Per invertire la rotta e rilanciare l'economia degli Stati impantanati nella crisi come l'Italia, servirebbero nuovi investimenti e un'Unione europea più coraggiosa e lungimirante. Un approfondimento.
Città Nuova - Cosa rimane da fare per aver accesso all’acqua ad un gruppo di agricoltori che si sia svenato per mettere su un consorzio di irrigazione, se poi questo è paralizzato dai debiti, magari perché il presidente ha assunto stuoli di belle segretarie per il suo ufficio? I soci bidonati potranno cambiare il presidente, ma non certo mettere su un’altra istituzione che faccia quello che l’altra non riesce a fare. E finché pian piano il consorzio non avrà ripagato i suoi debiti, di finanziare nuovi impianti non se ne parla di sicuro, e nel frattempo non resterà altro da fare che accontentarsi della poca acqua che arriva dai canali scavati solo per metà.
Quegli agricoltori siamo noi singoli cittadini, famiglie, imprese, associazioni, insomma un’intera collettività nazionale che attraverso le sue istituzioni pubbliche sperava di essersi dotata di uno strumento adeguato a rispondere ai problemi di interesse comune. Che sono tanti, dalla lotta alla criminalità alla messa in sicurezza degli argini dei fiumi, ma quello che più ha a che fare con la crisi in cui siamo intrappolati è garantire un elevato volume di attività economica. Come quegli agricoltori hanno bisogno che quando non piove qualcuno pompi acqua nei canali di irrigazione, così lavoratori e imprese hanno bisogno che quando i consumi e gli investimenti privati si avvitano in una spirale al ribasso ci sia qualcun altro che immetta nel sistema una domanda di beni sostitutiva. Il tanto celebrato "new deal" di Roosevelt negli Usa del 1933 fu proprio questo: grandi lavori pubblici, che crearono decine di migliaia di nuovi occupati, che spendendo le nuove paghe diedero da lavorare ad altre decine di migliaia di sarti, fornai, macellai, muratori, che a loro volta spesero i nuovi guadagni, e così via in una spirale, stavolta, al rialzo.
Ora purtroppo lo Stato italiano è nelle condizioni di quel consorzio di irrigazione, quindi il compito di spendere di più (sottointeso, in progetti utili) proprio nei momenti di ristagno non è in grado di assolverlo. Perché è in quelle condizioni? Prima di tutto perché ha speso troppo negli anni di vacche grasse (magari non grassissime, ma comunque abbastanza polpose) e poi perché non ha nessuno che gli faccia ancora credito (i mercati finanziari ricomprano ancora i suoi titoli in scadenza, ma minacciano di non farlo più se non taglia le spese e non si fa pagare di più dai suoi ‘soci’). Come alcuni giustamente osservano, se lo Stato italiano avesse ancora una sua banca centrale pronta ad erogare quanto richiesto, potrebbe continuare a spendere senza precisi limiti, anche se già sovraindebitato. In questo momento di allarme rosso sarebbe, almeno nell’immediato, una benedizione. Il fatto è che a questa possibilità abbiamo progressivamente rinunciato, a partire dal 1981, e per una ben precisa ragione: i governi, avendo le rotative della Banca d’Italia pronte ai loro ordini per stampare moneta, non erano spinti a gestire le finanze pubbliche con la dovuta serietà; di conseguenza l’inflazione, dopo un decennio sempre sopra il 10 per cento, era arrivata a superare il 20 per cento e, ovviamente, la lira continuava allegramente a deprezzarsi nei mercati valutari.
L’ultimo passo di questa rinuncia è stato l’ingresso nell’euro nel 1999. Una sciagura? Non la considerò tale ad esempio la Toscana, quando da Granducato indipendente con il suo fiorino scelse di entrare a far parte dello Stato italiano, adottando quindi la lira, e neanche la Repubblica del Texas, quando entrando a far parte degli Stati Uniti rinunciò al dollaro texano. Anche perché quando un territorio rinuncia alla sua autonomia monetaria per entrare in un’entità politica più ampia, poi potrà contare sulla solidarietà di tutti i nuovi concittadini, a cui ora è legato da una comune appartenenza. Purtroppo questo avviene solo in parte nell’attuale incompleta costruzione europea. Da un lato i singoli Stati non hanno ceduto pienamente la loro sovranità, e ne hanno spesso approfittato per fare scelte sconsiderate; dall’altro né l’intera Unione né l’insieme dei paesi dell’area euro sentono la piena responsabilità di far sì che anche in Grecia, Spagna o Italia ci siano opportunità di lavoro per tutti, come oggi ce ne sono in discreta misura in Germania, Olanda o Finlandia. Come se ne esce? Prima di tutto occorre guardare ai fatti senza partigianerie, riconoscendo le colpe, accettando i necessari controlli, ma anche avendo presenti le comuni responsabilità, e tra queste la necessità che l’Europa spenda di più subito. Nei giorni scorsi c’è stato un negoziato sul bilancio dell’Unione Europea. Nonostante la necessità di ampliarlo per finanziare progetti di investimento (in materia di risparmio energetico, di energie pulite, di riassetto del territorio…) che rilancino l’attività economica soprattutto nei Paesi in cui la disoccupazione dilaga, molte voci erano orientate invece a ridurlo.
Nel frattempo l’Europa del Sud si avvita nella recessione. In mezzo a questo quadro sconfortante, proviamo a guardare le cose da un altro punto di vista. Questa crisi ha avuto l’effetto di rafforzare i legami tra i Paesi europei, anche se molto più lentamente di quanto si vorrebbe: basti pensare alla creazione del Meccanismo di Stabilità Europeo (ESM), all’ampliamento dei compiti della Banca Centrale, alla prossima unificazione della vigilanza sul sistema bancario. Ora resta da fare un altro scatto. Il 5 dicembre il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, in accordo con Barroso, Juncker e Draghi (responsabili di altre istituzioni dell’Unione), ha presentato il documento “Verso una vera unione economica e monetaria”. Le pagine non sono molte, le cose sono dette con molto equilibrio, ma la strada che indica è proprio quella di una maggiore responsabilità dell’Unione verso i singoli Paesi, controbilanciata da una maggiore responsabilità di questi ultimi nei confronti dell’Unione, che altrimenti dovrebbe tamponare le falle di scelte populiste di breve respiro. Ho avuto in mano in questi giorni la presentazione di un convegno, “Disegnare il futuro”, promosso da un gruppo di giovani cristiani impegnati nel mondo dell’economia che invitano a pensare al 2040. Credo che se tutti ogni tanto sapessimo guardare più lontano molte situazioni di stallo si sbloccherebbero. Politici europei, iniziate voi, per favore!
Città Nuova - Cosa rimane da fare per aver accesso all’acqua ad un gruppo di agricoltori che si sia svenato per mettere su un consorzio di irrigazione, se poi questo è paralizzato dai debiti, magari perché il presidente ha assunto stuoli di belle segretarie per il suo ufficio? I soci bidonati potranno cambiare il presidente, ma non certo mettere su un’altra istituzione che faccia quello che l’altra non riesce a fare. E finché pian piano il consorzio non avrà ripagato i suoi debiti, di finanziare nuovi impianti non se ne parla di sicuro, e nel frattempo non resterà altro da fare che accontentarsi della poca acqua che arriva dai canali scavati solo per metà.
Quegli agricoltori siamo noi singoli cittadini, famiglie, imprese, associazioni, insomma un’intera collettività nazionale che attraverso le sue istituzioni pubbliche sperava di essersi dotata di uno strumento adeguato a rispondere ai problemi di interesse comune. Che sono tanti, dalla lotta alla criminalità alla messa in sicurezza degli argini dei fiumi, ma quello che più ha a che fare con la crisi in cui siamo intrappolati è garantire un elevato volume di attività economica. Come quegli agricoltori hanno bisogno che quando non piove qualcuno pompi acqua nei canali di irrigazione, così lavoratori e imprese hanno bisogno che quando i consumi e gli investimenti privati si avvitano in una spirale al ribasso ci sia qualcun altro che immetta nel sistema una domanda di beni sostitutiva. Il tanto celebrato "new deal" di Roosevelt negli Usa del 1933 fu proprio questo: grandi lavori pubblici, che crearono decine di migliaia di nuovi occupati, che spendendo le nuove paghe diedero da lavorare ad altre decine di migliaia di sarti, fornai, macellai, muratori, che a loro volta spesero i nuovi guadagni, e così via in una spirale, stavolta, al rialzo.
Ora purtroppo lo Stato italiano è nelle condizioni di quel consorzio di irrigazione, quindi il compito di spendere di più (sottointeso, in progetti utili) proprio nei momenti di ristagno non è in grado di assolverlo. Perché è in quelle condizioni? Prima di tutto perché ha speso troppo negli anni di vacche grasse (magari non grassissime, ma comunque abbastanza polpose) e poi perché non ha nessuno che gli faccia ancora credito (i mercati finanziari ricomprano ancora i suoi titoli in scadenza, ma minacciano di non farlo più se non taglia le spese e non si fa pagare di più dai suoi ‘soci’). Come alcuni giustamente osservano, se lo Stato italiano avesse ancora una sua banca centrale pronta ad erogare quanto richiesto, potrebbe continuare a spendere senza precisi limiti, anche se già sovraindebitato. In questo momento di allarme rosso sarebbe, almeno nell’immediato, una benedizione. Il fatto è che a questa possibilità abbiamo progressivamente rinunciato, a partire dal 1981, e per una ben precisa ragione: i governi, avendo le rotative della Banca d’Italia pronte ai loro ordini per stampare moneta, non erano spinti a gestire le finanze pubbliche con la dovuta serietà; di conseguenza l’inflazione, dopo un decennio sempre sopra il 10 per cento, era arrivata a superare il 20 per cento e, ovviamente, la lira continuava allegramente a deprezzarsi nei mercati valutari.
L’ultimo passo di questa rinuncia è stato l’ingresso nell’euro nel 1999. Una sciagura? Non la considerò tale ad esempio la Toscana, quando da Granducato indipendente con il suo fiorino scelse di entrare a far parte dello Stato italiano, adottando quindi la lira, e neanche la Repubblica del Texas, quando entrando a far parte degli Stati Uniti rinunciò al dollaro texano. Anche perché quando un territorio rinuncia alla sua autonomia monetaria per entrare in un’entità politica più ampia, poi potrà contare sulla solidarietà di tutti i nuovi concittadini, a cui ora è legato da una comune appartenenza. Purtroppo questo avviene solo in parte nell’attuale incompleta costruzione europea. Da un lato i singoli Stati non hanno ceduto pienamente la loro sovranità, e ne hanno spesso approfittato per fare scelte sconsiderate; dall’altro né l’intera Unione né l’insieme dei paesi dell’area euro sentono la piena responsabilità di far sì che anche in Grecia, Spagna o Italia ci siano opportunità di lavoro per tutti, come oggi ce ne sono in discreta misura in Germania, Olanda o Finlandia. Come se ne esce? Prima di tutto occorre guardare ai fatti senza partigianerie, riconoscendo le colpe, accettando i necessari controlli, ma anche avendo presenti le comuni responsabilità, e tra queste la necessità che l’Europa spenda di più subito. Nei giorni scorsi c’è stato un negoziato sul bilancio dell’Unione Europea. Nonostante la necessità di ampliarlo per finanziare progetti di investimento (in materia di risparmio energetico, di energie pulite, di riassetto del territorio…) che rilancino l’attività economica soprattutto nei Paesi in cui la disoccupazione dilaga, molte voci erano orientate invece a ridurlo.
Nel frattempo l’Europa del Sud si avvita nella recessione. In mezzo a questo quadro sconfortante, proviamo a guardare le cose da un altro punto di vista. Questa crisi ha avuto l’effetto di rafforzare i legami tra i Paesi europei, anche se molto più lentamente di quanto si vorrebbe: basti pensare alla creazione del Meccanismo di Stabilità Europeo (ESM), all’ampliamento dei compiti della Banca Centrale, alla prossima unificazione della vigilanza sul sistema bancario. Ora resta da fare un altro scatto. Il 5 dicembre il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, in accordo con Barroso, Juncker e Draghi (responsabili di altre istituzioni dell’Unione), ha presentato il documento “Verso una vera unione economica e monetaria”. Le pagine non sono molte, le cose sono dette con molto equilibrio, ma la strada che indica è proprio quella di una maggiore responsabilità dell’Unione verso i singoli Paesi, controbilanciata da una maggiore responsabilità di questi ultimi nei confronti dell’Unione, che altrimenti dovrebbe tamponare le falle di scelte populiste di breve respiro. Ho avuto in mano in questi giorni la presentazione di un convegno, “Disegnare il futuro”, promosso da un gruppo di giovani cristiani impegnati nel mondo dell’economia che invitano a pensare al 2040. Credo che se tutti ogni tanto sapessimo guardare più lontano molte situazioni di stallo si sbloccherebbero. Politici europei, iniziate voi, per favore!
Benedetta Gui
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