Nel Paese dei mammoni, la gravidanza è ancora un lusso che non tutte le donne si possono permettere. Servono politiche per la famiglia e sostegni concreti e duraturi, altrimenti ad ogni figlio che arriva, aumenta il rischio di povertà per tutta la famiglia
Città Nuova - Il dato più eclatante, parlando di maternità e lavoro, è che l'Italia sembra essere tornata indietro di secoli, ritrovandosi improvvisamente nell'Ottocento, quando le donne disonorate erano costrette a nascondere i cosiddetti figli della colpa. Eppure, di colpa, in questa vicenda, non ce n'è. C'è solo un desiderio, quello di avere figli, che è sempre più difficile da realizzare, soprattutto quando si è costrette a mascherare il pancione per non perdere il posto di lavoro.
Di lavoro (negato) e maternità se n'è parlato nei giorni scorsi nel corso di un convegno che si è svolto a Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma, grazie ad un'idea del gruppo di Controparola, di cui fanno parte giornaliste e scrittrici, da Dacia Maraini e Giuliana Sgrena, stanche dell'immagine consumistica che accompagna il corpo della donna.
«Sempre più spesso la gravidanza viene considerata una malattia da debellare. Ma è possibile dover ricorrere a continui sotterfugi per nascondere la gravidanza, che dovrebbe invece - ha affermato Maraini - essere considerata un bene comune? Le ricerche hanno dimostrato che se ci sono i servizi come i nidi e maggiore elasticità sul lavoro le donne producono molto di più». E invece, i dati, sono ancora sconfortanti. In Italia, infatti, quasi una donna su quattro non riesce a conservare il proprio impiego dopo la maternità e sono soprattutto le precarie a dover rinunciare ai figli, nell'attesa di una sempre più improbabile stabilizzazione.
Ad ogni bimbo che arriva, inoltre, la famiglia rischia di sprofondare nel baratro della povertà, che colpisce più i piccoli che i grandi. Il tasso di povertà generale degli adulti, in Italia, è dell'otto per cento. Quello dei minori che vivono con loro arriva invece al 28,6 per cento. Perché questa differenza? Perché, spiega la sociologa della famiglia Chiara Saraceno, la povertà familiare si riflette sui bambini con un peso maggiore che sui genitori, per la presenza dei fratelli. «C'è una differenza enorme tra l'avere un figlio o averne tre: in quest'ultimo caso il rischio per tutta la famiglia di finire in povertà diventa altissimo». Anche perché per ogni bimbo che arriva, cresce la percentuale delle donne che rinunciano al lavoro. L'occupazione femminile in Italia è molto bassa e si attesta al 50,6 per le donne senza figli. Con un figlio sotto i 15 anni la percentuale scende al 45,5. Col secondo si arriva al 35,9, con tre figli si finisce al 31 per cento. Ma stiamo ancora parlando di quelle poche fortunate che hanno un lavoro che, in qualche modo, le tutela: donne istruite e soprattutto del Nord. Tutt'altra storia per quelle che hanno un basso livello di istruzione o vivono al Sud.
Il problema, almeno in Italia, sembra soprattutto culturale. La maternità, afferma Saraceno, è ritenuta un evento talmente importante e totalizzante da obbigare la donna a rinunciare a tutto - il lavoro, la realizzazione professionale - per accudire il bambino. E se per chi lavora si pone la scelta "o figli o lavoro", per chi un impiego non c'è l'ha non c'è alternativa. Per le precarie, assicura, non c'è né figlio né lavoro. Un fenomeno dilaniante, soprattutto se accompagnato dalla riprovazione generale quando, di fronte ai dati della natalità in Italia, si afferma che le italiane dovrebbero fare almeno un figlio in più. La tesi di Saraceno è suffragata dai dati. Non è Milano la città con la natalità più bassa, ma Catania. Una città, questa, dove non si rinuncia alla maternità per la carriera, ma per dedicarsi totalmente al lavoro, per dimostrare di essere affidabile e cercare di conquistare la stabilità. Le pressioni sono tantissime e non solo sul lavoro. Spesso sono anche le madri, le suocere e i mariti a premere sulla donna affinché rinunci al lavoro per stare con i figli.
La stessa Saraceno, madre di due ragazze, lo ha vissuto in prima persona. «Quando erano piccole - racconta - intervenivo ad una trasmissione alla radio. Un giorno ha telefonato mia madre. Non ha rivelato la sua identità, ma io l'ho riconosciuta, e ha criticato le giovani donne, come me, che consegnavano i figli nelle mani di estranei... Oggi mia madre avrebbe cento anni, ma purtroppo nel nostro Paese si ragiona ancora così».
Città Nuova - Il dato più eclatante, parlando di maternità e lavoro, è che l'Italia sembra essere tornata indietro di secoli, ritrovandosi improvvisamente nell'Ottocento, quando le donne disonorate erano costrette a nascondere i cosiddetti figli della colpa. Eppure, di colpa, in questa vicenda, non ce n'è. C'è solo un desiderio, quello di avere figli, che è sempre più difficile da realizzare, soprattutto quando si è costrette a mascherare il pancione per non perdere il posto di lavoro.
Di lavoro (negato) e maternità se n'è parlato nei giorni scorsi nel corso di un convegno che si è svolto a Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma, grazie ad un'idea del gruppo di Controparola, di cui fanno parte giornaliste e scrittrici, da Dacia Maraini e Giuliana Sgrena, stanche dell'immagine consumistica che accompagna il corpo della donna.
«Sempre più spesso la gravidanza viene considerata una malattia da debellare. Ma è possibile dover ricorrere a continui sotterfugi per nascondere la gravidanza, che dovrebbe invece - ha affermato Maraini - essere considerata un bene comune? Le ricerche hanno dimostrato che se ci sono i servizi come i nidi e maggiore elasticità sul lavoro le donne producono molto di più». E invece, i dati, sono ancora sconfortanti. In Italia, infatti, quasi una donna su quattro non riesce a conservare il proprio impiego dopo la maternità e sono soprattutto le precarie a dover rinunciare ai figli, nell'attesa di una sempre più improbabile stabilizzazione.
Ad ogni bimbo che arriva, inoltre, la famiglia rischia di sprofondare nel baratro della povertà, che colpisce più i piccoli che i grandi. Il tasso di povertà generale degli adulti, in Italia, è dell'otto per cento. Quello dei minori che vivono con loro arriva invece al 28,6 per cento. Perché questa differenza? Perché, spiega la sociologa della famiglia Chiara Saraceno, la povertà familiare si riflette sui bambini con un peso maggiore che sui genitori, per la presenza dei fratelli. «C'è una differenza enorme tra l'avere un figlio o averne tre: in quest'ultimo caso il rischio per tutta la famiglia di finire in povertà diventa altissimo». Anche perché per ogni bimbo che arriva, cresce la percentuale delle donne che rinunciano al lavoro. L'occupazione femminile in Italia è molto bassa e si attesta al 50,6 per le donne senza figli. Con un figlio sotto i 15 anni la percentuale scende al 45,5. Col secondo si arriva al 35,9, con tre figli si finisce al 31 per cento. Ma stiamo ancora parlando di quelle poche fortunate che hanno un lavoro che, in qualche modo, le tutela: donne istruite e soprattutto del Nord. Tutt'altra storia per quelle che hanno un basso livello di istruzione o vivono al Sud.
Il problema, almeno in Italia, sembra soprattutto culturale. La maternità, afferma Saraceno, è ritenuta un evento talmente importante e totalizzante da obbigare la donna a rinunciare a tutto - il lavoro, la realizzazione professionale - per accudire il bambino. E se per chi lavora si pone la scelta "o figli o lavoro", per chi un impiego non c'è l'ha non c'è alternativa. Per le precarie, assicura, non c'è né figlio né lavoro. Un fenomeno dilaniante, soprattutto se accompagnato dalla riprovazione generale quando, di fronte ai dati della natalità in Italia, si afferma che le italiane dovrebbero fare almeno un figlio in più. La tesi di Saraceno è suffragata dai dati. Non è Milano la città con la natalità più bassa, ma Catania. Una città, questa, dove non si rinuncia alla maternità per la carriera, ma per dedicarsi totalmente al lavoro, per dimostrare di essere affidabile e cercare di conquistare la stabilità. Le pressioni sono tantissime e non solo sul lavoro. Spesso sono anche le madri, le suocere e i mariti a premere sulla donna affinché rinunci al lavoro per stare con i figli.
La stessa Saraceno, madre di due ragazze, lo ha vissuto in prima persona. «Quando erano piccole - racconta - intervenivo ad una trasmissione alla radio. Un giorno ha telefonato mia madre. Non ha rivelato la sua identità, ma io l'ho riconosciuta, e ha criticato le giovani donne, come me, che consegnavano i figli nelle mani di estranei... Oggi mia madre avrebbe cento anni, ma purtroppo nel nostro Paese si ragiona ancora così».
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