venerdì, febbraio 22, 2013
Ettore Capri: «Se l’alimentazione è equilibrata, anche l’ambiente ne trae giovamento»

GreenReport - L’uomo è ciò che mangia, asseriva Ludwig Feuerbach ne il suo Il mistero del sacrificio o l'uomo è ciò che mangia. Dall’800 ad oggi, questo quotato aforisma è rimbalzato dai testi di filosofia a quelli di cucina, senza perdere il suo tono di esagerazione. Ma se effettivamente ci domandassimo adesso, da cittadini occidentali, che cosa mangiamo, in quanti sapremmo davvero rispondere? Parafrasando Feuerbach dovremmo probabilmente ribattere - una volta di più - che non sappiamo chi siamo. Horsegate è solo l’ultimo degli scandali alimentari a montare nelle cronache quotidiane: nonostante la crescita dei prodotti biologici, o del mercato a chilometro zero, nonostante il moltiplicarsi vertiginoso di diete salutiste quanto maldestre, finiamo comunque per addentare dei tortellini comprati nel negozio dietro casa e, ops! Scopriamo che invece che della carne di manzo stiamo masticando un pezzo di cavallo. Niente di grave, si dirà, ma il ripieno del tortellino avrebbe potuto contenere ben altro e, in ogni caso, si tratta di frode alimentare. Per quanto ci sforziamo di spostare il centro della nostra economia (e della nostra vita) nell’indefinito mondo virtuale piuttosto che nel reale, il cibo e il bisogno di mangiare ci ricorderanno sempre quanto siamo legati alla Terra. La stessa industria agroalimentare, però, aumenta progressivamente la propria pressione sulle risorse naturali dalle quali dipende la nostra vita: tra espansione demografica, obesità inedia, sprechi indecenti e diete da riscrivere, come ci muoviamo all’interno di un terreno prezioso quanto sdrucciolevole? Greenreport.it ha chiesto una mano ad Ettore Capri, ordinario di Valutazione del rischio negli alimenti e Agrofarmaci e Ecotossicologia all’università Cattolica del Sacro Cuore, fresco autore di uno studio sul water footprint degli alimenti presentato a WiGreen, forum interattivo della sostenibilità ambientale.  

Tra le varie attività umane, quella dell’alimentazione è tanto indispensabile quanto responsabile di impatti ambientali crescenti. Come è possibile stimarli a livello globale, e a quanto ammontano? «Come ogni altro bene che utilizziamo nella vita di tutti i giorni, ciò che mangiamo viene prodotto da una filiera che impiega energia e risorse per il suo funzionamento. L’alimentazione, in particolare, è un’attività che da sola genera circa il 20% del nostro impatto ambientale. Oggi, possiamo disporre di alcuni indicatori per stimare, seppure in maniera approssimativa, qual è l’impatto della produzione alimentare sulle risorse del pianeta, come la disponibilità di acqua e le emissioni di anidride carbonica. Tramite l’analisi del ciclo di vita - secondo quando espresso dalle norme ISO 14040/14044 – è possibile fare delle valutazioni molto specifiche per valutare l’impatto ambientale degli alimenti, attraverso 4 fasi: definizione degli obiettivi e campo di applicazione (misura o quantità di prodotto presa come riferimento per l’analisi dell’impatto e ampiezza del sistema considerato); inventario (vengono quantificati gli input e le relative emissioni, per ciascuna fase del ciclo di vita); valutazione degli impatti (classificati ed aggregati nelle diverse categorie di impatto) e interpretazione dei risultati per poter effettuare raccomandazioni e suggerire interventi per la riduzione dell’impatto ambientale».  

Una delle risorse sulle quali il peso del settore agroalimentare è maggiore è l’acqua. Nel suo studio presentato a WiGreen, nel contesto di un’ alimentazione equilibrata (ossia avendo come riferimento la piramide alimentare italiana) l’impatto «di questi 2 alimenti è praticamente equivalente». Per contenere il water footprint dell’alimentazione italiana è dunque opportuno promuovere la tradizionale dieta mediterranea? «Sicuramente, un’alimentazione equilibrata di tipo mediterraneo è notoriamente da promuovere dal punto di vista della salute, che è il primo aspetto da considerare quando si parla di dieta. Se poi i numeri ci confermano che questo modello alimentare è anche ‘sostenibile’ per il pianeta, non possiamo fare altro che imparare a rivalutare la tradizione alimentare e gastronomica del nostro paese, restituendo il giusto valore agli alimenti di origine animale e vegetale (perché la dieta mediterranea non è fatta solo di olio di oliva e pomodori!). In un momento di grande attenzione e dibattito sulle tematiche riguardanti la sostenibilità e l’alimentazione, è fondamentale ricordare cheper rispettare l’armonia del nostro ambiente dobbiamo semplicemente mangiar sano, nel rispetto della Dieta Mediterranea e delle nostre tradizioni. Non è necessario, né salutare, abbandonare le nostre abitudini alimentari rincorrendo le mode del momento. Se l’alimentazione è equilibrata, anche l’ambiente ne trae giovamento».

 Il consumo di carne, in Italia, appare ormai comunque maggiore rispetto a quanto consigliato dalla piramide alimentare teoricamente ottimale. Sono disponibili precise stime al riguardo? «Il dato più recente che abbiamo a disposizione sul consumo effettivo di alimenti da parte degli italiani deriva da un’indagine svolta dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN) su un campione significativo della popolazione, i cui risultati sono pubblicati anche sulla nuova banca dati particolareggiata dell’EFSA sui consumi alimentari in Europa (2011). Secondo la ricerca, il consumo medio di carne da parte di un italiano adulto è di circa 110 grammi al giorno (incluse sia le carni fresche sia quelle trasformate e stagionate, per un totale settimanale di 770 grammi a settimana). L’Istituto di Scienza dell’Alimentazione della Sapienza di Roma nel 2005 ha formulato, tramite la Piramide Alimentare Italiana, una guida per il consumo settimanale di alimenti, indicando una ‘Quantità Benessere’ (QB) per la carne fresca non superiore ai 500 grammi e per i salumi una QB fino a 150 grammi settimanali. È vero, quindi, che il consumo di carne appare leggermente superiore alla quantità massima consigliata per una corretta alimentazione, ma il dato è ben lontano da quello di circa 250 g indicato dalle banche dati internazionali (tipo Faostat ed Eurostat), le quali riportando la disponibilità di cibo per ogni italiano (e non il consumo effettivo), non sono indicatori del consumo effettivo da parte delle famiglie, come gli stessi organismi giustamente segnalano».

 Intanto, i consumi mondiali di carne stanno crescendo in parallelo all’aumento del benessere economico delle economie emergenti. Al contempo, nel 2050 è prevista una popolazione di 9,5 miliardi di bocche da sfamare. Una combinazione di nutrienti come quella proposta dalla dieta mediterranea è una risposta globalmente applicabile e/o auspicabile, o ci siamo altri modelli di riferimento? «La FAO sta lavorando da tempo sui parametri di sostenibilità della dieta, promuovendo le tradizioni locali e la cultura del territorio nel mondo globalizzato di oggi. La disponibilità di determinati alimenti cambia proprio in funzione al contesto di riferimento: se nel nostro caso i prodotti di origine animale e principali fonti proteiche della dieta derivano dall’allevamento di specie bovine, suine e avicole, in altre parti del mondo dove il contesto socio-economico, culturale e geoclimatico sarà favorevole all’allevamento di altre specie animali, di insetti, o alla pesca, le fonti proteiche sono storicamente diverse. Per questi motivi la dieta mediterranea è sostenibile nei Paesi dell’area mediterranea, come l’Italia, ma il discorso non è sempre generalizzabile».  

La massiccia incidenza della carne nell’alimentazione dei Paesi occidentali non minaccia soltanto la disponibilità di acqua dolce. L’ammontare totale di energia nella catena alimentare è fissato dall’energia solare convertita in energia chimica dalle piante, a successivo nutrimento degli animali e, ancora dopo, degli uomini. Ma ad ogni trasferimento l’efficienza di conversione fa perdere il 90% circa dell’energia iniziale: si tratta di un argomento a forte favore di un’alimentazione prevalentemente vegetariana, non crede? «In questo contesto è bene precisare che il cibo non ci fornisce solo energia: considerazioni di sostenibilità nutrizionale non si possono basare solo sul bilancio energetico, prescindendo dal valore nutritivo degli alimenti, che è il fattore che influenza le indicazioni quantitative sul loro consumo. È per questo che l’approccio più opportuno in questi casi è di tipo integrato, comprendente sia gli aspetti di carattere nutrizionale, sia quelli di carattere ambientale. Confrontando categorie alimentari completamente diverse, come la carne e le verdure, osserviamo ad esempio come la carne fornisce quasi 10 volte le calorie degli ortaggi. Il rapporto aumenta a più di 16 se consideriamo le proteine e così via in riferimento ad altri nutrienti. Il ruolo della dieta consiste prima di tutto nel fornirci i nutrienti necessari al funzionamento del nostro organismo e la dieta mediterranea risulta un regime alimentare universalmente riconosciuto ai fini della salute».  

Secondo il direttore generale Fao, José Graziano da Silva, «nei Paesi industrializzati, circa metà di tutto il cibo viene dissipato, circa 300 milioni di tonnellate, perché produttori, distributori e consumatori eliminano alimenti che sono ancora buoni per essere consumati». Uno spreco che sarebbe «sufficiente a nutrire i circa 870 milioni di persone che soffrono la fame nel mondo». Quali iniziative sarebbe necessario intraprendere per ridurre questo che è il più grande e inutile impatto del settore agroalimentare sulle risorse naturali? «Quando parliamo di sprechi, occorre distinguere lo spreco durante la produzione degli alimenti (definito food losses) da quello al consumo (food waste). Le filiere agro-alimentari sono generalmente orientate all’ottimizzazione e alla riduzione degli sprechi anche se, secondo i dati FAO, a seconda della natura della materia prima trattata alcune di esse registrano in Europa deifood losses superiori anche al 30% (come del caso di tuberi, verdure e ortaggi), mentre altre risultano più ‘virtuose’, come la filiera di produzione della carne (con il 13%). Lo spreco al consumo è invece il parametro che ci interessa maggiormente in questo senso, poiché, trattandosi di cibo commestibile che viene letteralmente buttato, al food waste associa il nutritional waste, la perdita del valore nutritivo dell’alimento, causata dal suo non consumo,ed elemento dall’impatto etico e sociale non indifferente, proprio pensando al fatto che oltre il 12% della popolazione mondiale è sottonutrita. Sempre dai dati FAO si nota come la categoria alimentare maggiormente sprecata dai consumatori europei siano i cereali (di cui ben ¼ finiscenella spazzatura) mentre i prodotti animali registrano lo spreco domestico più basso trai prodotti freschi. Rieducare il consumatore al valore dell’alimento, attraverso campagne informative volte all’educazione dei bambini, o sfruttare l’attuale congiuntura di crisi economica come opportunità per proporre il recupero del cibo avanzato il giorno prima attraverso nuove ricette possono essere alcuni esempi di strategie adottabili da diverse categorie di soggetti interessati, come l’industria alimentare e la GDO in primis».

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