La testimonianza di un incontro di Anne-Claire Galli, collaboratrice volontaria presso il servizio ecumenico OeSA per richiedenti asilo
a cura di Felicina Proserpio (CSERPE)
Amine è un giovane algerino arrivato in Svizzera con la speranza di trovare qui un lavoro onesto e una vita dignitosa, cose che nel suo paese non è riuscito ad ottenere in quattro anni di tentativi. Suo padre ha abbandonato la famiglia quando Amine era piccolo e perciò lui non ha avuto la possibilità di andare a lungo a scuola: giusto il tempo di imparare un po’ a leggere e a scrivere in arabo e in francese. Quando Amine aveva 14 anni sono iniziati i problemi in famiglia con il secondo marito di sua madre e la situazione si è fatta sempre più difficile finché il ragazzo è scappato di casa e ha cominciato a cercare di cavarsela da solo. Da circa quattro anni vive senza alcun sostegno affettivo o finanziario da parte della sua famiglia.
Amine è arrivato in Svizzera attraversando la Turchia e la Grecia, dove ha lavorato sei mesi da un contadino per potersi pagare la continuazione del viaggio. Con le sue speranze, la sua mitezza, i suoi 18 anni, ma senza documenti di identità e senza motivi considerati “rilevanti” per la sua richiesta di asilo, Amine, dopo appena sette giorni dal suo arrivo in Svizzera, si ritrova già in mano la risposta negativa alla sua richiesta di asilo. Avrei una grande voglia di dirgli: "Tanto di cappello per come hai saputo cavartela fino ad oggi”. Vorrei che avesse una chance, che avesse una possibilità di esprimere i suoi talenti, di dimostrare ciò di cui è capace. Vorrei dare a questo giovane, che ha vissuto già così a lungo povertà e solitudine, un po’ di sostegno morale. Vorrei dimostrargli un po’ di benevolenza, dargli fiducia e spingerlo ad imparare un mestiere... Invece mi tocca spiegargli le dolorose alternative che lo aspettano in seguito al respingimento della sua domanda di asilo con conseguente ordine di lasciare il territorio elvetico: un’accoglienza precaria - in attesa che la Svizzera riesca ad organizzare la sua espulsione - in qualche posto isolato tra le montagne con il cosiddetto aiuto d’emergenza e senza prospettive per il futuro o addirittura una possibile detenzione in prigione per soggiorno irregolare sul territorio svizzero. E di certo non sarebbe più facile una vita nella clandestinità, senza alcun diritto.
Sul volto di Amine in così pochi giorni ho visto passare tutto il ventaglio delle emozioni, dalla speranza alla disperazione e alla durezza. E non posso non chiedermi come mai in questo paese dove la libertà viene scritta a caratteri cubitali mi ritrovo a mani vuote, privata della libertà di dare fiducia a questo giovane. Anche se so che non è possibile per nessun paese accettare tutti coloro che chiedono accoglienza, di fronte a questa situazione – come a tante altre - mi sento molto povera, col cuore triste e pesante... Mi pesa non poter far molto per contrastare l’amarezza che le nostre leggi restrittive provocano in molti, anche giovanissimi. Mi pesa la ferita che stiamo inferendo con le nostre procedure alla loro dignità.
Continuo a chiedermi come seminare e far crescere nella nostra società quella benevolenza cordiale e quella capacità di concedere fiducia che rigenera - autoctoni e immigrati - rendendo possibile uno scambio umano e arricchente. Questi giovani spesso “costretti” a comportarsi da duri mi provocano a riflettere: ci sono lavori in Svizzera e in Europa per i quali anche la loro manodopera sarebbe preziosa. Perché gli rendiamo impossibile costruirsi un futuro?
Nel frattempo è arrivata l’ora di chiudere la caffetteria della OeSA: tutti noi volontari iniziamo come al solito a pulire, riordinare ecc. Anche Amine desidera aiutarci. Sembra voglia nonostante tutto esprimere gratitudine. Per un momento ci troviamo a collaborare tutti insieme pur nella diversità delle nostre provenienze e situazioni: forse è un preludio di quello che nasce lì dove alla durezza e all’ostilità dettate dalla paura - soprattutto nei confronti dei richiedenti asilo - si lascia spazio all’ascolto dell’altro. (Corriere degli Italiani, 12 dicembre 2012)
a cura di Felicina Proserpio (CSERPE)
Amine è un giovane algerino arrivato in Svizzera con la speranza di trovare qui un lavoro onesto e una vita dignitosa, cose che nel suo paese non è riuscito ad ottenere in quattro anni di tentativi. Suo padre ha abbandonato la famiglia quando Amine era piccolo e perciò lui non ha avuto la possibilità di andare a lungo a scuola: giusto il tempo di imparare un po’ a leggere e a scrivere in arabo e in francese. Quando Amine aveva 14 anni sono iniziati i problemi in famiglia con il secondo marito di sua madre e la situazione si è fatta sempre più difficile finché il ragazzo è scappato di casa e ha cominciato a cercare di cavarsela da solo. Da circa quattro anni vive senza alcun sostegno affettivo o finanziario da parte della sua famiglia.
Amine è arrivato in Svizzera attraversando la Turchia e la Grecia, dove ha lavorato sei mesi da un contadino per potersi pagare la continuazione del viaggio. Con le sue speranze, la sua mitezza, i suoi 18 anni, ma senza documenti di identità e senza motivi considerati “rilevanti” per la sua richiesta di asilo, Amine, dopo appena sette giorni dal suo arrivo in Svizzera, si ritrova già in mano la risposta negativa alla sua richiesta di asilo. Avrei una grande voglia di dirgli: "Tanto di cappello per come hai saputo cavartela fino ad oggi”. Vorrei che avesse una chance, che avesse una possibilità di esprimere i suoi talenti, di dimostrare ciò di cui è capace. Vorrei dare a questo giovane, che ha vissuto già così a lungo povertà e solitudine, un po’ di sostegno morale. Vorrei dimostrargli un po’ di benevolenza, dargli fiducia e spingerlo ad imparare un mestiere... Invece mi tocca spiegargli le dolorose alternative che lo aspettano in seguito al respingimento della sua domanda di asilo con conseguente ordine di lasciare il territorio elvetico: un’accoglienza precaria - in attesa che la Svizzera riesca ad organizzare la sua espulsione - in qualche posto isolato tra le montagne con il cosiddetto aiuto d’emergenza e senza prospettive per il futuro o addirittura una possibile detenzione in prigione per soggiorno irregolare sul territorio svizzero. E di certo non sarebbe più facile una vita nella clandestinità, senza alcun diritto.
Sul volto di Amine in così pochi giorni ho visto passare tutto il ventaglio delle emozioni, dalla speranza alla disperazione e alla durezza. E non posso non chiedermi come mai in questo paese dove la libertà viene scritta a caratteri cubitali mi ritrovo a mani vuote, privata della libertà di dare fiducia a questo giovane. Anche se so che non è possibile per nessun paese accettare tutti coloro che chiedono accoglienza, di fronte a questa situazione – come a tante altre - mi sento molto povera, col cuore triste e pesante... Mi pesa non poter far molto per contrastare l’amarezza che le nostre leggi restrittive provocano in molti, anche giovanissimi. Mi pesa la ferita che stiamo inferendo con le nostre procedure alla loro dignità.
Continuo a chiedermi come seminare e far crescere nella nostra società quella benevolenza cordiale e quella capacità di concedere fiducia che rigenera - autoctoni e immigrati - rendendo possibile uno scambio umano e arricchente. Questi giovani spesso “costretti” a comportarsi da duri mi provocano a riflettere: ci sono lavori in Svizzera e in Europa per i quali anche la loro manodopera sarebbe preziosa. Perché gli rendiamo impossibile costruirsi un futuro?
Nel frattempo è arrivata l’ora di chiudere la caffetteria della OeSA: tutti noi volontari iniziamo come al solito a pulire, riordinare ecc. Anche Amine desidera aiutarci. Sembra voglia nonostante tutto esprimere gratitudine. Per un momento ci troviamo a collaborare tutti insieme pur nella diversità delle nostre provenienze e situazioni: forse è un preludio di quello che nasce lì dove alla durezza e all’ostilità dettate dalla paura - soprattutto nei confronti dei richiedenti asilo - si lascia spazio all’ascolto dell’altro. (Corriere degli Italiani, 12 dicembre 2012)
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