Servono programmi che incoraggino i grandi imprenditori ad investire i propri capitali in Italia, piuttosto che in titoli a rischio o in impianti delocalizzati dove la forza lavoro costa meno. E serve indicare alle piccole e medie imprese vie di uscita dallo strangolamento fra costo del denaro bancario e pressione fiscale.
Città Nuova - La nostra Costituzione è la più bella di tutte, ci ha ricordato recentemente nel programma su Rai1 Benigni. E così, davvero, appare sin dai suoi primi quattro articoli. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (art.1). E’ straordinaria l’idea, condivisa dai nostri padri costituenti, di una democrazia fondata sul lavoro, giacché evoca l’immagine di una società che considera il lavoro come strumento di liberazione ed emancipazione personale in un quadro di compatibilità con l’interesse generale. Nella cornice dei diritti inviolabili dell’uomo che la Costituzione s’impegna a riconoscere e garantire (art.2), il lavoro trova dignità assoluta, in riferimento alla libertà ed alla uguaglianza che lo Stato deve poter assicurare a tutti i cittadini, rimuovendo ogni ostacolo di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art.3). Non si tratta di un optional, ma dell’adempimento, da parte dello Stato, dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (ancora l’art.2); perché é allo Stato che spetta il riconoscimento del diritto al lavoro per tutti i cittadini e la promozione delle condizioni che rendano effettivo questo diritto (art.4).
Con i piedi per terra Purtroppo, oggi, nell’immaginario collettivo del nostro Paese, queste parole rischiano di apparire come un libro dei sogni. I dati Istat di recente pubblicazione, riferiti a novembre 2012, ci consegnano un quadro drammatico. I disoccupati sono circa 3 milioni (tasso 11 per cento). Tra i 15-24enni il tasso di disoccupazione raggiunge il 37 per cento. Siamo ai massimi livelli di disoccupazione dal 2004 (nel caso dei giovani addirittura dal 1992). Non c’è dubbio che quanti si candidano a governare il Paese abbiano il dovere di porre il tema del lavoro fra le priorità assolute delle proprie agende. Lo reclama la Costituzione, con il suo richiamo ai princìpi fondamentali della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà fraterna. Lo esige la enorme quantità di cittadini privi di occupazione, che ha fatto lievitare a livelli intollerabili la soglia di povertà di innumerevoli famiglie (vicina ai 9 milioni).
I programmi elettorali A leggere i programmi dei partiti sembra che promettano tutti le stesse cose: più occupazione e giustizia sociale, maggiore crescita ed equità, diminuzione del carico fiscale. Come, poi, intendano raggiungere questi obiettivi nessuno azzarda indicazioni concrete, idee forti, limitandosi a generiche dichiarazioni d’intenti.
Ci piacerebbe sentire una proposta che incoraggi i grandi imprenditori ad aver convenienza a investire i propri capitali in Italia, piuttosto che in titoli del mercato finanziario o in impianti delocalizzati nei Paesi in cui la forza lavoro costa meno. E magari una proposta che, concretamente, faccia intravvedere alle piccole e medie imprese una praticabile via di uscita dallo strangolamento della tenaglia fra costo del denaro bancario e pressione fiscale.
E l’impegno all'introduzione di meccanismi di riequilibrio nella asimmetria esistente fra lo Stato e le imprese (braccio corto quando si è creditori, braccio lungo quando si è debitori): pagamento dell’Iva da parte delle imprese solo a fattura incassata, esigibilità dei crediti delle imprese da parte dello Stato in tempi ragionevolmente certi, come raccomanda l’Europa.
Saremmo contenti di sentire, ancora, una proposta che faccia intravvedere ai giovani, intenzionati a dar vita ad attività autoimprenditoriali, la possibilità di ricevere sostegno pubblico e condizioni decenti di accesso al credito. Ci piacerebbe sentire anche tante altre proposte. C’è ancora un mese di campagna elettorale: speriamo che vengano fuori, e che diventino impegni concreti per chi andrà al governo.
Città Nuova - La nostra Costituzione è la più bella di tutte, ci ha ricordato recentemente nel programma su Rai1 Benigni. E così, davvero, appare sin dai suoi primi quattro articoli. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (art.1). E’ straordinaria l’idea, condivisa dai nostri padri costituenti, di una democrazia fondata sul lavoro, giacché evoca l’immagine di una società che considera il lavoro come strumento di liberazione ed emancipazione personale in un quadro di compatibilità con l’interesse generale. Nella cornice dei diritti inviolabili dell’uomo che la Costituzione s’impegna a riconoscere e garantire (art.2), il lavoro trova dignità assoluta, in riferimento alla libertà ed alla uguaglianza che lo Stato deve poter assicurare a tutti i cittadini, rimuovendo ogni ostacolo di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art.3). Non si tratta di un optional, ma dell’adempimento, da parte dello Stato, dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (ancora l’art.2); perché é allo Stato che spetta il riconoscimento del diritto al lavoro per tutti i cittadini e la promozione delle condizioni che rendano effettivo questo diritto (art.4).
Con i piedi per terra Purtroppo, oggi, nell’immaginario collettivo del nostro Paese, queste parole rischiano di apparire come un libro dei sogni. I dati Istat di recente pubblicazione, riferiti a novembre 2012, ci consegnano un quadro drammatico. I disoccupati sono circa 3 milioni (tasso 11 per cento). Tra i 15-24enni il tasso di disoccupazione raggiunge il 37 per cento. Siamo ai massimi livelli di disoccupazione dal 2004 (nel caso dei giovani addirittura dal 1992). Non c’è dubbio che quanti si candidano a governare il Paese abbiano il dovere di porre il tema del lavoro fra le priorità assolute delle proprie agende. Lo reclama la Costituzione, con il suo richiamo ai princìpi fondamentali della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà fraterna. Lo esige la enorme quantità di cittadini privi di occupazione, che ha fatto lievitare a livelli intollerabili la soglia di povertà di innumerevoli famiglie (vicina ai 9 milioni).
I programmi elettorali A leggere i programmi dei partiti sembra che promettano tutti le stesse cose: più occupazione e giustizia sociale, maggiore crescita ed equità, diminuzione del carico fiscale. Come, poi, intendano raggiungere questi obiettivi nessuno azzarda indicazioni concrete, idee forti, limitandosi a generiche dichiarazioni d’intenti.
Ci piacerebbe sentire una proposta che incoraggi i grandi imprenditori ad aver convenienza a investire i propri capitali in Italia, piuttosto che in titoli del mercato finanziario o in impianti delocalizzati nei Paesi in cui la forza lavoro costa meno. E magari una proposta che, concretamente, faccia intravvedere alle piccole e medie imprese una praticabile via di uscita dallo strangolamento della tenaglia fra costo del denaro bancario e pressione fiscale.
E l’impegno all'introduzione di meccanismi di riequilibrio nella asimmetria esistente fra lo Stato e le imprese (braccio corto quando si è creditori, braccio lungo quando si è debitori): pagamento dell’Iva da parte delle imprese solo a fattura incassata, esigibilità dei crediti delle imprese da parte dello Stato in tempi ragionevolmente certi, come raccomanda l’Europa.
Saremmo contenti di sentire, ancora, una proposta che faccia intravvedere ai giovani, intenzionati a dar vita ad attività autoimprenditoriali, la possibilità di ricevere sostegno pubblico e condizioni decenti di accesso al credito. Ci piacerebbe sentire anche tante altre proposte. C’è ancora un mese di campagna elettorale: speriamo che vengano fuori, e che diventino impegni concreti per chi andrà al governo.
Marco Fattuzzo
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