I nodi vengo al pettine: l’operazione “patriottica”, per salvare la compagnia di bandiera, si rivela un salasso per noi contribuenti.
Città Nuova - I quattro anni durante i quali i nuovi soci dell'Alitalia erano impegnati a non vendere le quote della società che era stata loro consegnata dopo averla ripulita dai debiti e dal personale in più sono passati: la Air France, a cui allora il neoeletto Berlusconi aveva sbarrato la strada, potrà adesso acquisire la maggioranza, semplicemente scambiando sue azioni con quelle di Alitalia, senza sborsare i due miliardi e mezzo di euro che era allora disposta a pagare allo stato italiano.
Anche adesso c'è ancora chi invoca di preservarne la italianità, come se in questi anni conservarla fosse servito a qualcosa; ma non credo che ci saranno gruppi italiani disposti a proporsi, dopo che gli "azionisti patriottici" che allora avevano aderito all'invito di Berlusconi che stava diventando primo ministro con una grande maggioranza che sarebbe durata quasi quattro anni non sono dell'idea di continuare, visto che - a causa delle perdite di questi anni - il capitale dell'azienda si sta esaurendo e la gallina dalle uova d'oro dell'avere in esclusiva la tratta Roma-Milano, a causa della introduzione dei treni veloci, ormai non sforna che uova di metallo vile.
Tanto più che, come scrive Andrea Bassi sull'Huffington Post, il maggior investitore, il gruppo Riva, ha difficoltà con l'Ilva, il gruppo Ligresti è uscito di scena, il gruppo Angelucci nella sanità non riesce a riscuotere i crediti dalla regione Lazio, Bellavista Caltagirone è nei guai per il porto di Imperia, Gavio e Tronchetti Provera hanno problemi con i soci, mentre Banca Intesa è già soddisfatta, perché con questa operazione è riuscita ad accollare allo Stato, assieme al dissesto Alitalia, anche quello delle altre aerolinee italiane che finanziava.
Sembra che nello scambio azionario agli azionisti in uscita vengano assicurate tante azioni Air France da coprire il loro investimento maggiorato del venti per cento, con un profitto quindi del cinque per cento per anno: tutti contenti allora, eccetto noi cittadini italiani che ci siamo accollati le perdite dell'operazione, i due miliardi e mezzo non ottenuti allora da Air France, che ora ne varrebbero tre, più i debiti della vecchia società e il costo di sette anni di cassa integrazione per 10 mila lavoratori, maggiorata all'ottanta per cento dello stipendio, per ulteriori tre miliardi.
Un totale quindi più o meno di sei miliardi, una cifra che avrebbe permesso di abolire per un anno e mezzo l'Imu sulla prima casa degli italiani.
A questo punto una riflessione mia personale mi pare dolorosa e doverosa: se Silvio Berlusconi avesse provocato in una azienda con il suo comportamento un simile risultato negativo, non solo i soci lo avrebbero mandato a casa, ma vista l'alternativa che aveva a disposizione e non ha colto, certamente gli avrebbero fatto causa, portandolo davanti ai giudici perché gli ingiungessero di rifondere di tasca sua il danno risultante dalle sue decisioni.
Città Nuova - I quattro anni durante i quali i nuovi soci dell'Alitalia erano impegnati a non vendere le quote della società che era stata loro consegnata dopo averla ripulita dai debiti e dal personale in più sono passati: la Air France, a cui allora il neoeletto Berlusconi aveva sbarrato la strada, potrà adesso acquisire la maggioranza, semplicemente scambiando sue azioni con quelle di Alitalia, senza sborsare i due miliardi e mezzo di euro che era allora disposta a pagare allo stato italiano.
Anche adesso c'è ancora chi invoca di preservarne la italianità, come se in questi anni conservarla fosse servito a qualcosa; ma non credo che ci saranno gruppi italiani disposti a proporsi, dopo che gli "azionisti patriottici" che allora avevano aderito all'invito di Berlusconi che stava diventando primo ministro con una grande maggioranza che sarebbe durata quasi quattro anni non sono dell'idea di continuare, visto che - a causa delle perdite di questi anni - il capitale dell'azienda si sta esaurendo e la gallina dalle uova d'oro dell'avere in esclusiva la tratta Roma-Milano, a causa della introduzione dei treni veloci, ormai non sforna che uova di metallo vile.
Tanto più che, come scrive Andrea Bassi sull'Huffington Post, il maggior investitore, il gruppo Riva, ha difficoltà con l'Ilva, il gruppo Ligresti è uscito di scena, il gruppo Angelucci nella sanità non riesce a riscuotere i crediti dalla regione Lazio, Bellavista Caltagirone è nei guai per il porto di Imperia, Gavio e Tronchetti Provera hanno problemi con i soci, mentre Banca Intesa è già soddisfatta, perché con questa operazione è riuscita ad accollare allo Stato, assieme al dissesto Alitalia, anche quello delle altre aerolinee italiane che finanziava.
Sembra che nello scambio azionario agli azionisti in uscita vengano assicurate tante azioni Air France da coprire il loro investimento maggiorato del venti per cento, con un profitto quindi del cinque per cento per anno: tutti contenti allora, eccetto noi cittadini italiani che ci siamo accollati le perdite dell'operazione, i due miliardi e mezzo non ottenuti allora da Air France, che ora ne varrebbero tre, più i debiti della vecchia società e il costo di sette anni di cassa integrazione per 10 mila lavoratori, maggiorata all'ottanta per cento dello stipendio, per ulteriori tre miliardi.
Un totale quindi più o meno di sei miliardi, una cifra che avrebbe permesso di abolire per un anno e mezzo l'Imu sulla prima casa degli italiani.
A questo punto una riflessione mia personale mi pare dolorosa e doverosa: se Silvio Berlusconi avesse provocato in una azienda con il suo comportamento un simile risultato negativo, non solo i soci lo avrebbero mandato a casa, ma vista l'alternativa che aveva a disposizione e non ha colto, certamente gli avrebbero fatto causa, portandolo davanti ai giudici perché gli ingiungessero di rifondere di tasca sua il danno risultante dalle sue decisioni.
Alberto Ferrucci
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