa sia una fotografia: rispetto a cento anni fa, poi, dobbiamo confrontarci con altri concorrenti internazionali che prima latitavano, in questo campo. Il dato più rilevante su cui ieri non si è messo molto l'accento, la vera ragione per la quale bisogna ripensare un modello di sviluppo fondato sulla cultura, e su un nuovo rapporto tra cultura, ambiente e territorio, è però un altro».

Quale? «Il dato del rapporto tra investimenti pubblici in cultura e Pil della cultura. È questo il tema: a fronte di investimenti pubblici stimati tra 1,5 e 2 miliardi di euro, il Pil italiano della cultura vale 40 miliardi di euro annui, con 4-500mila occupati - cifre per difetto, perché una parte degli occupati sono precari, se non in nero. Dunque, per 1 euro pubblico investito in cultura ne ottieni 20 o 21: questo è il moltiplicatore. Per fare un confronto coi Paesi a noi più vicini, in Francia il rapporto è: 8 miliardi di euro all'anno di investimenti pubblici (4 volte i nostri) e un Pil della cultura che è due volte quello italiano. Dunque, il moltiplicatore francese è la metà del nostro: per 1 euro pubblico investito, in Francia il ritorno è di circa 8-10 euro. I dati tedeschi e inglesi sono vicini a quelli francesi. La Spagna ha un moltiplicatore pari a 5, ¼ del nostro circa».

Purtroppo, rimangono però in molti a credere che con la cultura non si mangi, nonostante già oggi il Pil prodotto dalla cultura nel nostro Paese non sia affatto trascurabile: realisticamente, quali sono le possibilità di sviluppo di questo settore? «Se venisse immaginata una grande politica di sviluppo economico nuova, diversa, con pilastro primario la cultura e la conoscenza, impiegando - malgrado l'austerità e il rigore - 500 milioni di euro in più al settore culturale all'anno avremmo una ricaduta proporzionale, moltiplicata per 20. Non certo meccanicamente, ma tendenzialmente potremmo avere 10 miliardi di Pil della cultura in più all'anno, e circa 100mila occupati in più all'anno. Tutto questo investendo cifre certo elevate, ma non elevatissime. Potremmo trovarle con una decisione politica, da prendere subito: investire qui piuttosto che in altri settori».

Con quali strumenti? A volte i soldi sono stati disponibili, ma non si è saputo spenderli. «Occorre un meccanismo agile che aiuti la formazione dei progetti di chi vuole affacciarsi in questo campo, offrendo anche strumenti di ricerca pubblici, e nello stesso tempo permetta di poter accedere ai finanziamenti e avanzare proposte senza tempi biblici. Oggi esiste già uno strumento del genere, anche se discutibile: si chiama Arcus - Società per lo sviluppo dell'arte, della cultura e dello spettacolo. Occorre trasformarlo in un Iri della cultura, senza un intervento pubblico così invasivo come allora: trasformando Arcus in un luogo che possa (anche in collaborazione con il sistema bancario) partecipare direttamente al finanziamento di imprese culturali profit e no-profit in un contesto di valorizzazione del patrimonio culturale».

Dove sarebbe prioritario dirigere gli investimenti? «Il primo passaggio dovrebbe essere una grande enciclopedia digitale del patrimonio culturale italiano, con una fotografia del suo stato di conservazione e della sua fruibilità al pubblico. Da lì sarebbe poi possibile individuare i principali progetti su cui puntare con affiancamento, sostegno, mecenatismo da promuovere per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, sottostando a regole precise. Tagliando il resto delle modalità laterali con le quali si erogano finanziamenti indistinti a pioggia, poggiando piuttosto su uno strumento per la politica industriale della cultura. Ecco il ragionamento di fondo da portare avanti per valorizzare il territorio. Abbiamo poi bisogno di individuare un meccanismo di fiscalità per donazioni e conferimenti che faccia capire ai privati che mettere soldi nella cultura è una scelta fiscalmente agevolata. Inoltre, occorre individuare un ventaglio di grandi brand culturali italiani sui quali puntare (sono almeno venti-trenta, tra nomi di città, di artisti, monumenti...) e valorizzare tramite politiche mirate, dal merchandising alle licenze come veicolo commerciale globale, che potrebbe finanziare anche grandi restauri».

Gli Stati Generali della Cultura sono seguiti immediatamente dopo quelli della Green Economy: dopotutto, investire in cultura significa anche crearne di nuova, quella di un nuovo e più sostenibile modello di sviluppo. I due Stati Generali rappresentano dunque due facce della stessa medaglia? «Certamente. E indicano anche un problema: siamo nella fase di un momento tecnico molto incentrato sull'austerità, sul rigore. Oggi non c'è una risposta politica al tema sollevato da entrambi gli Stati Generali. Ci possono essere due strade da perseguire: una è quella di sfruttarli come occasioni per darsi pacche sulle spalle, pensando che pensando che passata la crisi la baracca riprenderà a funzionare come prima. L'altra idea è quella di cambiare il nostro modo di consumare, di vivere, e costruendo un'ipotesi di vita e di sviluppo molto più fondata sul rispetto dell'ambiente, della consapevolezza del cibo che mangi, dell'acqua che bevi, dell'aria che respiri e sulla libertà della persona e della cultura, comprendendo l'attività e l'occupazione che si può creare ripartendo da queste basi.

L'Italia può diventare una potenza in questo campo. Green economy e cultura. Una vera potenza mondiale, in tempi anche abbastanza ravvicinati. L'Italia ha un dinamismo profondo, che può permetterle di cambiare rapidissimamente: l'abbiamo già visto, nel nostro passato».

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