giovedì, febbraio 21, 2013
E’ ancora caos politico in Tunisia dopo le dimissioni del premier Jebali; una crisi innescata dall’uccisione del leader dell’opposizione Belaid e dal conseguente scambio di accuse sulla responsabilità del delitto. Caso che ha portato al tentativo – poi fallito – da parte di Jebali di formare un governo tecnico.

Radio Vaticana - Ieri il presidente della Repubblica Marzouki ha dato il via alle consultazioni, mentre è già iniziato il fuoco di fila di veti incrociati per quella che sarà la futura squadra di governo. Il servizio è di Salvatore Sabatino: ascolta
Incertezza. La parola corre veloce sulle bocche di tutti in Tunisia. Incertezza economica, sociale, ma soprattutto politica. Incertezza esasperata dalle dimissioni del premier Jebali ed esorcizzata dal presidente della repubblica Marzouki, che a distanza di poche ore dall’addio del suo delfino ha iniziato immediatamente le consultazioni. Il governo prossimo venturo sarà quasi certamente politico, al contrario di quello che voleva Jebali; ma non è esclusa la presenza di qualche tecnico chiamato a sostenere il difficile cammino di un esecutivo alla ricerca di stabilità. Certo una soluzione a metà, ma anche una mossa politica scaltra, destinata a calmierare tutti quei partiti che avevano appoggiato Jebali nella formazione di una squadra governativa fatta di “eccellenze”. Ennhada, il partito di maggioranza è sicuro di restare al potere, nonostante il solco creato dal suo premier Jebali e nonostante ora si trovi contro il’Ugtt, il principale sindacato tunisino - che ha rafforzato la sua sfiducia dopo aver subito numerosi assalti da parte delle Leghe per la protezione della rivoluzione, quella che viene definita la ''guardia di ferro'' dell'esecutivo- e che a mezza bocca chiede un nuovo incarico per Jebali. Ipotesi, questa, non esclusa totalmente, nonostante la sua uscita di scena abbia gettano un’ombra sul già difficile percorso di normalizzazione del Paese. Il varo del nuovo esecutivo potrebbe comunque essere questione di giorni, anche per rispondere alla richiesta di soluzione della crisi politica giunta ieri da Bruxelles.

La Tunisia vive, dunque, un momento di transizione particolarmente delicato, non del tutto dissimile rispetto a quanto sta avvenendo in Egitto: entrambi i Paesi due anni fa sono stati percorsi dai sommovimenti popolari della "primavera "araba ed entrambi oggi sono alla ricerca di un futuro di stabilità. Ma c’è effettivamente un filo invisibile che unisce queste due importanti realtà che si affacciano sul bacino del Mediterraneo? Salvatore Sabatino lo ha chiesto ad Alberto Ventura, docente di Storia dei Paesi islamici all’Università della Calabria: ascolta

R. – Il filo c’è, forse neanche troppo invisibile proprio perché, com’è noto, le rivolte di un paio di anni fa sono nate a cascata: si sono così riprodotte, in un certo senso, per imitazione l’una con l’altra e riflettevano un’esigenza di fondo, comune a molti di questi Paesi, di liberarsi da regimi dispotici, non democratici, che soffocavano le libertà individuali, le possibilità di espressione. Insomma, sono state soprattutto rivolte civili che hanno avuto questo filo comune. Il filo, invece, si fa un po’ meno comune per quanto riguarda il dopo rivoluzione e infatti vediamo che nei vari Paesi le problematiche sono diverse. Gli stessi Egitto e Tunisia – che adesso sono accomunati da una situazione di instabilità – non sono del tutto assimilabili l’uno all’altro. E vediamo, ad esempio, come la Libia o la vicinissima Algeria stiano vivendo una fase completamente diversa. Bisogna quindi esaminare da una parte il tessuto complessivo di queste rivolte e di quello che sta succedendo e, dall’altra, più specificatamente entrare nel dettaglio di ogni singolo Paese.

D. – C’è anche il problema delle due Costituzioni di questi Paesi, entrambe legate a doppio filo alla sharia, la legge islamica...
 
R. – Direi che la differenza è notevole, perché in Tunisia, nonostante il partito Ennahda, che ha vinto le elezioni e che costituisce la maggioranza di governo, sia un partito islamista fondamentalmente, le componenti laiche che hanno partecipato al governo e la stessa Assemblea costituente, quella presieduta da Ben Jafar, hanno più volte garantito – e direi non soltanto a parole, mi sembra – la difesa di alcuni principi di laicità sostanziale. Anche se è evidente che un qualche elemento, qui e lì, si possa introdurre nelle Costituzioni che riporti i Paesi ad un’osservanza islamica, però direi più in termini di valori generali che non di normative precise. In Egitto, la situazione è un po’ più complessa perché lì, da tempo, alcune istanze islamiste erano state accolte già dal precedente regime, per tacitare appunto le opposizioni, e mi sembra che forse il rischio di un qualche passo indietro possa essere più evidente.

D. – Tra l’altro, proprio in Egitto viviamo una situazione abbastanza particolare. Morsi, il presidente, è molto criticato all’interno del Paese mentre è abbastanza apprezzato dalle cancellerie internazionali per il ruolo di mediazione che può avere con i Fratelli musulmani, il suo partito...

R. – La situazione è da analizzare. Però, anche lì dobbiamo tener conto delle esperienze passate, nel senso che molto spesso l’Occidente ha favorito, comunque non ha sfavorito, alcuni regimi, tendenzialmente radicali, nella speranza che tali regimi potessero in qualche misura costituire un elemento di equilibrio e di stabilità. Bisogna però essere un po’ meno "miopi" e vedere nelle mani di chi ci si affida. Ora – per quanto indubbiamente il governo egiziano sia un governo non terrorista, o se vogliamo non di un fondamentalismo troppo spinto – comunque appartiene a quell’ambito di un islam puritano, rigorista e così via che in me suscita qualche preoccupazione. Non possiamo escludere che poi la "deriva islamista", come viene definita, non si affermi in una misura o nell’altra.

D. – Le dimissioni del premier Jebali, in Tunisia, gettano un’ombra sul già difficile percorso di normalizzazione del Paese. Le divisioni interne al partito Ennahda potranno bloccare questo processo già difficile?

R. – Direi di sì, perché indubbiamente anche quando parliamo di questi movimenti islamisti, noi tendiamo a essere un po’ generici e a pensare che siano dei "monoliti", dei corpi abbastanza unici. In realtà, c’è una dialettica piuttosto serrata all’interno di questi partiti di ispirazione islamica. Sembrerebbe proprio che le dimissioni di Jebali siano in sostanza un atto di rottura, di forte rottura, all’interno di Ennahda e quindi testimoniano uno stato di tensione all’interno di questi partiti islamisti, che secondo me riflette quello che dicevo prima, a proposito dell’Egitto, cioè che gli stessi partiti islamisti si trovino stretti tra due esigenze: da una parte, una certa credibilità internazionale, quindi un atteggiamento moderato, dialogante, e così via, mentre dall’altra le pressioni degli elementi più radicali al loro interno e anche le pressioni esterne a certi partiti di governo, come quelle dei movimenti salafiti, che quantitativamente non sono particolarmente importanti, ma che dal punto di vista però delle pressioni sui movimenti di governo tentano di contestare il primato islamico ai partiti di governo.


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