Immagino il prete assistente di AC che si pone seriamente come punto di riferimento per la vita di fede di ogni associato e dell’intera associazione, anche se incaricato solo di qualche settore, giovani o adulti, oppure per l’ACR, come espressione della intenzionalità educativa di tutta l’associazione.
Per rendere ragione della nostra fede è importante vederne la convinzione, la qualità, le incongruenze, i tradimenti, la ricerca. Gesù proprio ai suoi discepoli vuol fare i conti in tasca riguardo alla fede, o, meglio, li aiuta a prendere posizione. Questi discorsi di Gesù ci aiutano ancora di più a entrare in quella prospettiva, che emerge da tutto il convegno, e che è di crescere tutti, preti compresi, verso una fede matura, ciascuno per la sua età, che è la statura di Cristo. Il mio intento è di descrivere le qualità della fede di un prete assistente di AC, che possono diventare le qualità della maturità di fede di un laico di AC e quindi la testimonianza più bella della nostra vita cristiana e una risposta alle invocazioni che ci vengono da tutti.
La scarsità della nostra fede, sia di noi presbiteri che dei laici. Siamo dedicati soprattutto alla fede della gente, ad aiutarli a fidarsi di Dio, a incontrarsi fiduciosi con Lui. La fede fa parte dei nostri pensieri e interessi? In un mondo che guarda ogni giorno allo spread o a qualche dato delle borse, vale la pena di chiederci se la fede ha il posto che le compete nella nostra vita, nelle relazioni che abbiamo con le persone, nelle stesse istituzioni che serviamo. Ci domandiamo se l’Azione Cattolica presso cui lavoriamo è uno spazio per chi crede e per chi cerca la fede? Al tempo di Gesù pure era un bene molto raro se Gesù in non poche occasioni dovette sperimentare che la gente, gli apostoli, lo stesso Pietro erano di poca o scarsa fede. Mi fa impressione questa “oligopistia” (poca fede), tutta fotografata sugli apostoli, oggi diremmo sui vescovi e di conseguenza anche sui preti. Il primo tratto di fede infantile o adolescenziale in noi è questa oligopistia. Dove viene espressa perché l’abbiamo a identificare anche in noi?
Ora si trattava di non avere prospettive di futuro, vedendo il rigoglioso rifiorire della natura e la depressione che provavano nelle loro prospettive di vita almeno libera e felice; altre volte c’era un pericolo di vita, come il possibile affondare della barca; altre ancora era l’assenza di riferimento e di speranza concreta o incapacità di compiere opere di fede e quindi di vederne i risultati. Insomma Gesù dovette fare tante volte i conti con una squadra che aveva scelto dopo intense preghiere al Padre, ma che non si affidava completamente a Dio che si lasciava dominare dalla paura, che credeva di essere autosufficiente, ma che sperimentava fallimento, come Pietro che ha paura di affondare in quell’acqua su cui aveva osato chiedere a Gesù di camminarci.La fede è un grande dono di Dio che dà un colpo d’ala alla nostra esistenza, che ci offre la possibilità di affidarci a un Padre, di vivere una fratellanza più forte di ogni legame parentale, di stanare dalle nostre povere vite energie impensate di bontà, di generosità, di altruismo, di cambiamento, di resistenza allo sconforto e alla delusione che provoca il male nel mondo. Ma soprattutto ci permette di inscrivere i nostri giorni in un futuro di pienezza, il futuro di Gesù.
In non pochi episodi del vangelo Gesù stigmatizza la fragilità di fede degli apostoli e dei discepoli che viene definita dalla espressione ricorrente “gente di poca fede” (Mt 6,30; 8,26; 14,31; 16,8 17,20). Ripercorriamo questi passi e aiutiamoci a fare un esame della nostra fede; mentre questo avviene, mentre la nostra fede si purifica ne nasce un annuncio coraggioso e concreto, non fatto di astrazioni, ma di esperienza di vita, condizione indispensabile per essere per tutti riferimento per la fede. La fede è abbandono nelle braccia di Dio. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?(Mt 6, 30). Il contesto è un grande invito a vivere di fede, a superare l’affanno, il fastidio di essere militanti, la tensione e preoccupazione di essere autosufficienti, di credere che tutto dipenda da noi. Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena. (Mt 6, 25-34)
Possiamo guardare la vita da due punti di vista diversi, seguendo la lettura dell’AT e del vangelo. Da una parte una esistenza basata tutta sul calcolo, sulla autosufficienza, senza riferimento che vada oltre le nostre pulsioni e interessi dall’altra una vita di fiducia, di abbandono. Da una parte la deriva del potere ad ogni costo, dell’essere legge a se stessi, e quindi della violenza e del sopruso dall’altra la consapevolezza di stare a cuore a Dio e una scelta di campo. Non potete servire Dio e il denaro: o di qua o di là. In mezzo ci siamo noi creature in cerca della luce e della felicità, orientati dalla fede nel Dio di Gesù Cristo, che smette di essere visto come il vendicatore, con un linguaggio bellico che traduce la mentalità di un popolo sempre distratto da infedeltà e peccato, ma come un padre pieno di cure e di attenzioni non solo per un popolo, ma in esso per ciascuna persona. E’ ben diversa la vita se sappiamo di stare a cuore a qualcuno, di essere amati da Dio, di sentirci nelle sue braccia, se sappiamo affidare a qualcuno le nostre ansie e i nostri progetti. Non affannatevi dice il vangelo; l’affanno non è segno di impegno, ma sfiducia negli altri, incapacità di affidarsi, senso di onnipotenza.
La fiducia in Dio è l’abbandono di Gesù nella braccia del Padre, è tentare tutto quello che è alla nostra portata, non restare comodi ad aspettare, ma nello stesso tempo sapere che c’è un progetto più grande nel nostro, il progetto della felicità di Dio, in cui ogni nostra azione o impegno è collocato. Tante nostre vite crescono bene perché stanno nel grande piano dell’amore di Dio che non solo ci ha creato, ma ci sostiene in vita, ci ha mandato il suo Figlio Gesù a dimostrare con la croce l’amore senza limiti e ci mantiene in cuore il suo Santo Spirito. Se abbiamo fiducia in Dio e ci abbandoniamo a Lui, allora possiamo dedicarci alle cose vere della vita, al suo regno, alla giustizia, alla solidarietà con i più poveri. Ci si affina la vista e diventa più ricco di bontà il cuore. Distogliendoci dalle preoccupazioni per noi ci si spalancano gli occhi sulle vere esigenze della vita e sulle risorse impensabili che Dio ci ha dato per affrontarle. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. E’ esperienza comune che quando ci impegniamo nel fare il bene agli altri, si risolvono anche i nostri problemi, le nostre ansie e soprattutto gli affanni. Perché Dio abita il cielo delle nostre vite e le conduce verso il bene infinito che Lui è.
Dice il catechismo della chiesa cattolica: “La creazione ha la sua propria bontà e perfezione, ma non è uscita dalle mani del Creatore interamente compiuta. È creata « in stato di via » verso una perfezione ultima alla quale Dio l'ha destinata, ma che ancora deve essere raggiunta. Chiamiamo divina provvidenza le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la creazione verso questa perfezione”. La testimonianza della Scrittura è unanime: la sollecitudine della divina Provvidenza è concreta e immediata; essa si prende cura di tutto, dalle più piccole cose fino ai grandi eventi del mondo e della storia. Con forza, i Libri Sacri affermano la sovranità assoluta di Dio sul corso degli avvenimenti: « Il nostro Dio è nei cieli, egli opera tutto ciò che vuole » (Sal 115, 3); e di Cristo si dice: « Quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre » (Ap 3, 7); « Molte sono le idee nella mente dell'uomo, ma solo il disegno del Signore resta saldo » (Pr 19, 21).
La fede è salvezza nella disperazione. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: “Salvaci, Signore, siamo perduti! ”. 26 Ed egli disse loro: “Perché avete paura, uomini di poca fede? ”(Mt 8,26). Il contesto è una situazione da sfinimento Essendo poi salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. 25 Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: “Salvaci, Signore, siamo perduti! ”. 26 Ed egli disse loro: “Perché avete paura, uomini di poca fede? ” Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. I presenti furono presi da stupore e dicevano: “Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono? Nella nostra vita abbiamo deciso di salire sulla barca di Gesù. E’ stata la nostra vocazione, la barca può rappresentare le nostre esperienze pastorali che ci prendono anche con entusiasmo; ancor di più può essere una decisione difficile che abbiamo preso sapendo che la vita sarebbe stata in salita in quella parrocchia o nella associazione in quel tempo. Abbiamo abbandonato alcune sicurezze, come sempre quando si cambia; da sempre sapevamo che lasciavamo confortevoli rapporti familiari. Poi abbiamo incontrato burrasche di varia natura che hanno minacciato molto concretamente la nostra vita personale, ci hanno messo ansia e paura tanto da farci temere di esserne irreparabilmente sopraffatti. È inevitabile che “stando con Gesù” si incontri, ad esempio, l’ostracismo e l’ostilità di questo mondo. Gesù dice: “Se foste del mondo, il mondo amerebbe quello che è suo; poiché non siete del mondo, ma io ho scelto voi in mezzo al mondo, perciò il mondo vi odia” (Gv. 15,19).
In situazioni come queste andiamo, così, a “scuotere” Gesù che pare dormire ed essere indifferente a ciò che sta accadendo. Gesù, però, nonostante le apparenze, rimane presente per il pieno controllo della situazione. Che Egli non intervenga subito “a far calmare le onde” può anche essere, da parte sua, una strategia pedagogica per insegnarci a confidare in Lui in qualsiasi situazione. Quante volte, infatti, Dio ci deve riprendere e dire: «Perché avete paura, o gente di poca fede?». Sì, tante volte ci lasciamo intimidire troppo da ciò che ci è avverso quasi che fosse più forte di Cristo e ci potesse strappare da Lui e farci perire. Ci lasciamo così cogliere dal timore, dall’incertezza, dalla poca fede, dalla errata coscienza che siamo noi a salvare la barca della vita nostra e delle persone che ci sono affidate. Lui è sempre là, Lui non ci molla, Lui non ci abbandona. Lo diciamo a noi con forza, ma deve essere fatto percepire a tutti. E’ un altro tratto della statura di Cristo. Anche Lui si è affidato al padre, ha rimesso al sua vita nelle sue braccia. Diventare piccoli significa non prendere noi il timone, ma saperci fidare di Dio sempre.
Fede è tenere lo sguardo fisso su Gesù. Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30 Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami! ”. 31 E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato? ”. (Mt14,31). Tutti, giovani e adulti, facciamo una gran fatica a toglierci di dosso l’idea che la fede è soprattutto credere delle verità, ammettere per vero ciò che si fa fatica a comprendere coi ragionamenti. La fede invece è altro soprattutto. È chiarissimo al riguardo Gesù in questo suo dialogo serrato con Pietro. È stato tutta notte a pregare. Ha avuto bisogno di una notte in intimità col Padre. Aveva ordinato perentoriamente ai discepoli di prendere la barca, di potarsi dall’altra parte del lago. Li vedeva troppo intenti a raccogliere l’approvazione della gente perché erano stati sfamati da una generosa moltiplicazione di pani. Lui li avrebbe raggiunti in seguito. Nel ritmo incalzante della giornata di Gesù c’è posto per la preghiera. È una preghiera in cui affiora alla coscienza il suo essere Figlio, questo mistero unico, impenetrabile, non condivisibile che diventa colloquio, estasi e il suo essere consapevolmente uomo e bisognoso di ritrovare costantemente in una preghiera accorata col Padre la nitidezza e il coraggio della propria vita. Ebbene verso la fine della notte raggiunge i discepoli che sono in mezzo al lago sballottati da una brutta bufera. Li raggiunge camminando sulle acque creando paura e terrore tra i discepoli. E Pietro è il primo a riaversi dallo stupore e chiede a Gesù: perché non potrei anch’io camminare come hai fatto tu sull’acqua? Se sei così potente, perché non regali anche a me questa emozione? Vieni! gli dice Gesù. E Pietro cammina davvero sulle acque.
Ti capita spesso di partire deciso, spavaldo, senza calcoli, convinto e poi perdere ogni ragione valida del tuo percorso. Resti fermo a metà strada, perdi ogni stimolo, cerchi invano motivi, ti senti vuoto e ti fermi. E’ il classico mettere mano all’aratro e voltarsi indietro. Pietro lo prova sulla sua pelle quando si mette a camminare sull’acqua; guardava fisso Gesù ed era talmente intenso lo sguardo, l’attrazione, il fascino che non ammetteva distanza o separazione da Lui. Era stato in intimità con Gesù, aveva capito quanto fosse grande la sua forza e l’entusiasmo si cambiò in domanda, la domanda in passi sicuri. A un certo punto però gli vengono meno tutti i motivi dell’entusiasmo, abbassa gli occhi su di sé, si trova quel pover’uomo che siamo tutti e comincia ad affondare. Solo la fede in Gesù lo sosteneva. Ma poco a poco è venuto meno quello sguardo fiducioso, si è incrinata la certezza, si è inscritto il dubbio. E Gesù, non solo in questa occasione, ma anche altre volte gli si rivolge, e si rivolge a tutti noi, chiamandolo uomo di poca fede. Siamo di poca fede, quando ci vogliamo sostituire a Dio, quando crediamo di essere noi i padroni della nostra vita, quando ci sentiamo il centro di tutto. Siamo di poca fede quando la riduciamo a ricetta per risolvere i nostri mali, a scaramanzia per le possibili disgrazie, ostentazione delle nostre sicurezze. Allora svanisce l’abbandono in Dio, non abbiamo più lo sguardo fisso su Gesù, ma lo abbassiamo alle nostre debolezze, ci fa paura l’impegno, ci assilla la sicurezza e cediamo. Ci rintaniamo nelle nostre visioni da miopia. E’ come quando si impara a usare la bicicletta. Si abbassa lo sguardo ai propri piedi sulle staffe e si perde l’orizzonte prima e l’equilibrio, poi. Pietro forse voleva tentare il Signore, mettere in campo un po’ di spavalderia, ma Gesù lo prende sul serio, rende vero l’impossibile se tu ti abbandoni in Lui.
Aveva camminato per scherzo o per sfida, ma Gesù è vero, non è un ipnotizzatore, non è un fenomeno da baraccone. Pietro è troppo concentrato su di se, si impaurisce e si affida di nuovo. Signore salvami. Gesù stese la mano come Dio stese la sua nel creare Adamo il primo uomo e Pietro fu riportato a un rapporto vivo con Gesù. Uomo di poca fede! hai dubitato credevi che io stessi a giocare. Ti affidi a me o ai miracoli, alle cose meravigliose, sorprendenti? Il dubbio di Pietro non è il dubbio intellettuale intorno alle verità di fede, ma la mancanza di fiducia in Gesù, di fronte alle difficoltà della vita. Ricostruirci ogni giorno questa fiducia è la fede. La fede è preghiera insistente. Allora i discepoli, accostatisi a Gesù in disparte, gli chiesero: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? ”. 20 Ed egli rispose: “Per la vostra poca fede.(Mt 17,20). Il contesto di questo altro rimprovero è un rapporto tenerissimo tra padre e figlio ammalato, tra supplica rivolta ai dodici, ai rappresentanti di Gesù, alla Chiesa potremmo dire noi oggi, la sconfitta e la tenacia di rivolgersi a Gesù. Appena ritornati presso la folla, si avvicinò a Gesù un uomo 15 che, gettatosi in ginocchio, gli disse: “Signore, abbi pietà di mio figlio. Egli è epilettico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e spesso anche nell’acqua; 16 l’ho già portato dai tuoi discepoli, ma non hanno potuto guarirlo”. 17 E Gesù rispose: “O generazione incredula e perversa! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatemelo qui”. 18 E Gesù gli parlò minacciosamente, e il demonio uscì da lui e da quel momento il ragazzo fu guarito.
Allora i discepoli, accostatisi a Gesù in disparte, gli chiesero: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? ”. 20 Ed egli rispose: “Per la vostra poca fede. In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile. 21 Questa razza di demòni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno”. (Mt 17,14-21). C’è un padre disperato che un giorno va da Gesù e gli consegna suo figlio. Per lui è un figlio perso, è intrattabile, non capisce ragione, è senza senso morale, ha perso ogni serenità, è condotto qual e là come uno straccio; non ha personalità, completamente dipendente da una cattiveria inspiegabile. Ha tentato di tutto, ma il male che abita nel figlio è più forte di qualsiasi ragionamento, di qualsiasi affetto. Le ho provate tutte, ma non ci riesco, l’ho fatto incontrare anche dai tuoi amici intimi, dai tuoi apostoli, ma non ho ottenuto nulla. Forse solo tu puoi fare qualcosa. Sembra la descrizione attuale di tanti rapporti tra genitori e figli, soprattutto quando nei figli entra un male che pare incurabile, una dipendenza che non si può vincere solo con la buona volontà, una assuefazione che ti si scrive nella carne, ti crea una natura somatica diversa come la droga. Questo figlio però non è drogato, è molto di più: è indemoniato, è posseduto da un male incurabile con le classiche medicine, è un diavolo che lo possiede. E non c’è che da andare da Gesù.
Il papà che le ha provate tutte ingenuamente dice a Gesù: se puoi fare qualcosa. (nella versione di Marco) Non sa che ha davanti il figlio di Dio, ma il suo cuore disperato può anche non saperlo, gli si affida lo stesso. Ha consapevolezza di non avere fede, o per lo meno di far fatica a credere, come tanti di noi, ha bisogno di rigenerare la sua fede che si è affievolita, si è a mano a mano spenta, divorata dalle preoccupazioni, dalle cose, dal consumo, dalla vita dura che vive e che non ha mai avuto il coraggio di mettere nelle mani di Dio con la preghiera; forse anche per questo suo figlio è in queste condizioni, non ha mai avuto una parola di speranza. E la va a cercare da Gesù. Gesù dice che queste vite dei vostri figli si possono aiutare spesso solo con la preghiera. E’ una preghiera viva, di fiducia, insistente, fatta anche di lacrime. Chi non ricorda le lacrime di Santa Monica la mamma di S. Agostino che è riuscita a ottenere da Dio il dono della sua conversione? La speranza può tornare a far fiorire rapporti belli anche tra genitori e figli se si ha il coraggio di pregare. La fede è avere un cuore aperto al dono sempre. Accortosene, Gesù chiese: “Perché, uomini di poca fede, andate dicendo che non avete il pane? (Mt 16,8). Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? 18 Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite ? (Mc 8, 17-18). Gesù chiama in causa non solo l’intelligenza, ma anche il cuore, anche la capacità di lasciarsi coinvolgere in una esperienza di dono. Cuore, nel nostro modo di dire è termine che significa amore, dono, l’offerta di tutta la persona. E’ necessario per la completezza di una adesione di vita. Non basta l’intelligenza, occorre la capacità di amare. Gesù fa una domanda che suona come un rimprovero, che ci mette al muro: avete il cuore indurito?
Sclerocardia è l’indurimento: sclerosi del cuore. E’ lì bloccato come una pietra. Che cosa può esprimere un pezzo di pietra se non la durezza di una vita che sta altrove, che non si commuove per niente, che non comanda al viso nemmeno un sorriso, alle mani una stretta d’accoglienza, al corpo uno slancio di dedizione? Chi ha il cuore indurito per eccellenza nell’Antico Testamento è il faraone, il padrone dell’Egitto, colui che tiene prigioniero il popolo, che lo sfrutta, che non bada a sofferenze, che calcola il numero dei mattoni, che comanda la morte dei neonati, che si mette contro Dio, contro il suo piano di salvezza (cfr Es 4,21). Alla fine di ogni piaga che ritma le speranze e delusioni del popolo di Israele che vuol uscire dall’Egitto c’è un ritornello: il cuore del faraone è ostinato nella sua durezza di cuore. Il salmo 4 dice: Fino a quando, o uomini, sarete duri di cuore? Perché amate cose vane e cercate la menzogna? Nel vangelo di Matteo (13,15) si richiamano le parole di Isaia : Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito. Ezechiele (2,4) dice: Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Lo stesso Marco (6,52) appena dopo la moltiplicazione dei pani, nelle stesse condizioni, sulla barca, nella fatica di reggerla col vento contrario, con Gesù che cammina sulle acque e viene in loro aiuto, ancora dice: Ed erano enormemente stupiti in se stessi, perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito. Insomma Gesù nella sua infinita sapienza e bontà continua a chiedere agli apostoli di aprire il cuore, di mettersi in una condizione di amore, di dono, di accoglienza, di apertura.
Lasciati andare, smollati, vieni giù dalle tue sicurezze, fidati, fa un passo, rischia, dona la tua vita, smettila di stare sulle tue, apriti alla vita, buttati nell’avventura dell’amore, esci dal tuo comodo loculo. Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città del paese che il Signore tuo Dio ti dá, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso. (Deut 15, 7). A questo cuore indurito serve una cardioterapia, fatta di preghiera, di ascolto della Parola, di relazioni umanissime e di scuola d’amore. La famiglia, l’amicizia, l’innamoramento, il fidanzamento sono tutte cardioterapie se hanno al centro l’amore fino all’ultima goccia di Gesù. Questi apostoli hanno bisogno di una full immersion nel cuore di Gesù. La faranno, ma prima verrà la passione. Potrebbe nascere in noi l’imperativo di guardar dentro alla nostra fede, ma da un punto errato: valutare quanti ragazzi ci sono a catechismo, quanta serenità mi porto dentro, quanta fede ho, dove la parola chiave è quantità. La fede è qualità buona della vita ( Lc 17, 5-6). Gli apostoli dissero al Signore: “Aumenta la nostra fede! ”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.
Nella nostra consapevolezza che siamo gente di poca fede perché viviamo nell’affanno, ci lasciamo vincere da uno sfinimento di energie e di volontà, non teniamo fisso lo sguardo su Gesù, non puntiamo sulla preghiera ci può nascere un desiderio di riscatto. Spesso siamo ancora incantati da soluzioni materiali ad ogni problema di vita, a chiudere ogni visione che vada oltre le nostre vedute. Siamo come gli apostoli gente di poca fede. Anche loro vedevano che tutti i conti non tornavano ai loro pensieri preoccupati. Sapevano di aver posto fiducia in Dio, ma spesso sembrava loro più una fatica, un azzardo, un ostacolo alle loro visioni fin troppo semplificate e si sentono in dovere di chiedere aiuto a Gesù. La domanda è maldestra: “aumenta la nostra fede”, quasi che la fede si possa comperare a chili, si possa leggere con criteri di quantità. Invece Gesù li aiuta a fare un salto di qualità. Se è fede vera, ne basta un granellino di senapa. La fiducia in Dio, l’abbandono a Lui non è da pesare o da quantificare, ma è una dimensione profonda della vita, è un modo diverso di vivere, di fare riferimento a Lui, di affidarsi. Non dipende da studi approfonditi, anche se ha bisogno di essere continuamente messa a confronto con tutte le pulsioni della vita, anche intellettiva. Non cresce in base alle nostre qualità o alle nostre proprietà, non è in vendita. E’ un dono di Dio e, come tale, è sempre pieno e definito. Può incontrare un animo superficiale, e allora non si radica nella vita, ma sta solo in abitudini esteriori; può imbattersi in un animo ribelle e allora si ingaggia una lotta, che rispetta sempre la libertà della persona; può incontrare difficoltà e crisi e allora esige costanza e fermezza. Ma quando l’animo si apre al dono di Dio, lo invade un desiderio di pienezza, spariscono le mezze misure, i calcoli, le tergiversazioni e diventa profonda.
Con una fede matura rinasce freschezza nella vita, trovi sapore all’esistenza, resisti alla sfiducia, trovi forza nel dolore, si sviluppa una amicizia impensabile con Dio. Ti nasce dentro serenità e abbandono, voglia di cambiare e di donare, sguardo buono sull’esistenza, perché sai di stare a cuore a Dio, di giocare con un suo dono, non con le tue miserie. Il centro della fede è Lui e se questo è vero, Lui, Dio c’è sempre tutto e mai a pezzi comodi come ce lo aggiustiamo noi.
Per rendere ragione della nostra fede è importante vederne la convinzione, la qualità, le incongruenze, i tradimenti, la ricerca. Gesù proprio ai suoi discepoli vuol fare i conti in tasca riguardo alla fede, o, meglio, li aiuta a prendere posizione. Questi discorsi di Gesù ci aiutano ancora di più a entrare in quella prospettiva, che emerge da tutto il convegno, e che è di crescere tutti, preti compresi, verso una fede matura, ciascuno per la sua età, che è la statura di Cristo. Il mio intento è di descrivere le qualità della fede di un prete assistente di AC, che possono diventare le qualità della maturità di fede di un laico di AC e quindi la testimonianza più bella della nostra vita cristiana e una risposta alle invocazioni che ci vengono da tutti.
La scarsità della nostra fede, sia di noi presbiteri che dei laici. Siamo dedicati soprattutto alla fede della gente, ad aiutarli a fidarsi di Dio, a incontrarsi fiduciosi con Lui. La fede fa parte dei nostri pensieri e interessi? In un mondo che guarda ogni giorno allo spread o a qualche dato delle borse, vale la pena di chiederci se la fede ha il posto che le compete nella nostra vita, nelle relazioni che abbiamo con le persone, nelle stesse istituzioni che serviamo. Ci domandiamo se l’Azione Cattolica presso cui lavoriamo è uno spazio per chi crede e per chi cerca la fede? Al tempo di Gesù pure era un bene molto raro se Gesù in non poche occasioni dovette sperimentare che la gente, gli apostoli, lo stesso Pietro erano di poca o scarsa fede. Mi fa impressione questa “oligopistia” (poca fede), tutta fotografata sugli apostoli, oggi diremmo sui vescovi e di conseguenza anche sui preti. Il primo tratto di fede infantile o adolescenziale in noi è questa oligopistia. Dove viene espressa perché l’abbiamo a identificare anche in noi?
Ora si trattava di non avere prospettive di futuro, vedendo il rigoglioso rifiorire della natura e la depressione che provavano nelle loro prospettive di vita almeno libera e felice; altre volte c’era un pericolo di vita, come il possibile affondare della barca; altre ancora era l’assenza di riferimento e di speranza concreta o incapacità di compiere opere di fede e quindi di vederne i risultati. Insomma Gesù dovette fare tante volte i conti con una squadra che aveva scelto dopo intense preghiere al Padre, ma che non si affidava completamente a Dio che si lasciava dominare dalla paura, che credeva di essere autosufficiente, ma che sperimentava fallimento, come Pietro che ha paura di affondare in quell’acqua su cui aveva osato chiedere a Gesù di camminarci.La fede è un grande dono di Dio che dà un colpo d’ala alla nostra esistenza, che ci offre la possibilità di affidarci a un Padre, di vivere una fratellanza più forte di ogni legame parentale, di stanare dalle nostre povere vite energie impensate di bontà, di generosità, di altruismo, di cambiamento, di resistenza allo sconforto e alla delusione che provoca il male nel mondo. Ma soprattutto ci permette di inscrivere i nostri giorni in un futuro di pienezza, il futuro di Gesù.
In non pochi episodi del vangelo Gesù stigmatizza la fragilità di fede degli apostoli e dei discepoli che viene definita dalla espressione ricorrente “gente di poca fede” (Mt 6,30; 8,26; 14,31; 16,8 17,20). Ripercorriamo questi passi e aiutiamoci a fare un esame della nostra fede; mentre questo avviene, mentre la nostra fede si purifica ne nasce un annuncio coraggioso e concreto, non fatto di astrazioni, ma di esperienza di vita, condizione indispensabile per essere per tutti riferimento per la fede. La fede è abbandono nelle braccia di Dio. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?(Mt 6, 30). Il contesto è un grande invito a vivere di fede, a superare l’affanno, il fastidio di essere militanti, la tensione e preoccupazione di essere autosufficienti, di credere che tutto dipenda da noi. Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena. (Mt 6, 25-34)
Possiamo guardare la vita da due punti di vista diversi, seguendo la lettura dell’AT e del vangelo. Da una parte una esistenza basata tutta sul calcolo, sulla autosufficienza, senza riferimento che vada oltre le nostre pulsioni e interessi dall’altra una vita di fiducia, di abbandono. Da una parte la deriva del potere ad ogni costo, dell’essere legge a se stessi, e quindi della violenza e del sopruso dall’altra la consapevolezza di stare a cuore a Dio e una scelta di campo. Non potete servire Dio e il denaro: o di qua o di là. In mezzo ci siamo noi creature in cerca della luce e della felicità, orientati dalla fede nel Dio di Gesù Cristo, che smette di essere visto come il vendicatore, con un linguaggio bellico che traduce la mentalità di un popolo sempre distratto da infedeltà e peccato, ma come un padre pieno di cure e di attenzioni non solo per un popolo, ma in esso per ciascuna persona. E’ ben diversa la vita se sappiamo di stare a cuore a qualcuno, di essere amati da Dio, di sentirci nelle sue braccia, se sappiamo affidare a qualcuno le nostre ansie e i nostri progetti. Non affannatevi dice il vangelo; l’affanno non è segno di impegno, ma sfiducia negli altri, incapacità di affidarsi, senso di onnipotenza.
La fiducia in Dio è l’abbandono di Gesù nella braccia del Padre, è tentare tutto quello che è alla nostra portata, non restare comodi ad aspettare, ma nello stesso tempo sapere che c’è un progetto più grande nel nostro, il progetto della felicità di Dio, in cui ogni nostra azione o impegno è collocato. Tante nostre vite crescono bene perché stanno nel grande piano dell’amore di Dio che non solo ci ha creato, ma ci sostiene in vita, ci ha mandato il suo Figlio Gesù a dimostrare con la croce l’amore senza limiti e ci mantiene in cuore il suo Santo Spirito. Se abbiamo fiducia in Dio e ci abbandoniamo a Lui, allora possiamo dedicarci alle cose vere della vita, al suo regno, alla giustizia, alla solidarietà con i più poveri. Ci si affina la vista e diventa più ricco di bontà il cuore. Distogliendoci dalle preoccupazioni per noi ci si spalancano gli occhi sulle vere esigenze della vita e sulle risorse impensabili che Dio ci ha dato per affrontarle. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. E’ esperienza comune che quando ci impegniamo nel fare il bene agli altri, si risolvono anche i nostri problemi, le nostre ansie e soprattutto gli affanni. Perché Dio abita il cielo delle nostre vite e le conduce verso il bene infinito che Lui è.
Dice il catechismo della chiesa cattolica: “La creazione ha la sua propria bontà e perfezione, ma non è uscita dalle mani del Creatore interamente compiuta. È creata « in stato di via » verso una perfezione ultima alla quale Dio l'ha destinata, ma che ancora deve essere raggiunta. Chiamiamo divina provvidenza le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la creazione verso questa perfezione”. La testimonianza della Scrittura è unanime: la sollecitudine della divina Provvidenza è concreta e immediata; essa si prende cura di tutto, dalle più piccole cose fino ai grandi eventi del mondo e della storia. Con forza, i Libri Sacri affermano la sovranità assoluta di Dio sul corso degli avvenimenti: « Il nostro Dio è nei cieli, egli opera tutto ciò che vuole » (Sal 115, 3); e di Cristo si dice: « Quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre » (Ap 3, 7); « Molte sono le idee nella mente dell'uomo, ma solo il disegno del Signore resta saldo » (Pr 19, 21).
La fede è salvezza nella disperazione. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: “Salvaci, Signore, siamo perduti! ”. 26 Ed egli disse loro: “Perché avete paura, uomini di poca fede? ”(Mt 8,26). Il contesto è una situazione da sfinimento Essendo poi salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. 25 Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: “Salvaci, Signore, siamo perduti! ”. 26 Ed egli disse loro: “Perché avete paura, uomini di poca fede? ” Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. I presenti furono presi da stupore e dicevano: “Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono? Nella nostra vita abbiamo deciso di salire sulla barca di Gesù. E’ stata la nostra vocazione, la barca può rappresentare le nostre esperienze pastorali che ci prendono anche con entusiasmo; ancor di più può essere una decisione difficile che abbiamo preso sapendo che la vita sarebbe stata in salita in quella parrocchia o nella associazione in quel tempo. Abbiamo abbandonato alcune sicurezze, come sempre quando si cambia; da sempre sapevamo che lasciavamo confortevoli rapporti familiari. Poi abbiamo incontrato burrasche di varia natura che hanno minacciato molto concretamente la nostra vita personale, ci hanno messo ansia e paura tanto da farci temere di esserne irreparabilmente sopraffatti. È inevitabile che “stando con Gesù” si incontri, ad esempio, l’ostracismo e l’ostilità di questo mondo. Gesù dice: “Se foste del mondo, il mondo amerebbe quello che è suo; poiché non siete del mondo, ma io ho scelto voi in mezzo al mondo, perciò il mondo vi odia” (Gv. 15,19).
In situazioni come queste andiamo, così, a “scuotere” Gesù che pare dormire ed essere indifferente a ciò che sta accadendo. Gesù, però, nonostante le apparenze, rimane presente per il pieno controllo della situazione. Che Egli non intervenga subito “a far calmare le onde” può anche essere, da parte sua, una strategia pedagogica per insegnarci a confidare in Lui in qualsiasi situazione. Quante volte, infatti, Dio ci deve riprendere e dire: «Perché avete paura, o gente di poca fede?». Sì, tante volte ci lasciamo intimidire troppo da ciò che ci è avverso quasi che fosse più forte di Cristo e ci potesse strappare da Lui e farci perire. Ci lasciamo così cogliere dal timore, dall’incertezza, dalla poca fede, dalla errata coscienza che siamo noi a salvare la barca della vita nostra e delle persone che ci sono affidate. Lui è sempre là, Lui non ci molla, Lui non ci abbandona. Lo diciamo a noi con forza, ma deve essere fatto percepire a tutti. E’ un altro tratto della statura di Cristo. Anche Lui si è affidato al padre, ha rimesso al sua vita nelle sue braccia. Diventare piccoli significa non prendere noi il timone, ma saperci fidare di Dio sempre.
Fede è tenere lo sguardo fisso su Gesù. Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30 Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami! ”. 31 E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato? ”. (Mt14,31). Tutti, giovani e adulti, facciamo una gran fatica a toglierci di dosso l’idea che la fede è soprattutto credere delle verità, ammettere per vero ciò che si fa fatica a comprendere coi ragionamenti. La fede invece è altro soprattutto. È chiarissimo al riguardo Gesù in questo suo dialogo serrato con Pietro. È stato tutta notte a pregare. Ha avuto bisogno di una notte in intimità col Padre. Aveva ordinato perentoriamente ai discepoli di prendere la barca, di potarsi dall’altra parte del lago. Li vedeva troppo intenti a raccogliere l’approvazione della gente perché erano stati sfamati da una generosa moltiplicazione di pani. Lui li avrebbe raggiunti in seguito. Nel ritmo incalzante della giornata di Gesù c’è posto per la preghiera. È una preghiera in cui affiora alla coscienza il suo essere Figlio, questo mistero unico, impenetrabile, non condivisibile che diventa colloquio, estasi e il suo essere consapevolmente uomo e bisognoso di ritrovare costantemente in una preghiera accorata col Padre la nitidezza e il coraggio della propria vita. Ebbene verso la fine della notte raggiunge i discepoli che sono in mezzo al lago sballottati da una brutta bufera. Li raggiunge camminando sulle acque creando paura e terrore tra i discepoli. E Pietro è il primo a riaversi dallo stupore e chiede a Gesù: perché non potrei anch’io camminare come hai fatto tu sull’acqua? Se sei così potente, perché non regali anche a me questa emozione? Vieni! gli dice Gesù. E Pietro cammina davvero sulle acque.
Ti capita spesso di partire deciso, spavaldo, senza calcoli, convinto e poi perdere ogni ragione valida del tuo percorso. Resti fermo a metà strada, perdi ogni stimolo, cerchi invano motivi, ti senti vuoto e ti fermi. E’ il classico mettere mano all’aratro e voltarsi indietro. Pietro lo prova sulla sua pelle quando si mette a camminare sull’acqua; guardava fisso Gesù ed era talmente intenso lo sguardo, l’attrazione, il fascino che non ammetteva distanza o separazione da Lui. Era stato in intimità con Gesù, aveva capito quanto fosse grande la sua forza e l’entusiasmo si cambiò in domanda, la domanda in passi sicuri. A un certo punto però gli vengono meno tutti i motivi dell’entusiasmo, abbassa gli occhi su di sé, si trova quel pover’uomo che siamo tutti e comincia ad affondare. Solo la fede in Gesù lo sosteneva. Ma poco a poco è venuto meno quello sguardo fiducioso, si è incrinata la certezza, si è inscritto il dubbio. E Gesù, non solo in questa occasione, ma anche altre volte gli si rivolge, e si rivolge a tutti noi, chiamandolo uomo di poca fede. Siamo di poca fede, quando ci vogliamo sostituire a Dio, quando crediamo di essere noi i padroni della nostra vita, quando ci sentiamo il centro di tutto. Siamo di poca fede quando la riduciamo a ricetta per risolvere i nostri mali, a scaramanzia per le possibili disgrazie, ostentazione delle nostre sicurezze. Allora svanisce l’abbandono in Dio, non abbiamo più lo sguardo fisso su Gesù, ma lo abbassiamo alle nostre debolezze, ci fa paura l’impegno, ci assilla la sicurezza e cediamo. Ci rintaniamo nelle nostre visioni da miopia. E’ come quando si impara a usare la bicicletta. Si abbassa lo sguardo ai propri piedi sulle staffe e si perde l’orizzonte prima e l’equilibrio, poi. Pietro forse voleva tentare il Signore, mettere in campo un po’ di spavalderia, ma Gesù lo prende sul serio, rende vero l’impossibile se tu ti abbandoni in Lui.
Aveva camminato per scherzo o per sfida, ma Gesù è vero, non è un ipnotizzatore, non è un fenomeno da baraccone. Pietro è troppo concentrato su di se, si impaurisce e si affida di nuovo. Signore salvami. Gesù stese la mano come Dio stese la sua nel creare Adamo il primo uomo e Pietro fu riportato a un rapporto vivo con Gesù. Uomo di poca fede! hai dubitato credevi che io stessi a giocare. Ti affidi a me o ai miracoli, alle cose meravigliose, sorprendenti? Il dubbio di Pietro non è il dubbio intellettuale intorno alle verità di fede, ma la mancanza di fiducia in Gesù, di fronte alle difficoltà della vita. Ricostruirci ogni giorno questa fiducia è la fede. La fede è preghiera insistente. Allora i discepoli, accostatisi a Gesù in disparte, gli chiesero: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? ”. 20 Ed egli rispose: “Per la vostra poca fede.(Mt 17,20). Il contesto di questo altro rimprovero è un rapporto tenerissimo tra padre e figlio ammalato, tra supplica rivolta ai dodici, ai rappresentanti di Gesù, alla Chiesa potremmo dire noi oggi, la sconfitta e la tenacia di rivolgersi a Gesù. Appena ritornati presso la folla, si avvicinò a Gesù un uomo 15 che, gettatosi in ginocchio, gli disse: “Signore, abbi pietà di mio figlio. Egli è epilettico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e spesso anche nell’acqua; 16 l’ho già portato dai tuoi discepoli, ma non hanno potuto guarirlo”. 17 E Gesù rispose: “O generazione incredula e perversa! Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatemelo qui”. 18 E Gesù gli parlò minacciosamente, e il demonio uscì da lui e da quel momento il ragazzo fu guarito.
Allora i discepoli, accostatisi a Gesù in disparte, gli chiesero: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? ”. 20 Ed egli rispose: “Per la vostra poca fede. In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile. 21 Questa razza di demòni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno”. (Mt 17,14-21). C’è un padre disperato che un giorno va da Gesù e gli consegna suo figlio. Per lui è un figlio perso, è intrattabile, non capisce ragione, è senza senso morale, ha perso ogni serenità, è condotto qual e là come uno straccio; non ha personalità, completamente dipendente da una cattiveria inspiegabile. Ha tentato di tutto, ma il male che abita nel figlio è più forte di qualsiasi ragionamento, di qualsiasi affetto. Le ho provate tutte, ma non ci riesco, l’ho fatto incontrare anche dai tuoi amici intimi, dai tuoi apostoli, ma non ho ottenuto nulla. Forse solo tu puoi fare qualcosa. Sembra la descrizione attuale di tanti rapporti tra genitori e figli, soprattutto quando nei figli entra un male che pare incurabile, una dipendenza che non si può vincere solo con la buona volontà, una assuefazione che ti si scrive nella carne, ti crea una natura somatica diversa come la droga. Questo figlio però non è drogato, è molto di più: è indemoniato, è posseduto da un male incurabile con le classiche medicine, è un diavolo che lo possiede. E non c’è che da andare da Gesù.
Il papà che le ha provate tutte ingenuamente dice a Gesù: se puoi fare qualcosa. (nella versione di Marco) Non sa che ha davanti il figlio di Dio, ma il suo cuore disperato può anche non saperlo, gli si affida lo stesso. Ha consapevolezza di non avere fede, o per lo meno di far fatica a credere, come tanti di noi, ha bisogno di rigenerare la sua fede che si è affievolita, si è a mano a mano spenta, divorata dalle preoccupazioni, dalle cose, dal consumo, dalla vita dura che vive e che non ha mai avuto il coraggio di mettere nelle mani di Dio con la preghiera; forse anche per questo suo figlio è in queste condizioni, non ha mai avuto una parola di speranza. E la va a cercare da Gesù. Gesù dice che queste vite dei vostri figli si possono aiutare spesso solo con la preghiera. E’ una preghiera viva, di fiducia, insistente, fatta anche di lacrime. Chi non ricorda le lacrime di Santa Monica la mamma di S. Agostino che è riuscita a ottenere da Dio il dono della sua conversione? La speranza può tornare a far fiorire rapporti belli anche tra genitori e figli se si ha il coraggio di pregare. La fede è avere un cuore aperto al dono sempre. Accortosene, Gesù chiese: “Perché, uomini di poca fede, andate dicendo che non avete il pane? (Mt 16,8). Non intendete e non capite ancora? Avete il cuore indurito? 18 Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite ? (Mc 8, 17-18). Gesù chiama in causa non solo l’intelligenza, ma anche il cuore, anche la capacità di lasciarsi coinvolgere in una esperienza di dono. Cuore, nel nostro modo di dire è termine che significa amore, dono, l’offerta di tutta la persona. E’ necessario per la completezza di una adesione di vita. Non basta l’intelligenza, occorre la capacità di amare. Gesù fa una domanda che suona come un rimprovero, che ci mette al muro: avete il cuore indurito?
Sclerocardia è l’indurimento: sclerosi del cuore. E’ lì bloccato come una pietra. Che cosa può esprimere un pezzo di pietra se non la durezza di una vita che sta altrove, che non si commuove per niente, che non comanda al viso nemmeno un sorriso, alle mani una stretta d’accoglienza, al corpo uno slancio di dedizione? Chi ha il cuore indurito per eccellenza nell’Antico Testamento è il faraone, il padrone dell’Egitto, colui che tiene prigioniero il popolo, che lo sfrutta, che non bada a sofferenze, che calcola il numero dei mattoni, che comanda la morte dei neonati, che si mette contro Dio, contro il suo piano di salvezza (cfr Es 4,21). Alla fine di ogni piaga che ritma le speranze e delusioni del popolo di Israele che vuol uscire dall’Egitto c’è un ritornello: il cuore del faraone è ostinato nella sua durezza di cuore. Il salmo 4 dice: Fino a quando, o uomini, sarete duri di cuore? Perché amate cose vane e cercate la menzogna? Nel vangelo di Matteo (13,15) si richiamano le parole di Isaia : Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito. Ezechiele (2,4) dice: Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Lo stesso Marco (6,52) appena dopo la moltiplicazione dei pani, nelle stesse condizioni, sulla barca, nella fatica di reggerla col vento contrario, con Gesù che cammina sulle acque e viene in loro aiuto, ancora dice: Ed erano enormemente stupiti in se stessi, perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito. Insomma Gesù nella sua infinita sapienza e bontà continua a chiedere agli apostoli di aprire il cuore, di mettersi in una condizione di amore, di dono, di accoglienza, di apertura.
Lasciati andare, smollati, vieni giù dalle tue sicurezze, fidati, fa un passo, rischia, dona la tua vita, smettila di stare sulle tue, apriti alla vita, buttati nell’avventura dell’amore, esci dal tuo comodo loculo. Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città del paese che il Signore tuo Dio ti dá, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso. (Deut 15, 7). A questo cuore indurito serve una cardioterapia, fatta di preghiera, di ascolto della Parola, di relazioni umanissime e di scuola d’amore. La famiglia, l’amicizia, l’innamoramento, il fidanzamento sono tutte cardioterapie se hanno al centro l’amore fino all’ultima goccia di Gesù. Questi apostoli hanno bisogno di una full immersion nel cuore di Gesù. La faranno, ma prima verrà la passione. Potrebbe nascere in noi l’imperativo di guardar dentro alla nostra fede, ma da un punto errato: valutare quanti ragazzi ci sono a catechismo, quanta serenità mi porto dentro, quanta fede ho, dove la parola chiave è quantità. La fede è qualità buona della vita ( Lc 17, 5-6). Gli apostoli dissero al Signore: “Aumenta la nostra fede! ”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.
Nella nostra consapevolezza che siamo gente di poca fede perché viviamo nell’affanno, ci lasciamo vincere da uno sfinimento di energie e di volontà, non teniamo fisso lo sguardo su Gesù, non puntiamo sulla preghiera ci può nascere un desiderio di riscatto. Spesso siamo ancora incantati da soluzioni materiali ad ogni problema di vita, a chiudere ogni visione che vada oltre le nostre vedute. Siamo come gli apostoli gente di poca fede. Anche loro vedevano che tutti i conti non tornavano ai loro pensieri preoccupati. Sapevano di aver posto fiducia in Dio, ma spesso sembrava loro più una fatica, un azzardo, un ostacolo alle loro visioni fin troppo semplificate e si sentono in dovere di chiedere aiuto a Gesù. La domanda è maldestra: “aumenta la nostra fede”, quasi che la fede si possa comperare a chili, si possa leggere con criteri di quantità. Invece Gesù li aiuta a fare un salto di qualità. Se è fede vera, ne basta un granellino di senapa. La fiducia in Dio, l’abbandono a Lui non è da pesare o da quantificare, ma è una dimensione profonda della vita, è un modo diverso di vivere, di fare riferimento a Lui, di affidarsi. Non dipende da studi approfonditi, anche se ha bisogno di essere continuamente messa a confronto con tutte le pulsioni della vita, anche intellettiva. Non cresce in base alle nostre qualità o alle nostre proprietà, non è in vendita. E’ un dono di Dio e, come tale, è sempre pieno e definito. Può incontrare un animo superficiale, e allora non si radica nella vita, ma sta solo in abitudini esteriori; può imbattersi in un animo ribelle e allora si ingaggia una lotta, che rispetta sempre la libertà della persona; può incontrare difficoltà e crisi e allora esige costanza e fermezza. Ma quando l’animo si apre al dono di Dio, lo invade un desiderio di pienezza, spariscono le mezze misure, i calcoli, le tergiversazioni e diventa profonda.
Con una fede matura rinasce freschezza nella vita, trovi sapore all’esistenza, resisti alla sfiducia, trovi forza nel dolore, si sviluppa una amicizia impensabile con Dio. Ti nasce dentro serenità e abbandono, voglia di cambiare e di donare, sguardo buono sull’esistenza, perché sai di stare a cuore a Dio, di giocare con un suo dono, non con le tue miserie. Il centro della fede è Lui e se questo è vero, Lui, Dio c’è sempre tutto e mai a pezzi comodi come ce lo aggiustiamo noi.
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