Al termine di un lungo iter, protrattosi per quasi un anno, vede finalmente la luce il nuovo Regolamento sulle esenzioni dall’Imu per gli enti non commerciali. Tra sospetti di privilegi fiscali per la Chiesa e il timore di sanzioni europee per il nostro Paese, le polemiche non accennano a placarsi. Ma la vertenza, a livello comunitario, sembra ormai avviarsi verso la fine.
L’intero dibattito sulle esenzioni dall’Ici (ora Imu) per gli enti non commerciali è in verità viziato da una pregiudiziale ideologica da cui molti hanno difficoltà a liberarsi: la convinzione, cioè, di una normativa creata ad hoc per tutelare gli interessi finanziari degli enti della Chiesa cattolica. Su questa prospettiva così gravida di pregiudizio alcuni giornalisti e politici, anche di spicco, hanno fondato una campagna politico-mediatica, non di rado basata su un’informazione incompleta e tendenziosa, diretta a fomentare sospetti e a creare timori. Addirittura i Radicali italiani, che da tempo paventano il pericolo di una condanna in sede europea del nostro Paese per la presunta violazione delle regole comunitarie sulla concorrenza che il sistema delle esenzioni Imu realizzerebbe, hanno sollecitato loro stessi la Commissione europea ad aprire, sulla questione delle esenzioni Ici, una procedura di infrazione contro l’Italia (purtroppo ancora in atto).
Se però si va ad esaminare la normativa senza la lente deformante del pregiudizio ideologico, ci si potrà avvedere facilmente che il sistema delle esenzioni Imu riguarda una pletora sconfinata di soggetti, sia pubblici che privati, non riducibili agli enti della chiesa cattolica, che rappresentano al contrario una parte (forse neppure la prevalente) del tutto. Va poi ribadito che gli enti ecclesiastici (sia della chiesa cattolica sia di altre confessioni religiose) beneficiano dell’esenzione Imu alle condizioni generali previste per tutti gli altri enti non commerciali, in primo luogo l’utilizzazione dell’intero immobile per lo svolgimento di talune attività di interesse generale tassativamente previste (e precisamente attività assistenziali, previdenziali, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, di religione o di culto), che attraverso l’esenzione dall’imposta il legislatore ha inteso ovviamente salvaguardare e promuovere in ossequio ad una concezione “sussidiaria” dei rapporti tra il pubblico e il privato, conformemente a quanto prevede l’art. 118 Cost.
Il Governo Monti, dal canto suo, si è fatto carico dell’esigenza di definire con maggior precisione i criteri in base ai quali tutti gli enti non commerciali (e non solo quelli della Chiesa) possono usufruire dell’esenzione, allo scopo di favorire la chiusura della procedura di infrazione pendente sul nostro Paese e prevenire così il pericolo di eventuali sanzioni. E così il decreto-legge del 24 gennaio 2012 introduce un’importante precisazione circa la necessità che le attività che danno luogo all’esenzione Imu siano svolte con modalità rigorosamente non commerciali. E’ inoltre previsto che, in caso di utilizzazione mista dell’immobile (per attività commerciale e attività di natura non commerciale), l’esenzione si applichi solo alla porzione effettivamente adibita ad attività non commerciale o, comunque, in proporzione all’utilizzazione non commerciale dell’immobile, quale risulta da apposita dichiarazione.
La nuova normativa, a differenza della precedente, fa derivare il diritto all’esenzione non solo dal tipo di attività (assistenziale, didattica, ricettiva, culturale, ecc.), bensì anche dalla forma (non commerciale) con cui la medesima viene svolta. Quand’è che un’attività di rilievo sociale può dirsi svolta, secondo il diritto comunitario, con modalità non commerciale? La questione è di una certa complessità e per questo il Governo, un mese fa, ha emanato un apposito regolamento, preceduto però l’8 novembre da un importante parere del Consiglio di Stato (parere per legge obbligatorio, ma non vincolante). Il nuovo regolamento Imu, tuttavia, mosso dalla preoccupazione di evitare una “stretta” eccessiva dell’ambito di operatività delle esenzioni (che sarebbe risultata esiziale per il settore del non-profit), ha recepito solo in parte le indicazioni del Consiglio di Stato. In particolare, i giudici di Palazzo Spada avevano rilevato l’incompletezza della definizione di attività non commerciale contenuta nel regolamento, tutta imperniata sulla mancanza del fine di lucro. In realtà, osservava il Consiglio di Stato, la nozione comunitaria di attività non commerciale ruota, più che sulla mancanza di fine di lucro (con il connesso divieto di distribuire utili e avanzi di gestione e l’obbligo di impiegare gli stessi esclusivamente per finanziare attività funzionali al perseguimento di scopi di solidarietà sociale e di devolvere, in caso di scioglimento dell’ente, il patrimonio residuo ad enti che svolgono istituzionalmente attività analoghe), sulla mancanza del carattere economico dell’attività svolta dall’ente non commerciale, la quale deve essere tale da non entrare in concorrenza con analoghi servizi offerti da altri operatori economici operanti sul mercato. Da qui, il suggerimento di integrare la definizione di “modalità non commerciali”, contenuta nell’art. 1, lett. p) del Regolamento, con un esplicito riferimento alla mancanza del carattere “di attività economica come definito dal diritto dell’Unione europea”. Il nuovo decreto sulle esenzioni Imu, invece, omette di fare esplicito riferimento alla mancanza del carattere di economicità dell’attività svolta, ma precisa che “modalità non commerciale” è una modalità di svolgimento di attività, “prive di scopo di lucro”, che comunque “conformemente al diritto dell’Unione europea, per loro natura non si pongono in concorrenza con altri operatori del mercato che tale scopo perseguono” (in ciò consistendo appunto, secondo il diritto comunitario, la mancanza di economicità). Nella sostanza, quindi, l’indicazione del Consiglio di Stato, pur nella diversità di formulazione, può dirsi rispettata.
Il requisito generale dell’assenza di economicità viene poi ulteriormente precisato con riferimento alle singole tipologie di attività istituzionale svolte dall’ente, mediante l’utilizzazione di criteri non sempre omogenei. Questa scelta era stata censurata nel suo parere dal Consiglio di Stato, il quale suggeriva di usare un criterio unitario, fondato sul carattere gratuito del servizio reso o simbolico delle rette, comunque tali “da non integrare il requisito del carattere economico dell’attività, come definito dal diritto dell’Unione europea, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con il costo effettivo del servizio e della differenza rispetto ai corrispettivi medi previsti per attività analoghe svolte con modalità concorrenziale nello stesso ambito territoriale”. Anche con riferimento ai “requisiti di settore”, il Governo, nel testo definitivo del regolamento, ha preferito non recepire esattamente la formulazione proposta dal Consiglio di Stato, pur rispettando la sostanza del suggerimento dato. Così, per tutte le tipologie di attività (ad eccezione di quelle assistenziali e sanitarie svolte in regime di accreditamento o convenzionamento con lo Stato, le Regioni e gli enti locali), l’esenzione Imu viene fatta dipendere dall’erogazione del servizio a titolo gratuito o dietro corrispettivi dal carattere simbolico o comunque tali “da non superare la metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale, tenuto anche conto dell’assenza di relazione col costo effettivo del servizio”. In definitiva, stando al nuovo Regolamento, il carattere non commerciale dell’attività svolta si desume, nel caso in cui il servizio non sia reso a titolo puramente gratuito, dall’assenza di relazione col costo (deve cioè trattarsi di un servizio sotto-costo) e dalla differenza rispetto ai prezzi medi di mercato (che il decreto, superando sul punto l’indeterminatezza della definizione suggerita dai giudici amministrativi, fissa nella misura della metà rispetto a questi ultimi).
In tal modo, la disciplina nazionale parrebbe essere stata ricondotta pienamente lungo i binari del diritto comunitario, pur con gli innegabili sacrifici derivanti alle realtà che operano nel cosiddetto “terzo settore”. Si attende a questo punto la risposta, ci auguriamo positiva, della Commissione europea.
di Bartolo Salone
L’intero dibattito sulle esenzioni dall’Ici (ora Imu) per gli enti non commerciali è in verità viziato da una pregiudiziale ideologica da cui molti hanno difficoltà a liberarsi: la convinzione, cioè, di una normativa creata ad hoc per tutelare gli interessi finanziari degli enti della Chiesa cattolica. Su questa prospettiva così gravida di pregiudizio alcuni giornalisti e politici, anche di spicco, hanno fondato una campagna politico-mediatica, non di rado basata su un’informazione incompleta e tendenziosa, diretta a fomentare sospetti e a creare timori. Addirittura i Radicali italiani, che da tempo paventano il pericolo di una condanna in sede europea del nostro Paese per la presunta violazione delle regole comunitarie sulla concorrenza che il sistema delle esenzioni Imu realizzerebbe, hanno sollecitato loro stessi la Commissione europea ad aprire, sulla questione delle esenzioni Ici, una procedura di infrazione contro l’Italia (purtroppo ancora in atto).
Se però si va ad esaminare la normativa senza la lente deformante del pregiudizio ideologico, ci si potrà avvedere facilmente che il sistema delle esenzioni Imu riguarda una pletora sconfinata di soggetti, sia pubblici che privati, non riducibili agli enti della chiesa cattolica, che rappresentano al contrario una parte (forse neppure la prevalente) del tutto. Va poi ribadito che gli enti ecclesiastici (sia della chiesa cattolica sia di altre confessioni religiose) beneficiano dell’esenzione Imu alle condizioni generali previste per tutti gli altri enti non commerciali, in primo luogo l’utilizzazione dell’intero immobile per lo svolgimento di talune attività di interesse generale tassativamente previste (e precisamente attività assistenziali, previdenziali, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, di religione o di culto), che attraverso l’esenzione dall’imposta il legislatore ha inteso ovviamente salvaguardare e promuovere in ossequio ad una concezione “sussidiaria” dei rapporti tra il pubblico e il privato, conformemente a quanto prevede l’art. 118 Cost.
Il Governo Monti, dal canto suo, si è fatto carico dell’esigenza di definire con maggior precisione i criteri in base ai quali tutti gli enti non commerciali (e non solo quelli della Chiesa) possono usufruire dell’esenzione, allo scopo di favorire la chiusura della procedura di infrazione pendente sul nostro Paese e prevenire così il pericolo di eventuali sanzioni. E così il decreto-legge del 24 gennaio 2012 introduce un’importante precisazione circa la necessità che le attività che danno luogo all’esenzione Imu siano svolte con modalità rigorosamente non commerciali. E’ inoltre previsto che, in caso di utilizzazione mista dell’immobile (per attività commerciale e attività di natura non commerciale), l’esenzione si applichi solo alla porzione effettivamente adibita ad attività non commerciale o, comunque, in proporzione all’utilizzazione non commerciale dell’immobile, quale risulta da apposita dichiarazione.
La nuova normativa, a differenza della precedente, fa derivare il diritto all’esenzione non solo dal tipo di attività (assistenziale, didattica, ricettiva, culturale, ecc.), bensì anche dalla forma (non commerciale) con cui la medesima viene svolta. Quand’è che un’attività di rilievo sociale può dirsi svolta, secondo il diritto comunitario, con modalità non commerciale? La questione è di una certa complessità e per questo il Governo, un mese fa, ha emanato un apposito regolamento, preceduto però l’8 novembre da un importante parere del Consiglio di Stato (parere per legge obbligatorio, ma non vincolante). Il nuovo regolamento Imu, tuttavia, mosso dalla preoccupazione di evitare una “stretta” eccessiva dell’ambito di operatività delle esenzioni (che sarebbe risultata esiziale per il settore del non-profit), ha recepito solo in parte le indicazioni del Consiglio di Stato. In particolare, i giudici di Palazzo Spada avevano rilevato l’incompletezza della definizione di attività non commerciale contenuta nel regolamento, tutta imperniata sulla mancanza del fine di lucro. In realtà, osservava il Consiglio di Stato, la nozione comunitaria di attività non commerciale ruota, più che sulla mancanza di fine di lucro (con il connesso divieto di distribuire utili e avanzi di gestione e l’obbligo di impiegare gli stessi esclusivamente per finanziare attività funzionali al perseguimento di scopi di solidarietà sociale e di devolvere, in caso di scioglimento dell’ente, il patrimonio residuo ad enti che svolgono istituzionalmente attività analoghe), sulla mancanza del carattere economico dell’attività svolta dall’ente non commerciale, la quale deve essere tale da non entrare in concorrenza con analoghi servizi offerti da altri operatori economici operanti sul mercato. Da qui, il suggerimento di integrare la definizione di “modalità non commerciali”, contenuta nell’art. 1, lett. p) del Regolamento, con un esplicito riferimento alla mancanza del carattere “di attività economica come definito dal diritto dell’Unione europea”. Il nuovo decreto sulle esenzioni Imu, invece, omette di fare esplicito riferimento alla mancanza del carattere di economicità dell’attività svolta, ma precisa che “modalità non commerciale” è una modalità di svolgimento di attività, “prive di scopo di lucro”, che comunque “conformemente al diritto dell’Unione europea, per loro natura non si pongono in concorrenza con altri operatori del mercato che tale scopo perseguono” (in ciò consistendo appunto, secondo il diritto comunitario, la mancanza di economicità). Nella sostanza, quindi, l’indicazione del Consiglio di Stato, pur nella diversità di formulazione, può dirsi rispettata.
Il requisito generale dell’assenza di economicità viene poi ulteriormente precisato con riferimento alle singole tipologie di attività istituzionale svolte dall’ente, mediante l’utilizzazione di criteri non sempre omogenei. Questa scelta era stata censurata nel suo parere dal Consiglio di Stato, il quale suggeriva di usare un criterio unitario, fondato sul carattere gratuito del servizio reso o simbolico delle rette, comunque tali “da non integrare il requisito del carattere economico dell’attività, come definito dal diritto dell’Unione europea, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con il costo effettivo del servizio e della differenza rispetto ai corrispettivi medi previsti per attività analoghe svolte con modalità concorrenziale nello stesso ambito territoriale”. Anche con riferimento ai “requisiti di settore”, il Governo, nel testo definitivo del regolamento, ha preferito non recepire esattamente la formulazione proposta dal Consiglio di Stato, pur rispettando la sostanza del suggerimento dato. Così, per tutte le tipologie di attività (ad eccezione di quelle assistenziali e sanitarie svolte in regime di accreditamento o convenzionamento con lo Stato, le Regioni e gli enti locali), l’esenzione Imu viene fatta dipendere dall’erogazione del servizio a titolo gratuito o dietro corrispettivi dal carattere simbolico o comunque tali “da non superare la metà dei corrispettivi medi previsti per analoghe attività svolte con modalità concorrenziali nello stesso ambito territoriale, tenuto anche conto dell’assenza di relazione col costo effettivo del servizio”. In definitiva, stando al nuovo Regolamento, il carattere non commerciale dell’attività svolta si desume, nel caso in cui il servizio non sia reso a titolo puramente gratuito, dall’assenza di relazione col costo (deve cioè trattarsi di un servizio sotto-costo) e dalla differenza rispetto ai prezzi medi di mercato (che il decreto, superando sul punto l’indeterminatezza della definizione suggerita dai giudici amministrativi, fissa nella misura della metà rispetto a questi ultimi).
In tal modo, la disciplina nazionale parrebbe essere stata ricondotta pienamente lungo i binari del diritto comunitario, pur con gli innegabili sacrifici derivanti alle realtà che operano nel cosiddetto “terzo settore”. Si attende a questo punto la risposta, ci auguriamo positiva, della Commissione europea.
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