Mi presento: sono un uomo, alla nascita sono stato chiamato Eliseo. È grazie a mio padre che appartengo alla tribù dei Citton. All’età di 11 anni ho conosciuto e mi sono innamorato della famiglia religiosa dei Missionari Comboniani e praticamente ne faccio parte da allora. È dal 1988 che sono prete cattolico. Nel 1992, il 14 settembre, sono venuto per la prima volta in Ethiopia. Ho lavorato e mi sono immerso nella vita, lingua e cultura della popolazione Guji - Oromo - fino al 2000, vi sono poi ritornato nel gennaio 2006 ed è qui che attualmente mi trovo.
Etiopia, Haro Waato venerdì 21 dicembre 2012 giorno della fine … di “un” mondo. Giovedì 11 ottobre scorso la mattina sono partito da Hawassa assieme ad abba Mehari (parroco di Haro Waato) per fare ritorno alla nostra missione. Arrivati ad Abosto abba Mehari ha proseguito con i mezzi pubblici per Dilla (dove lo avrei raccolto nel pomeriggio) mentre io con la macchina, un Toyota Pick-up, mi sono direttoalla missione di Shafina, per andare a salutare le suore della congregazione locale “Handmaid of the Church” con cui ho vissuto per più di un anno e fermarmi a pranzo da loro. Verso le 10.30 poco prima di Mance, non molto distante dalla nostra scuola cattolica ho incrociato abba Guddisa (parroco di Shafina). Mi sono fermato a salutarlo, siamo scesi dalla macchina e abbiamo chiacchierato per un po’! Entrambi siamo poi ripartiti, ed io dopo pochi minuti raggiungevo felicemente la missione dove ho trovato suor Areggash e Messeret che mi aspettavano.
Poco prima di mezzogiorno le suore e un infermiere della clinica, vengono di corsa tutte agitate a cercarmi perché si è radunata gente in missione e sta dicendo che un ferenji (uno straniero) ha tirato sotto un bambino con la sua macchina. Esco dalla casa delle suore e in lingua oromo spiego all’infermiere (Marqos) che non era possibile che avessi tirato sotto un bambino senza neppure accorgermene. E che di fatto non avevo visto proprio niente … forse si trattava di un’altra macchina. In pochi minuti tutta la missione si è riempita di gente e anche la temperatura emotiva si è fatta rovente. Le suore e la polizia locale mi hanno spinto a forza e chiuso in casa dicendomi di non uscire. Lo stesso infermiere con cui poco prima avevo cercato di far capire il malinteso, anziché aiutare a chiarire le cose e fare da paciere, contribuisce invece a far riscaldare gli animi. Al grido “ferenji abbi, ferenji abbi” (porta qui lo straniero, porta qui lo straniero) alcuni della folla hanno cominciato a prendere a pugni e calci la macchina. La polizia ha dovuto sparare un colpo a salve per far scendere la temperatura e disperdere un po’ la folla. Chiuso dentro casa, assistevo impotente; ero incredulo al pensiero che senza alcuna verifica del fatto mi avrebbero dato addosso e magari anche linciato (mi rendo conto come nel corso di tutta la storia umana ma specialmente in certe epoche tante persone innocenti sono state tolte di mezzo proprio “montando” dinamiche di questo tipo). Non sentivo paura del linciaggio fisico, ero anche pronto ad affrontarli; ma mi sentivo agghiacciare al pensiero di poter avere veramente ucciso un bambino senza essermene accorto. Dentro di me non trovavo requie, anche se ero convinto di non aver sfiorato alcun bambino! Eppure anche se l’accusa che mi facevano non mi sembrava verosimile, per un istante perfino io sono arrivato a credere di più alla loro visione distorta e alle loro grida che non alla realtà dei fatti che avevo vissuto in prima persona.
Un primo colpo di aria buona è arrivato con la notizia che il bambino non era morto; e questo ha fatto calare di colpo e di parecchio tutte le temperature, anche la mia. A questo punto col mio Toyota pick-up pieno di poliziotti (di scorta) non mi restava che andare a Irgalem a consegnarmi alla più vicina stazione di polizia per dare la mia versione dei fatti e vedere di sistemare il caos in cui mi ero trovato. Ero venuto a Shafina per passarmi qualche ora in santa pace e guarda in che cosa mi trovo impantanato. Mentre sono in viaggio per Irgalem, mi arrivano una dopo l’altra telefonate delle suore di Shafina e di Dawit (direttore laico della scuola della missione) che rettificano sempre più in positivo le condizioni di salute del bambino. Ma è solo quando telefono a abba Guddisa per metterlo al corrente dell’accaduto; che di colpo capisco cosa è veramente successo. Quando al mattino mi ero fermato sulla strada presso Mance per salutarlo, nel momento in cui ci eravamo lasciati il bambino, a mia insaputa, si era aggrappato e nascosto dietro la sponda del Pick-up … abba Guddisa e quelli che erano con lui lo avevano visto e avevano anche inutilmente tentato di segnalarmelo con gesti e a colpi di clacson. Essendo io in prossimità di una curva, come sono ripartito non ho visto né sentito loro e neppure il bambino che rotolava a terra riportando ferite qua e la nel suo piccolo corpo e una bella botta in testa. La sua voce e le cose che mi dice mi rasserenano un poco; e sono comunque contento di trovarlo ancora ad Irgalem e infatti mi darà una bella mano per concludere tutto il processo con la polizia, portando anche la sua testimonianza, e di quelli nella macchina con lui, che nel momento in cui ci eravamo lasciati avevano visto il ragazzo aggrapparsi e nascondersi dietro alla macchina. Sono quasi le cinque del pomeriggio quando il processo presso la polizia viene chiuso con la firma di un documento da parte del papà del ragazzo e di altri quattro “anziani” in cui accettano di chiudere il caso. E io stesso posso lasciare la stazione della polizia con la mia macchina anche grazie al fatto che abba Guddisa firma e fa da garante per me.
Anche se è pomeriggio inoltrato abba Guddisa ha bisogno di proseguire per Hawassa per sbrigare alcune sue faccende; però mi da appuntamento al giorno successivo per concludere, a casa del ferito, il processo di rappacificazione con la famiglia del ragazzo “reo e innocente”. Non mi resta che dormire a Shafina, dove anche abba Mehari, tornato da Dilla con un mezzo pubblico, viene a passare la notte. Il giorno seguente, 12 ottobre primo venerdì del secondo mese etiopico (Teqemt), io e Mehari celebriamo in Sidamo la messa nella chiesa di Shafina … dopo la messa sono letteralmente assalito da donne, uomini e giovani che vengono a “congratularmi” e a benedire Iddio per lo scampato pericolo. Abba Guddisa arriva verso le dieci. Dopo aver consumato il pranzo assieme alle suore, abba Guddisa ci raduna tutti e ci mette al corrente della situazione che sta volgendo a una conclusione positiva e delle “spese” del caso (la diaria da dare a 5 poliziotti che ci hanno seguito, un contributo per la famiglia del ragazzo, e altre spese) viene un totale di tremila birr. A quel punto succede qualcosa che non mi aspettavo. Mentre io ero ovviamente e occidentalmente pronto a saldare tutto l’ammontare della spesa per tirarmi fuori prima possibile da quella situazione spiacevole e imbarazzante; abba Guddisa mi lascia senza parole mentre pronuncia questa decisione: “io come parrocchia pago mille birr, voi suore altri mille e il padre mille birr”! E così di fatto facciamo! Dopo pranzo, abba Guddisa con la sua macchina porta abba Mehari, gli uomini -specialmente Alemu- che dal giorno precedente avevano seguito e accompagnato le dinamiche di riconciliazione e un poliziotto; e io con Suor Areggash e Messeret col pick-up, li seguiamo verso la casa del ragazzo. Anche loro ci stanno aspettando: seduti all’aperto c’è un folto gruppo di “anziani” e il papà del ragazzo. Una cinepresa non sarebbe bastata a raccogliere le dinamiche di Vita che si sono susseguite per riportare la pace. Il padre che non voleva a nessun costo accettare soldi si è sottomesso all’accordo tra le due parti di anziani, accettando un aiuto di 500 birr rispetto ai 2000 che erano stati offerti. L’arte della parola, i gesti, i silenzi e un significativo pasto simbolico conclusivo hanno trasfigurato una dinamica di riduzione della realtà a “meccanismi di colpevole- innocente”, in un “atto creativo di corresponsabilità per la Vita”! Ho avvertito tutta la mia povertà mentale abituata a semplificare troppo i fatti della Vita; a togliere all’innocente la sua parte di responsabilità; a convivere tranquillamente con una organizzazione non equa della realtà e delle relazioni vitali!
Terminato l’incontro, abba Mehari ed io, ci mettiamo sulla via del ritorno; e per strada parliamo di tutte queste cose che ci sono successe. Abbiamo partecipato a una dinamica complessa di guarigione che ha fatto crescere tutti, e ha riportato “pace”. Una pace che non è un ristabilire gli equilibri e l’ordine precedente ma la creazione di un “equilibrio nuovo”, arricchito dalla benedizione di “nuove” relazioni umane rese possibili dall’esperienza vissuta. Una pace che non è “risarcire qualcuno”, ma “integrare e far crescere tutti”. Arriviamo ad Haro Waato che è già buio. Anche se sono molto stanco trovo il tempo di dare un forte abbraccio e rassicurare il mio “bambino interiore” che preoccupato mi chiede: “ma valeva la pena perdere due giorni per sistemare una cosa in cui tu non c’entravi per niente?” … e ancora mi incalza: “ma era giusto che pagassi anche tu che eri innocente?”. Lo guardo, gli sorrido e lo abbraccio rispondendogli: “per la mente forse no, ma per le viscere si … si, è giusto e buono così!”.
Il Natale cristiano, ma anche ogni Natale umano, sono sacramento del tenero abbraccio con cui, “al di la” di ogni contraddizione, l‘Ontologico benedice, incoraggia, rigenera e sana la Vita di tutte le sue creature: con la nascita, la rinascita … il nuovo inizio! L’abbraccio di Jaweh Dio è un abbraccio “viscerale”: un abbraccio con cui dà Vita, guarisce, fa crescere e rinnova ogni essere umano, i popoli, le culture, le religioni, il tempo e la storia. Le nostre relazioni diventano anonime e l’acqua della nostra Vita diventa stagnante quando ci si sottrae a questo “vento della Vita”: ricominciare, nascere di nuovo, distinguersi da ciò che si è “già” costruito, per crescere ancora. Il Natale è la festa delle viscere! Tutti quanti abbiamo vissuto il nostro tempo e spazio originali in stretto contatto con le viscere, il grembo materno. Lo Spirito della Vita mi porta a soffermarmi sempre più spesso sul valore del “primo asinello” che ci ha caricati su di sé per nove mesi: la pancia, l’utero di una donna –nostra mamma-, per permetterci di nascere nella nostra vera terra, nella nostra Betlemme. Le viscere sono il luogo che la Provvidenza ha predisposto per concepire il nostro essere e fargli vivere uno straordinario viaggio. Le viscere sono il “paradiso terrestre” dei nostri primi mesi di Vita! Sono le viscere quelle che ci generano alla Vita, che ci accolgono così come siamo! Eppure esse non ci trattengono … ci consegnano invece allo spazio tempo della nostra cultura familiare e religiosa; ci incoraggiano a intraprendere la grande avventura della ragione. Ecco perché quando la nostra testa si appoggia alle viscere sta bene, torna a casa … sulla pancia trova riposo; quando invece sono le viscere che vengono obbligate a salire nella testa non stiamo bene! Il Natale ci restituisce ogni anno al nostro primo orientamento naturale: la ragione, la mente trova pace tornando alle viscere! Trova pace quando in esse si addormenta come un bambino/a in braccio a sua madre/padre!
La mente-ragione ha bisogno di riconoscere le decisioni-orientamenti viscerali e lasciarsi da esse raggiungere e abbracciare. Quando la testa si dissocia dalle viscere, quando la logica non si integra con l’intelligenza viscerale … le decisioni individuali sono fragili … fondate sulla sabbia. Tante alleanze odierne, tante promesse, matrimoni, voti … non sono fondate sulla roccia antropologica (le viscere); perciò mancando di un loro fondamento … sono soggette a improvvisi, repentini (per la mente incomprensibili e inaspettati) mutamenti. Molte delusioni e fallimenti nelle relazioni umane sono una naturale conseguenza del nostro collegamento univoco alle ragioni mentali su cui abbiamo fondato una alleanza, un patto, una scelta. Il Natale ci spinge a recuperare il naturale collegamento alle ragioni viscerali, ci chiama in campo proprio rispetto alle carenze nella nostra dimensione viscerale. Il Natale è una potente dinamica di integrazione della razionalità logico mentale con la razionalità primordiale delle viscere. L’intelligenza viscerale, le ragioni e le vibrazioni emotive sono una “forza prima” della natura creata, che orienta nel profondo e nutre continuamente di “senso” tutto l’agire vitale!
Quando le ragioni razionali vogliono delegittimare e scartare quelle viscerali si fa un grande buco nell’acqua! Anche all’origine del cristianesimo c’è l’esperienza viva, viscerale della persona di Gesù. È la persona di Gesù e l’esperienza viscerale di Lui (relazione personale) la fonte sorgiva del cristianesimo, anche oggi. La primogenitura del “cristianesimo” non spetta a quella chiesa che ha una teologia più profonda o più corretta ma a quella chiesa, comunità di persone, che vive e si nutre maggiormente di questa esperienza. In questo senso potremmo dire che il cristianesimo, in realtà, attraversa trasversalmente tutte le contrapposte cristianità che nel corso di questi venti secoli si sono vicendevolmente opposte, scontrate, violentate, distinte, separate, allontanate … proprio perché attingevano a ragioni razionali piuttosto che ascoltare/celebrare l’esperienza fondante custodita infallibilmente nell’esperienza viscerale dell’incontro con Gesù di Nazareth! Quando una chiesa cessa di attingere a questa sorgente, smarrisce tale primogenitura!
Gli avvenimenti forti della Vita, quelli che ci sorprendono improvvisamente, sono pensati e creati dalla Provvidenza proprio per farci crescere bevendo alla nostra sorgente naturale: le viscere. L’intelligenza delle viscere ha la forza di aiutarci a “vedere oltre”! Ci insegna come non fermarci alla “scorza” o alle apparenze dei fatti rischiando di perdere la “sostanza” più nutriente di ciò che ci accade. Il Natale di Gesù, per me, fa parte di questa economia provvidenziale. Questa intuizione si è fatta strada in me in questi anni illuminata sia da profondi mutamenti avvenuti rispetto a “relazioni forti” importanti della mia Vita: quelle naturali (della mia famiglia d’origine) e quelle acquisite (Chiesa, Congregazione, amicizie, CMS Foggia); ma anche da tante situazioni pratiche, concrete, vissute in Etiopia! Mi trovo sempre più spesso a vivere situazioni, avvenimenti … il cui significato integrale andrebbe smarrito se mi limitassi a fare lo scandalizzato, o a riempirmi la bocca di moralismi. Il loro significato profondo mi resterebbe in gran parte celato, se tentassi di accedervi solo per via razionale senza chiedere l’aiuto all’intelligenza viscerale! E lo stesso potremmo dire di tanti avvenimenti che continuano a sorprenderci oggi nella scena mondiale, italiana, etiopica, africana … familiare, personale, relazionale.
Il giorno dopo la conclusione dell’incidente (perché per la mia mente resta tale) di Shafina, sabato 13 ottobre qui ad Haro Waato, ho presenziato il funerale di una bimba, di nome Caltu, di circa 10 anni morta probabilmente di tubercolosi. Prima della celebrazione ho visto il suo corpo gracile simile a un filo d’erba avvolto da un modesto panno bianco. Il panno con cui l’avevano avvolta era troppo piccolo e così quando hanno messo il suo corpo nella piccola bara fatta di 4 tavole … ho visto un’istante il suo volto sfuggito furtivo al buio della morte … e l’ho riconosciuta … le mie viscere hanno pianto! Primogenita di Desta e Beqqelech Teferi ha lasciato tre fratellini più piccoli. Assieme al papà ho dato la prima picconata per scavare la tomba dove la piccola bara col suo piccolo tesoro dopo la messa sarebbe stata affidata alle “viscere” della terra … alla Provvidenza. Insieme a un moto di protesta, dalle mie viscere è uscita una preghiera: che il sorriso e la luce della Vita non vengano mai meno nel volto dei bambini.
Lunedì 22 ottobre la Provvidenza me ne preparava un altra delle sue. Verso le sette di mattina avevo visto che Suor Gemma, la suora incaricata della clinica, era agitata. Andava avanti indietro, si muoveva senza trovare pace mentre organizzava l’ambulanza per portare in ospedale a Dilla una giovane donna: Asteri (Ester) figlia di Hottessa. Forse appena vent’enne, proveniente da Hangaddì, la giovane era stata portata da una clinica a un’altra senza successo. Domenica pomeriggio, accompagnata da un gruppetto di persone tra le quali forse i parenti più stretti erano la sua mamma e un nonno, Suor Gemma era riuscita ad aiutarla a partorire, si era anche liberata della placenta ma un’infezione post parto non le permetteva di riprendersi, stava proprio male. La suora, qualche ora dopo il parto, aveva dovuto raccogliere, abbandonata nel prato, la borsetta di plastica nera contenente il corpicino del bimbo che non ce l’aveva fatta a nascere vivo. Quando verso le nove del mattino l’ambulanza era pronta a partire le mie viscere hanno visto la notte. Ma non saprei dire se il suo volto era quello dalla piccola borsetta di plastica nera che la suora aveva in mano e con la quale nessuno voleva a che fare; o se aveva il volto della nostra paura di adulti che non volevamo prenderci cura di quel corpicino nato e già morto. Appena sento con le mie orecchie che il giovane autista dell’ambulanza rimprovera i parenti e li ammonisce dicendo di non fare tante storie e di prendere con loro il corpicino nell’ambulanza e di disfarsene gettandolo appena possibile nella foresta (che non manca nel tragitto tra Haro Waato e Dilla); per impulso afferro io stesso la borsetta di plastica che giace nell’ambulanza vicino alla ruota di scorta. E mentre l’ambulanza parte veloce, io mi dirigo deciso verso un angolo della clinica quasi costringendo un vecchio e un giovane, unici due parenti rimasti, a seguirmi per scavare con me; per dare sepoltura e consegnare dignitosamente al Dio della Vita, alla terra, quel piccolo corpo d’uomo. Capivo che non volevano assumersi questo compito perché tradizionalmente è un compito che spetta al padre del bimbo. Ma quell’uomo, quel padre non c’era, non era vicino, e non era neppure accanto alla sua donna; era dunque nostro compito fare in quel momento da padri a quel piccolo corpo che la Vita aveva trasfigurato e che ora nessuno voleva! Mentre don Giovanni, un prete amico di padre Ramon, venuto da Verona per visitarci e stare qualche giorno con noi, assiste silenzioso e partecipa triste a quel succedersi inaspettato di eventi, comincio io con la zappa a dare i primi colpi sulla terra; dopo di me anche gli altri due si mettono di lena a scavare la piccola fossa.
Dopo aver scavato un po’ meno di un metro, calo il corpo leggero nella sua tomba e lo tolgo dalla borsa di nailon lasciandolo avvolto da quel panno bianco dipinto dal rosso del suo sangue con cui la suora il giorno prima lo aveva avvolto. Il cattivo odore che emana mi fa pensare a Gesù e al suo amico Lazzaro. Penso ad Asteri, la sua giovane mamma, che non so se ce la farà. Come è costume tra i Guji per i morti adulti, proteggo il suo corpo con dei piccoli pezzi di legno sui quali mettiamo un bel po’ di frasche verdi. Prima di calare la terra, un po’ in Guji, un po’ in italiano, don Giovanni, i due “cirenei” ed io benediciamo e affidiamo al Dio della Vita i resti mortali di quella piccola creatura battezzata nel sangue. Con l’assenso di don Giovanni, decido di chiamarlo Eliseo e chiedo a quel piccolo spirito una benedizione profonda per la sua terra e il suo popolo! Una piccola croce piantata in quel luogo sarà per un po’ un segno visibile dei nove mesi di una storia infinita che anche questo piccolo essere ha avuto la grazia di scrivere rispondendo a una segreta e antica chiamata misteriosa della Provvidenza!!!
Le viscere (il Natale) spesso ci avvertono, ci sussurrano verità nascoste e ci mostrano bisogni vitali, ci indicano direzioni, ci incoraggiano, ci frenano … ci spingono a fare cose o a prendere decisioni molto prima che siano o diventino chiare per la mente. Il “viscerino” è la lingua parlata dalla Provvidenza, è nelle viscere che Yahweh-Dio ci parla, ci incontra e ci mostra il suo volto. Solo le viscere hanno accesso a certe dimensioni vitali, per questo riescono a comprendere il senso profondo di eventi complessi, spesso contradditori, che per la mente sembrano assurdi, inconcepibili e inspiegabili!
Le viscere (il Natale) hanno la forza di ricollegarci al nostro cuore, al nostro inizio e al nostro “fine”, al nostro fondo comune, a ciò che ci unisce; esse possiedono la luce capace di illuminare la nostra Vita di un punto di vista di cui la mente ha tanto bisogno e tanta nostalgia.
Buon Natale e nuovo 2013 … con affetto un abbraccio viscerale e una benedizione reciproca
Eliseo Gurraccha
Etiopia, Haro Waato venerdì 21 dicembre 2012 giorno della fine … di “un” mondo. Giovedì 11 ottobre scorso la mattina sono partito da Hawassa assieme ad abba Mehari (parroco di Haro Waato) per fare ritorno alla nostra missione. Arrivati ad Abosto abba Mehari ha proseguito con i mezzi pubblici per Dilla (dove lo avrei raccolto nel pomeriggio) mentre io con la macchina, un Toyota Pick-up, mi sono direttoalla missione di Shafina, per andare a salutare le suore della congregazione locale “Handmaid of the Church” con cui ho vissuto per più di un anno e fermarmi a pranzo da loro. Verso le 10.30 poco prima di Mance, non molto distante dalla nostra scuola cattolica ho incrociato abba Guddisa (parroco di Shafina). Mi sono fermato a salutarlo, siamo scesi dalla macchina e abbiamo chiacchierato per un po’! Entrambi siamo poi ripartiti, ed io dopo pochi minuti raggiungevo felicemente la missione dove ho trovato suor Areggash e Messeret che mi aspettavano.
Poco prima di mezzogiorno le suore e un infermiere della clinica, vengono di corsa tutte agitate a cercarmi perché si è radunata gente in missione e sta dicendo che un ferenji (uno straniero) ha tirato sotto un bambino con la sua macchina. Esco dalla casa delle suore e in lingua oromo spiego all’infermiere (Marqos) che non era possibile che avessi tirato sotto un bambino senza neppure accorgermene. E che di fatto non avevo visto proprio niente … forse si trattava di un’altra macchina. In pochi minuti tutta la missione si è riempita di gente e anche la temperatura emotiva si è fatta rovente. Le suore e la polizia locale mi hanno spinto a forza e chiuso in casa dicendomi di non uscire. Lo stesso infermiere con cui poco prima avevo cercato di far capire il malinteso, anziché aiutare a chiarire le cose e fare da paciere, contribuisce invece a far riscaldare gli animi. Al grido “ferenji abbi, ferenji abbi” (porta qui lo straniero, porta qui lo straniero) alcuni della folla hanno cominciato a prendere a pugni e calci la macchina. La polizia ha dovuto sparare un colpo a salve per far scendere la temperatura e disperdere un po’ la folla. Chiuso dentro casa, assistevo impotente; ero incredulo al pensiero che senza alcuna verifica del fatto mi avrebbero dato addosso e magari anche linciato (mi rendo conto come nel corso di tutta la storia umana ma specialmente in certe epoche tante persone innocenti sono state tolte di mezzo proprio “montando” dinamiche di questo tipo). Non sentivo paura del linciaggio fisico, ero anche pronto ad affrontarli; ma mi sentivo agghiacciare al pensiero di poter avere veramente ucciso un bambino senza essermene accorto. Dentro di me non trovavo requie, anche se ero convinto di non aver sfiorato alcun bambino! Eppure anche se l’accusa che mi facevano non mi sembrava verosimile, per un istante perfino io sono arrivato a credere di più alla loro visione distorta e alle loro grida che non alla realtà dei fatti che avevo vissuto in prima persona.
Un primo colpo di aria buona è arrivato con la notizia che il bambino non era morto; e questo ha fatto calare di colpo e di parecchio tutte le temperature, anche la mia. A questo punto col mio Toyota pick-up pieno di poliziotti (di scorta) non mi restava che andare a Irgalem a consegnarmi alla più vicina stazione di polizia per dare la mia versione dei fatti e vedere di sistemare il caos in cui mi ero trovato. Ero venuto a Shafina per passarmi qualche ora in santa pace e guarda in che cosa mi trovo impantanato. Mentre sono in viaggio per Irgalem, mi arrivano una dopo l’altra telefonate delle suore di Shafina e di Dawit (direttore laico della scuola della missione) che rettificano sempre più in positivo le condizioni di salute del bambino. Ma è solo quando telefono a abba Guddisa per metterlo al corrente dell’accaduto; che di colpo capisco cosa è veramente successo. Quando al mattino mi ero fermato sulla strada presso Mance per salutarlo, nel momento in cui ci eravamo lasciati il bambino, a mia insaputa, si era aggrappato e nascosto dietro la sponda del Pick-up … abba Guddisa e quelli che erano con lui lo avevano visto e avevano anche inutilmente tentato di segnalarmelo con gesti e a colpi di clacson. Essendo io in prossimità di una curva, come sono ripartito non ho visto né sentito loro e neppure il bambino che rotolava a terra riportando ferite qua e la nel suo piccolo corpo e una bella botta in testa. La sua voce e le cose che mi dice mi rasserenano un poco; e sono comunque contento di trovarlo ancora ad Irgalem e infatti mi darà una bella mano per concludere tutto il processo con la polizia, portando anche la sua testimonianza, e di quelli nella macchina con lui, che nel momento in cui ci eravamo lasciati avevano visto il ragazzo aggrapparsi e nascondersi dietro alla macchina. Sono quasi le cinque del pomeriggio quando il processo presso la polizia viene chiuso con la firma di un documento da parte del papà del ragazzo e di altri quattro “anziani” in cui accettano di chiudere il caso. E io stesso posso lasciare la stazione della polizia con la mia macchina anche grazie al fatto che abba Guddisa firma e fa da garante per me.
Anche se è pomeriggio inoltrato abba Guddisa ha bisogno di proseguire per Hawassa per sbrigare alcune sue faccende; però mi da appuntamento al giorno successivo per concludere, a casa del ferito, il processo di rappacificazione con la famiglia del ragazzo “reo e innocente”. Non mi resta che dormire a Shafina, dove anche abba Mehari, tornato da Dilla con un mezzo pubblico, viene a passare la notte. Il giorno seguente, 12 ottobre primo venerdì del secondo mese etiopico (Teqemt), io e Mehari celebriamo in Sidamo la messa nella chiesa di Shafina … dopo la messa sono letteralmente assalito da donne, uomini e giovani che vengono a “congratularmi” e a benedire Iddio per lo scampato pericolo. Abba Guddisa arriva verso le dieci. Dopo aver consumato il pranzo assieme alle suore, abba Guddisa ci raduna tutti e ci mette al corrente della situazione che sta volgendo a una conclusione positiva e delle “spese” del caso (la diaria da dare a 5 poliziotti che ci hanno seguito, un contributo per la famiglia del ragazzo, e altre spese) viene un totale di tremila birr. A quel punto succede qualcosa che non mi aspettavo. Mentre io ero ovviamente e occidentalmente pronto a saldare tutto l’ammontare della spesa per tirarmi fuori prima possibile da quella situazione spiacevole e imbarazzante; abba Guddisa mi lascia senza parole mentre pronuncia questa decisione: “io come parrocchia pago mille birr, voi suore altri mille e il padre mille birr”! E così di fatto facciamo! Dopo pranzo, abba Guddisa con la sua macchina porta abba Mehari, gli uomini -specialmente Alemu- che dal giorno precedente avevano seguito e accompagnato le dinamiche di riconciliazione e un poliziotto; e io con Suor Areggash e Messeret col pick-up, li seguiamo verso la casa del ragazzo. Anche loro ci stanno aspettando: seduti all’aperto c’è un folto gruppo di “anziani” e il papà del ragazzo. Una cinepresa non sarebbe bastata a raccogliere le dinamiche di Vita che si sono susseguite per riportare la pace. Il padre che non voleva a nessun costo accettare soldi si è sottomesso all’accordo tra le due parti di anziani, accettando un aiuto di 500 birr rispetto ai 2000 che erano stati offerti. L’arte della parola, i gesti, i silenzi e un significativo pasto simbolico conclusivo hanno trasfigurato una dinamica di riduzione della realtà a “meccanismi di colpevole- innocente”, in un “atto creativo di corresponsabilità per la Vita”! Ho avvertito tutta la mia povertà mentale abituata a semplificare troppo i fatti della Vita; a togliere all’innocente la sua parte di responsabilità; a convivere tranquillamente con una organizzazione non equa della realtà e delle relazioni vitali!
Terminato l’incontro, abba Mehari ed io, ci mettiamo sulla via del ritorno; e per strada parliamo di tutte queste cose che ci sono successe. Abbiamo partecipato a una dinamica complessa di guarigione che ha fatto crescere tutti, e ha riportato “pace”. Una pace che non è un ristabilire gli equilibri e l’ordine precedente ma la creazione di un “equilibrio nuovo”, arricchito dalla benedizione di “nuove” relazioni umane rese possibili dall’esperienza vissuta. Una pace che non è “risarcire qualcuno”, ma “integrare e far crescere tutti”. Arriviamo ad Haro Waato che è già buio. Anche se sono molto stanco trovo il tempo di dare un forte abbraccio e rassicurare il mio “bambino interiore” che preoccupato mi chiede: “ma valeva la pena perdere due giorni per sistemare una cosa in cui tu non c’entravi per niente?” … e ancora mi incalza: “ma era giusto che pagassi anche tu che eri innocente?”. Lo guardo, gli sorrido e lo abbraccio rispondendogli: “per la mente forse no, ma per le viscere si … si, è giusto e buono così!”.
Il Natale cristiano, ma anche ogni Natale umano, sono sacramento del tenero abbraccio con cui, “al di la” di ogni contraddizione, l‘Ontologico benedice, incoraggia, rigenera e sana la Vita di tutte le sue creature: con la nascita, la rinascita … il nuovo inizio! L’abbraccio di Jaweh Dio è un abbraccio “viscerale”: un abbraccio con cui dà Vita, guarisce, fa crescere e rinnova ogni essere umano, i popoli, le culture, le religioni, il tempo e la storia. Le nostre relazioni diventano anonime e l’acqua della nostra Vita diventa stagnante quando ci si sottrae a questo “vento della Vita”: ricominciare, nascere di nuovo, distinguersi da ciò che si è “già” costruito, per crescere ancora. Il Natale è la festa delle viscere! Tutti quanti abbiamo vissuto il nostro tempo e spazio originali in stretto contatto con le viscere, il grembo materno. Lo Spirito della Vita mi porta a soffermarmi sempre più spesso sul valore del “primo asinello” che ci ha caricati su di sé per nove mesi: la pancia, l’utero di una donna –nostra mamma-, per permetterci di nascere nella nostra vera terra, nella nostra Betlemme. Le viscere sono il luogo che la Provvidenza ha predisposto per concepire il nostro essere e fargli vivere uno straordinario viaggio. Le viscere sono il “paradiso terrestre” dei nostri primi mesi di Vita! Sono le viscere quelle che ci generano alla Vita, che ci accolgono così come siamo! Eppure esse non ci trattengono … ci consegnano invece allo spazio tempo della nostra cultura familiare e religiosa; ci incoraggiano a intraprendere la grande avventura della ragione. Ecco perché quando la nostra testa si appoggia alle viscere sta bene, torna a casa … sulla pancia trova riposo; quando invece sono le viscere che vengono obbligate a salire nella testa non stiamo bene! Il Natale ci restituisce ogni anno al nostro primo orientamento naturale: la ragione, la mente trova pace tornando alle viscere! Trova pace quando in esse si addormenta come un bambino/a in braccio a sua madre/padre!
La mente-ragione ha bisogno di riconoscere le decisioni-orientamenti viscerali e lasciarsi da esse raggiungere e abbracciare. Quando la testa si dissocia dalle viscere, quando la logica non si integra con l’intelligenza viscerale … le decisioni individuali sono fragili … fondate sulla sabbia. Tante alleanze odierne, tante promesse, matrimoni, voti … non sono fondate sulla roccia antropologica (le viscere); perciò mancando di un loro fondamento … sono soggette a improvvisi, repentini (per la mente incomprensibili e inaspettati) mutamenti. Molte delusioni e fallimenti nelle relazioni umane sono una naturale conseguenza del nostro collegamento univoco alle ragioni mentali su cui abbiamo fondato una alleanza, un patto, una scelta. Il Natale ci spinge a recuperare il naturale collegamento alle ragioni viscerali, ci chiama in campo proprio rispetto alle carenze nella nostra dimensione viscerale. Il Natale è una potente dinamica di integrazione della razionalità logico mentale con la razionalità primordiale delle viscere. L’intelligenza viscerale, le ragioni e le vibrazioni emotive sono una “forza prima” della natura creata, che orienta nel profondo e nutre continuamente di “senso” tutto l’agire vitale!
Quando le ragioni razionali vogliono delegittimare e scartare quelle viscerali si fa un grande buco nell’acqua! Anche all’origine del cristianesimo c’è l’esperienza viva, viscerale della persona di Gesù. È la persona di Gesù e l’esperienza viscerale di Lui (relazione personale) la fonte sorgiva del cristianesimo, anche oggi. La primogenitura del “cristianesimo” non spetta a quella chiesa che ha una teologia più profonda o più corretta ma a quella chiesa, comunità di persone, che vive e si nutre maggiormente di questa esperienza. In questo senso potremmo dire che il cristianesimo, in realtà, attraversa trasversalmente tutte le contrapposte cristianità che nel corso di questi venti secoli si sono vicendevolmente opposte, scontrate, violentate, distinte, separate, allontanate … proprio perché attingevano a ragioni razionali piuttosto che ascoltare/celebrare l’esperienza fondante custodita infallibilmente nell’esperienza viscerale dell’incontro con Gesù di Nazareth! Quando una chiesa cessa di attingere a questa sorgente, smarrisce tale primogenitura!
Gli avvenimenti forti della Vita, quelli che ci sorprendono improvvisamente, sono pensati e creati dalla Provvidenza proprio per farci crescere bevendo alla nostra sorgente naturale: le viscere. L’intelligenza delle viscere ha la forza di aiutarci a “vedere oltre”! Ci insegna come non fermarci alla “scorza” o alle apparenze dei fatti rischiando di perdere la “sostanza” più nutriente di ciò che ci accade. Il Natale di Gesù, per me, fa parte di questa economia provvidenziale. Questa intuizione si è fatta strada in me in questi anni illuminata sia da profondi mutamenti avvenuti rispetto a “relazioni forti” importanti della mia Vita: quelle naturali (della mia famiglia d’origine) e quelle acquisite (Chiesa, Congregazione, amicizie, CMS Foggia); ma anche da tante situazioni pratiche, concrete, vissute in Etiopia! Mi trovo sempre più spesso a vivere situazioni, avvenimenti … il cui significato integrale andrebbe smarrito se mi limitassi a fare lo scandalizzato, o a riempirmi la bocca di moralismi. Il loro significato profondo mi resterebbe in gran parte celato, se tentassi di accedervi solo per via razionale senza chiedere l’aiuto all’intelligenza viscerale! E lo stesso potremmo dire di tanti avvenimenti che continuano a sorprenderci oggi nella scena mondiale, italiana, etiopica, africana … familiare, personale, relazionale.
Il giorno dopo la conclusione dell’incidente (perché per la mia mente resta tale) di Shafina, sabato 13 ottobre qui ad Haro Waato, ho presenziato il funerale di una bimba, di nome Caltu, di circa 10 anni morta probabilmente di tubercolosi. Prima della celebrazione ho visto il suo corpo gracile simile a un filo d’erba avvolto da un modesto panno bianco. Il panno con cui l’avevano avvolta era troppo piccolo e così quando hanno messo il suo corpo nella piccola bara fatta di 4 tavole … ho visto un’istante il suo volto sfuggito furtivo al buio della morte … e l’ho riconosciuta … le mie viscere hanno pianto! Primogenita di Desta e Beqqelech Teferi ha lasciato tre fratellini più piccoli. Assieme al papà ho dato la prima picconata per scavare la tomba dove la piccola bara col suo piccolo tesoro dopo la messa sarebbe stata affidata alle “viscere” della terra … alla Provvidenza. Insieme a un moto di protesta, dalle mie viscere è uscita una preghiera: che il sorriso e la luce della Vita non vengano mai meno nel volto dei bambini.
Lunedì 22 ottobre la Provvidenza me ne preparava un altra delle sue. Verso le sette di mattina avevo visto che Suor Gemma, la suora incaricata della clinica, era agitata. Andava avanti indietro, si muoveva senza trovare pace mentre organizzava l’ambulanza per portare in ospedale a Dilla una giovane donna: Asteri (Ester) figlia di Hottessa. Forse appena vent’enne, proveniente da Hangaddì, la giovane era stata portata da una clinica a un’altra senza successo. Domenica pomeriggio, accompagnata da un gruppetto di persone tra le quali forse i parenti più stretti erano la sua mamma e un nonno, Suor Gemma era riuscita ad aiutarla a partorire, si era anche liberata della placenta ma un’infezione post parto non le permetteva di riprendersi, stava proprio male. La suora, qualche ora dopo il parto, aveva dovuto raccogliere, abbandonata nel prato, la borsetta di plastica nera contenente il corpicino del bimbo che non ce l’aveva fatta a nascere vivo. Quando verso le nove del mattino l’ambulanza era pronta a partire le mie viscere hanno visto la notte. Ma non saprei dire se il suo volto era quello dalla piccola borsetta di plastica nera che la suora aveva in mano e con la quale nessuno voleva a che fare; o se aveva il volto della nostra paura di adulti che non volevamo prenderci cura di quel corpicino nato e già morto. Appena sento con le mie orecchie che il giovane autista dell’ambulanza rimprovera i parenti e li ammonisce dicendo di non fare tante storie e di prendere con loro il corpicino nell’ambulanza e di disfarsene gettandolo appena possibile nella foresta (che non manca nel tragitto tra Haro Waato e Dilla); per impulso afferro io stesso la borsetta di plastica che giace nell’ambulanza vicino alla ruota di scorta. E mentre l’ambulanza parte veloce, io mi dirigo deciso verso un angolo della clinica quasi costringendo un vecchio e un giovane, unici due parenti rimasti, a seguirmi per scavare con me; per dare sepoltura e consegnare dignitosamente al Dio della Vita, alla terra, quel piccolo corpo d’uomo. Capivo che non volevano assumersi questo compito perché tradizionalmente è un compito che spetta al padre del bimbo. Ma quell’uomo, quel padre non c’era, non era vicino, e non era neppure accanto alla sua donna; era dunque nostro compito fare in quel momento da padri a quel piccolo corpo che la Vita aveva trasfigurato e che ora nessuno voleva! Mentre don Giovanni, un prete amico di padre Ramon, venuto da Verona per visitarci e stare qualche giorno con noi, assiste silenzioso e partecipa triste a quel succedersi inaspettato di eventi, comincio io con la zappa a dare i primi colpi sulla terra; dopo di me anche gli altri due si mettono di lena a scavare la piccola fossa.
Dopo aver scavato un po’ meno di un metro, calo il corpo leggero nella sua tomba e lo tolgo dalla borsa di nailon lasciandolo avvolto da quel panno bianco dipinto dal rosso del suo sangue con cui la suora il giorno prima lo aveva avvolto. Il cattivo odore che emana mi fa pensare a Gesù e al suo amico Lazzaro. Penso ad Asteri, la sua giovane mamma, che non so se ce la farà. Come è costume tra i Guji per i morti adulti, proteggo il suo corpo con dei piccoli pezzi di legno sui quali mettiamo un bel po’ di frasche verdi. Prima di calare la terra, un po’ in Guji, un po’ in italiano, don Giovanni, i due “cirenei” ed io benediciamo e affidiamo al Dio della Vita i resti mortali di quella piccola creatura battezzata nel sangue. Con l’assenso di don Giovanni, decido di chiamarlo Eliseo e chiedo a quel piccolo spirito una benedizione profonda per la sua terra e il suo popolo! Una piccola croce piantata in quel luogo sarà per un po’ un segno visibile dei nove mesi di una storia infinita che anche questo piccolo essere ha avuto la grazia di scrivere rispondendo a una segreta e antica chiamata misteriosa della Provvidenza!!!
Le viscere (il Natale) spesso ci avvertono, ci sussurrano verità nascoste e ci mostrano bisogni vitali, ci indicano direzioni, ci incoraggiano, ci frenano … ci spingono a fare cose o a prendere decisioni molto prima che siano o diventino chiare per la mente. Il “viscerino” è la lingua parlata dalla Provvidenza, è nelle viscere che Yahweh-Dio ci parla, ci incontra e ci mostra il suo volto. Solo le viscere hanno accesso a certe dimensioni vitali, per questo riescono a comprendere il senso profondo di eventi complessi, spesso contradditori, che per la mente sembrano assurdi, inconcepibili e inspiegabili!
Le viscere (il Natale) hanno la forza di ricollegarci al nostro cuore, al nostro inizio e al nostro “fine”, al nostro fondo comune, a ciò che ci unisce; esse possiedono la luce capace di illuminare la nostra Vita di un punto di vista di cui la mente ha tanto bisogno e tanta nostalgia.
Buon Natale e nuovo 2013 … con affetto un abbraccio viscerale e una benedizione reciproca
Eliseo Gurraccha
Tweet |
Sono presenti 0 commenti
Inserisci un commento
Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.