venerdì, gennaio 18, 2013
«Insigne apostolo della carità». Così Giovanni Paolo II ha definito padre Werenfried van Straaten, fondatore di Aiuto alla Chiesa che Soffre, nel telegramma di cordoglio per la sua scomparsa. Il papa polacco ed il monaco olandese erano legati da una profonda e duratura amicizia, nata quando Wojtyla era ancora arcivescovo di Cracovia. Ed è a Werenfried che, dopo il crollo del comunismo, il pontefice affidò il compito di «restaurare l’amore» attraverso il sostegno alla sorella Chiesa ortodossa. 

Ieri, 17 gennaio, Aiuto alla Chiesa che Soffre ha festeggiato il centenario della nascita del suo fondatore. Scomparso il 31 gennaio 2003, appena due settimane dopo il suo novantesimo compleanno, “il più grande mendicante del Novecento” lascia in eredità alla sua Opera l’esempio vibrante di oltre mezzo secolo di apostolato originale e coraggioso e il suo storico berretto nero, il “cappello dei milioni”, compagno instancabile di elemosine, «sempre assetato di offerte». «Il cappello è logoro e bucato – ironizzava – quindi mettete banconote e non monete . Altrimenti cadono!». Nella sua vita ha raccolto oltre tre miliardi di dollari per la Chiesa nel bisogno, spronato dalla convinzione che «gli uomini sono molto migliori di quanto si pensi. Attendono soltanto la parola ardente che infiammi i loro cuori». Una capacità non certo avulsa al suo immenso carisma e al vigore della sua carità. «Il nostro budget è fatto da promesse» ripeteva il monaco premostratense ricordando le innumerevoli volte in cui aveva promesso aiuto senza disporre delle risorse necessarie. «E tutto quello che abbiamo promesso, sempre abbiamo ricevuto, sempre, sempre. Dio non ha mai deluso la nostra fiducia». Quando a 21 anni entrò in abbazia a Tongerlo, Philippus van Straaten scelse il nome Werenfried, che significa «combattente per la pace». Quel nome diverrà il senso e l’espressione di una vita interamente dedicata ai «fratelli perseguitati» che ha sempre considerato «l’élite della nostra Chiesa». «Dio piange in tutti gli oppressi e i sofferenti del nostro tempo. E non possiamo amarLo senza asciugare le sue lacrime. Per questo ho cominciato a peregrinare attraverso i deserti di macerie e i campi di baracche della Germania sconfitta, attraverso i campi profughi in Europa e in Asia, in America Latina. Dovunque Dio piange». È questa la missione che ha affidato alla sua Opera, Aiuto alla Chiesa che Soffre, onorata dapprima con il sostegno ai rifugiati tedeschi in fuga dalla Germania orientale, poi nel dare voce alla Chiesa del silenzio aldilà della Cortina di ferro e in seguito oltre nuove “cortine” accanto a tutti i martiri della fede. Combattendo l’ateismo del comunismo materialista con la stessa tenacia con cui aveva combattuto il comunismo ateo. Dalla raccolta di lardo ai camion trasformati in “cappelle volanti”, dalla Bibbia illustrata per bambini fino ai “battelli-cappella” che diffondevano la parola di Dio lungo il Volga. Testimone del suo tempo, attraverso la sua geniale inventiva padre Werenfried ha saputo rispondere a bisogni materiali e soprattutto spirituali, sostenendo la pastorale della Chiesa che soffre. «La vostra opera è essenzialmente pastorale» scrisse Giovanni Paolo II nel 1987. E mai ACS ha tradito la sua vocazione, indicata dal suo fondatore nelle direttive spirituali dell’Opera. «Al carattere pastorale non abbiamo mai rinunciato, neppure quando venne la moda di porre il progresso sociale al di sopra dello stretto sentiero che porta al cielo…Sebbene questa dimensione renda più difficile lo stimolare la generosità, dobbiamo accettare questo svantaggio, nella consapevolezza che l’aiuto pastorale che diamo alla Chiesa rappresenta il fondamento per lenire tutte le altre sofferenze». La dimensione pastorale si riflette nelle priorità dell’Opera, tra cui emergono il sostentamento a sacerdoti e religiosi e gli aiuti alla loro formazione. Padre Werenfried stesso faceva notare la natura essenzialmente sacerdotale del suo lavoro. «Non sono stato incaricato di risanare l’economia ma la vita di Cristo nel cuore degli uomini. Tutto quello che ho fatto l’ho fatto da sacerdote, figlio della Chiesa cattolica». Nell’omelia pronunciata ai suoi funerali, un commosso cardinale Darìo Castrillon Hoyos, allora Prefetto per la Congregazione del Clero, ricorderà proprio i sessantatré anni di appassionato sacerdozio. «Per me egli è stato un sacerdote santo perché se mai vi è stata una vita sacerdotale e religiosa corrispondente alla volontà di Dio quella è stata la sua».

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