domenica, dicembre 30, 2012
Note a margine del caso del sacerdote di Lerici che, sulla porta della parrocchia, ha affisso un articolo dove si imputa alle donne la responsabilità dei femminicidi. Fiaccolate in città come segno di protesta ed espressioni di condanna anche dal presidente della Cei, Bagnasco

Città Nuova - Cercare un nesso causale tra violenza sulle donne, fino alla loro eliminazione fisica, e autonomia, arroganza o indipendenza (con il corollario di una presunta minor cura dei figli e della casa) da parte delle donne stesse, è impresa dissennata. Non solo. Ci impone di reagire con particolare sdegno, perché se la Chiesa lungo i secoli non sempre si è distinta per particolare attenzione alle donne e alla loro dignità, oggi di fronte ad una società profondamente mutata nel proprio assetto culturale, deve essere capace di parole forti, che isolino chi pensi e scriva parole pericolose e offensive, e di comportamenti coerenti e conseguenti.

E mi domando: coloro che cercano di leggere nell’aumento delle violenze domestiche e del numero dei femminicidi l’esito di un processo di emancipazione delle donne dove traggono alimento al loro folle argomentare?

Forse nel loro processo di crescita umana e spirituale sono stati più numerosi gli appuntamenti con la vita andati perduti di quelli colti per acquisire maggiore spessore umano. Forse nell’adolescenza non hanno avuto modo di maturare relazioni sane e positive con le ragazze della propria età, magari su una bella spiaggia o durante una gita in montagna, occasioni nelle quali le pulsioni naturali del corpo e le ragioni del cuore cominciano a trovare equilibrio.

Forse durante gli anni del liceo non hanno avuto modo di apprezzare quanto possano essere brave a scuola le ragazze, autonome nel giudizio, desiderose di cambiare il mondo, libere da modelli e schemi. Forse negli anni del seminario non hanno trovato un ambiente consono ad educare il proprio spirito religioso all’alterità, al femminile, alla differenza, senza le quali anche la vita di un consacrato si ingrigisce e perde di fascino.

Forse divenendo uomini e cittadini non hanno avuto modo di rendersi conto che siamo figli di una delle Costituzioni più belle del mondo, che all’articolo 3 sancisce la pari dignità e l’uguaglianza di uomini e donne davanti alla legge.

Forse assumendo l’incarico di educatori, di pastori, di guide di una comunità non si sono resi conto che nella vita pubblica bisogna sapersi esprimere come uomini maturi, in equilibrio con le proprie pulsioni, come cittadini dotati di spirito civile, come religiosi animati da visione profetica e sapienziale ispirata al “uomo e donna Dio li creò” a propria immagine e somiglianza. E nessun chierico, di nessun tempo, è ancora riuscito a dimostrare che Dio sia maschio.

Forse, forse, forse…l’emergenza educativa che tanto angustia la Chiesa deve fare oggi i conti con tutti questi forse.

Il fatto che possano esistere ancora uomini - e uomini di Chiesa - che lungo gli snodi della loro formazione a scuola, in oratorio, in università, in seminario, nel loro processo di apprendimento umano, culturale e spirituale non abbiano avuto occasione di capire quale incredibile mistero divino si celi dietro il maschile e il femminile, imparando a stigmatizzare ogni forma di discriminazione e violenza verso la donna, il bambino, il più debole, deve interrogarci profondamente.

Sono adeguati i nostri modelli educativi e formativi? Le comunità ecclesiali sono il luogo dove la differenza diventa ricchezza? La violenza affonda le sue radici nella mancata educazione, nella credenza, nel pregiudizio radicato. Solo un’educazione ispirata all’eguaglianza, al rispetto, alla reciprocità, all’amicizia tra i generi, può costituire un antidoto all’insorgere della violenza e dell’odio.

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