venerdì, gennaio 11, 2013
Il rinvio a giudizio di undici imputati coinvolti a vario titolo nella strategia della tensione del ’92-’93 getta ombra sul rapporto tra le istituzioni e Cosa Nostra.  

Città Nuova - Sia il rapporto della Commissione parlamentare antimafia che il nefasto scenario ipotizzato dalla Procura di Palermo parlano di un Paese consegnato alla criminalità. Sulle strategie per combatterla si parla poco nei programmi delle prossime elezioni. In questi giorni il pubblico ministero Nino Di Matteo, ha concluso la requisitoria all’udienza preliminare sulla trattativa Stato-mafia in corso nell’aula bunker del carcere “Pagliarelli” a Palermo. Nel suo atto di accusa Di Matteo ha chiesto il rinvio a giudizio per tutti gli undici imputati per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Sono accusati i boss Luca Bagarella, Totò Riina, Giovanni Brusca e Nino Cinà, insieme agli ufficiali del Ros (Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri) Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, il senatore Marcello dell’Utri e l’ex ministro Calogero Mannino. Per Massimo Ciancimino (figlio dell’ex sindaco di Palermo, Vito, legato a filo doppio con Cosa Nostra) l’accusa è di concorso in associazione mafiosa, mentre per l’ex ministro Nicola Mancino di falsa testimonianza.

Ripercorriamo, per fare onore alla memoria, quel che accadde in quegli anni per cercare di comprenderne tutta la drammaticità. Siamo nel 1993 e Cosa Nostra lancia la sua offensiva contro lo Stato. Totò Riina è in carcere ma i suoi luogotenenti non desistono e vogliono che lo Stato allenti la pressione sulla mafia, conceda gli arresti ospedalieri a boss come Pippo Calò e Bernardo Brusca. Insomma la mafia vuole alzare la posta in gioco.

La Dia individua dopo la strage di via D’Amelio (dove persero la vita il giudice Borsellino e la sua scorta) il momento in cui la mafia diviene compartecipe di un progetto «designato – si legge nella relazione della Dia – e gestito insieme a un potere criminale diverso e più articolato. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le istituzioni a una tacita trattativa». Tutto ci si sarebbe aspettati a seguito di questa informativa della Dia tranne quello che invece è accaduto: nel novembre dello stesso anno non vengono rinnovati 343 provvedimenti di carcere duro per detenuti mafiosi.

«La mafia – ha scritto nel suo rapporto conclusivo il presidente della Commissione parlamentare antimafia Beppe Pisanu – quando le è convenuto, quando vi è stata convergenza di interessi, non ha esitato a collaborare con altre entità criminali, economiche, politiche e sociali». Pisanu per rafforzare questo suo ragionamento ricorda la partecipazione della mafia, insieme ad esponenti della massoneria, al golpe di Junio Valerio Borghese che, come si ricorderà avvenne nella notte del 7-8 dicembre del 1970. Ma anche alla simulazione del rapimento del finanziere Michele Sindona, ospite invece della borghesia mafiosa palermitana fino alla strage del “rapido 904” del 23 dicembre 1984. Il treno era pieno di viaggiatori che ritornavano a casa o andavano in visita a parenti per le festività. Per questa strage sono stati condannati all’ergastolo, oltre al cassiere della mafia Pippo Calò, esponenti della camorra, del terrorismo di destra e della banda della Magliana.

«Sulla stessa linea – scrive ancora Pisanu – una rapporto della DIA del 1993 descrisse un’aggregazione di tipo orizzontale composta oltre che dalla mafia, da talune logge massoniche di Palermo e Trapani, da gruppi eversivi di destra, funzionari infedeli dello Stato e amministratori corrotti»

In buona sostanza nel ‘92-’93 una strategia della tensione percorse il Paese. Cosa Nostra ne fece parte. Pisanu conclude il suo rapporto sostenendo che i carabinieri e Vito Ciancimino hanno cercato di imbastire una specie di trattativa e che Cosa Nostra li abbia incoraggiati, ma non abbandonando la linea stragista. «Lo Stato, in quanto tale, ossia nei suoi organi decisionali, non ha interloquito ed ha risposto energicamente all’offensiva terroristico-criminale». Nega invece di aver avuto rapporti con politici di “qualsiasi" colore il boss Leoluca Bagarella, intervenuto con dichiarazioni spontanee all’udienza preliminare sulla trattativa Stato-mafia.

«La nostra indagine è arrivata a conclusioni diverse da quelle della commissione Antimafia. Per noi la trattativa partì da un input politico». È quanto ha dichiarato il pubblico ministero Nino Di Matteo nel commentare le parole del presidente della Commissione parlamentare antimafia Beppe Pisanu. «La trattativa – ha spiegato Di Matteo – si sviluppa con le istituzioni sia politiche che degli apparati delle forze dell’ordine e viene dettata da una scelta inconfessabile della ragion di Stato che provoca conseguenze devastanti. Il patto rafforza, negli uomini della mafia, il convincimento che le bombe pagano e determina la scelta della linea terroristica e un parziale cambiamento degli obiettivi da eliminare che non sono più i politici, ma coloro i quali sono di ostacolo alla trattativa».

Lo scorso 17 marzo a Genova l’annuale manifestazione nazionale di Libera per tutte le vittime di mafia ha visto in piazza centomila persone, cinquecento familiari di vittime di mafia, ma non c’era un segretario di partito, un leader politico. Né di destra, né di sinistra. Quella piazza di Genova dipinge una grande piaga del nostro Paese: mentre la storia insanguinata, sventrata dalle bombe era lì in piazza, la politica era altrove. Quell’assenza non diceva altro. Era altrove! E il paese vive con inquietudine questa “querelle” sulla trattativa del ‘92-’93 che risulta essere come una bomba ad orologeria sistemata nel cuore delle istituzioni, sia nel caso prospettato dalla commissione parlamentare antimafia, sia nel nefasto scenario ipotizzato dalla Procura di Palermo. Mentre a Genova la gente partecipa e mentre a Palermo si celebra il processo sulla trattativa, sembra che i palazzi del potere abbiano altre cose cui pensare, mentre le cronache di tutti i giorni ci raccontano un Paese in mano ai mafiosi. Provate a cercare fra i programmi per le prossime consultazioni politiche qualcosa che faccia riferimento ad una lettura del rapporto tra poteri criminali e politica ed economia. Non troverete nulla. E invece questo serve con urgenza: riprendere un robusto ragionamento sulla legalità, come pre-condizione per qualunque attività pubblica o privata, singola o comunitaria. E aiutare la politica a ritrovare la sua dignità e identità.

di Roberto Mazzarella


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