giovedì, gennaio 10, 2013
Apriamo uno spazio a valutazioni e commenti sulla campagna elettorale, in corso, per un dibattito e una riflessione plurale e in dialogo secondo la linea editoriale di Città Nuova. Cominciamo con un'osservazione di Bepi Milan, ordinario di Pedagogia interculturale e pedagogia sociale all'Università di Padova.

Città Nuova - Non è facile comprendere in profondità le origini dell’attuale crisi politica, che si manifesta con una specifica fenomenologia nella cosiddetta “macroregione Nord”, dove anche in questi giorni si rilanciano proclami angusti insieme alla determinazione – comprovata dai fatti - di costituire alleanze di potere che assomigliano assai poco alla politica intesa come servizio. Questi proclami e queste alleanze – una prassi politica in realtà consolidata da anni di demagogia e di superficialità – ostentano una presunzione che sembra oscurare il disorientamento, il panico culturale presente in larghi strati della popolazione.

Ho l’impressione che raramente si colgano i motivi profondi e reali, che ci sia forse una specie di cecità diffusa, frutto di una troppo lunga consuetudine al non-vedere, al non-osservare, al non-comprendere (perché tutto ci viene presentato come già “bello e fatto”, giusto, indiscutibile) e che, anche in vista di una progettualità culturale-politica veramente nuova, siano invece necessari uno sguardo purificato e un’attitudine immaginativa-progettuale capaci di affrancarsi dalle evidenze imposte dal pensiero dominante, superficiale e di parte.

Vediamo, ad esempio, la crisi della Lega, che ciclicamente si ripresenta anche attraverso l’emergere di fenomeni di malcostume politico, presente proprio tra le fila di chi facilmente si gloriava di una purezza indubitabile.

Come veniamo a sapere dalla cronaca politico-giudiziaria, si evidenziano l’anomala utilizzazione del denaro pubblico, l’assenza di un controllo responsabile, il tornaconto individuale-familiare e di partito (ma che all’interno di un partito stesso si muove patologicamente, negando equilibri e tradendo l’equa utilizzazione delle risorse). Si sottolineano anche la verticale decadenza della leadership, la dicotomizzazione tra leadership centrale e base, e così via. Tanti sono, insomma, i motivi che vengono addotti a giustificazione-spiegazione di una crisi (o catastrofe?) politica.

La mia opinione è che l’attuale crisi della Lega (della sua organizzazione, della sua leadership, della sua politica) è frutto di un’anomalia radicale, che sta alla base di tutta la sua esperienza: è l’anomalia della divisione, l’anomalia dell’innalzamento di confini tra il mio/nostro e il loro, tra il mio recinto culturale-economico-politico e l’altro. La politica della Lega ha tratto fondamento dalla visione frammentata della polis, dall’esagerare il senso della parte e delle parti, mettendole in contrapposizione e, in ultima analisi, arroccandosi in difesa proprio degli interessi di parte. Si è trattato di una politica che esalta l’io (pur collettivo) politicamente chiuso, l’io territorialmente confinato, l’io storicamente cristallizzato. Rilancia una politica del sospetto e/o dell’ostilità manifesta verso ciò che è extra, lo straniero, il clandestino, l’extra-padano. Il nostro è giusto, vero, bello. L’altro è “ladrone”.

Bisogna rendersi conto, a livello di principio, c’è un errore di fondo, che di fatto genera implicazioni pratiche, culturali, politiche. L’errore sta proprio nell’antropologia dell’io ego autocentrato, isolato, che si onnipotentizza negando l’altro. Sta nella negazione della relazionalità aperta, della reciprocità, della dialogicità, dell’intercultura: è la negazione del “tra”, dell’ ”inter”, dell’integrazione-interazione autentica, capace di includere e, in tal modo, di superare le frequenti tentazioni di emarginazione/segregazione, la politica delle “comunità a parte” e non quella di essere tutti “parte della comunità”.

Al principio antropologico dell’autocentramento non può che corrispondere il principio politico dell’esclusione dell’altro, dell’apartheid. È questa, allora, la politica del “cerchio magico”, dell’invischiamento nel “tra di noi”, che diventa tornaconto di parte e, in quanto tale, negazione della politica autentica. Gli abusi e le ingiustizie, anche nel semplice uso dei beni, del denaro pubblico, nascono da questa concezione. Questa patologia del “tra di noi”, incapacità di cogliere la dimensione della “prossimità” allargando lo sguardo al di là di recintazioni-appartenenze limitate, fino ad aprirsi alla prossimità planetaria-terrestre, è la più evidente patologia della prassi politica attuale. Le crisi dell’oggi trovano origine in questo virus dell’identità chiusa.

È urgente comprendere in profondità la lezione attuale e agire di conseguenza, reimpostando l’impegno politico su un nuovo paradigma dialogico-interculturale. Una politica nuova, insomma, non può che costruirsi sul soggetto umano dialogico-relazionale-interculturale, capace di essere identità-polis, identità-prossimo, identità-mondo. Questa prospettiva di rinnovamento postula, naturalmente, un fortissimo e concreto rapporto tra educazione e politica: non è possibile immaginare una politica nuova se non attraverso la formazione del nuovo uomo-politico capace di coniugare “prossimo e mondo”, “locale e globale”.

Da questa prospettiva emerge un repertorio di tematiche importanti che andrebbero elaborate in prospettiva formativa, per creare – appunto - la nuova mentalità e prassi politica e per muoverci insieme nella prospettiva del “cambiamento”: “cambiamento in meglio”, naturalmente (dato che molti cambiamenti vanno nel senso del peggioramento). E, per cambiare in meglio, bisogna riprendere in mano il senso dei valori – quelli che, appunto, ci fanno migliorare e orientano nella prospettiva di una “polis adeguata”.

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