“Più volte ho incontrato l’onorevole Nicola Cosentino. Lo conoscevo. Da giovani giocavamo a pallone e capitava di vedersi spesso. Poi avevo un parente in comune: lo zio di sua moglie, Marisa Esposito. Era normale incontrarsi. Anche se non mi interessavo di politica l’ho aiutato spesso nelle elezioni cominciando quando era candidato alla Regione Campania. Passavo la voce e chiamavo le persone più vicine a me. Se c’era un candidato che poteva interessare il clan, noi l’aiutavamo”.
Liberainformazione - Il collaboratore di giustizia Dario De Simone è collegato in videoconferenza da una località segreta. Il Pm Alessandro Milita lo incalza con le domande, lo invita a spiegare, a scendere nei particolari, a ricostruire lo scenario e il contesto storico. L’ex boss dei Casalesi è tranquillo, racconta senza esitazione, scandendo con chiarezza le parole. Lo ascolta Giampaolo Guglielmo, presidente della I sezione penale del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Il processo è quello che coinvolge l’ex sottosegretario e ex coordinatore del Pdl in Campania per concorso esterno in associazione camorristica.
Il racconto rimbomba nel silenzio dell’aula giudiziaria, l’onorevole Nicola Cosentino è attento, lo sguardo è fisso. A volte si rivolge al suo avvocato, un sussurro per poi ritornare ad ascoltare. “Noi Casalesi non avevamo preferenze per uno schieramento oppure un altro. Tanto i favori alla fine ce li facevano tutti. Ricordo ad esempio che abbandonammo la Dc casertana per darle un segnale, votammo un partito che non esisteva quello liberale eleggendo l’avvocato Martucci”. Parla con scioltezza De Simone ripete cose già note fino a quando cala un asso che spiazza tutti. E accenna a una presunta trattativa speculare a quella per intenderci mafia-Stato avvenuta negli stessi anni e che riguardava la camorra. Un papello napoletano sottoscritto da tutti i capi della camorra che nulla aveva a che fare con Cosa Nostra. Il collaboratore di giustizia svela il progetto secondo le rivelazioni che apprese dagli esponenti del clan Moccia di Afragola che avevano rapporti molto in alto sia con la politica romana sia con gli ambiente della chiesa, il referente dell’operazione era il ministro della giustizia Giovanni Conso quello stesso che in meno di cinque minuti tolse con una firma il carcere duro a centinaia di mafiosi. “Noi dovevamo consegnare le armi, ma in cambio avevamo un alleggerimento sulle leggi, niente ergastoli e niente confische, e intanto continuavamo le cose nostre. Ne parlai anche con Cosentino, di questo. La cosa saltò perchè Francesco Sandokan Schiavone non accettò: disse che lui allo Stato, non voleva consegnare neanche un temperino”. Uno spaccato che conferma il rango dei Casalesi simili per organizzazione e modus operandi più a Cosa nostra che alla camorra partenopea, litigiosa e per niente strategica. E’ lo stesso pentito Carmine Schiavone, ex imprenditore e cugino di Sandokan a confermarla dai giudici in videoconferenza spiega : “Noi siamo un’altra cosa rispetto alla camorra. Noi avevamo la nostra idea: dovevamo formare i nostri giovani come persone con la testa, dovevamo formarli come magistrati, poliziotti, carabinieri, politici perchè no, anche ministri: per avere i nostri referenti nelle istituzioni”. Accordarsi con lo Stato. Ingaggiare una trattativa. Questo progettavano i capi camorra. Nacque l’idea della dissociazione. La vicenda è stata ripescata e ricordata dal collega de “Il Mattino” Gigi Di Fiore. Le prime verità emersero e furono accennate in una delle tante ordinanze cautelari partorite dalle indagini sulle dichiarazioni del “Buscetta campano”: Pasquale Galasso.
Nell’atto giudiziario, si parlava del ruolo di don Antonio Riboldi vescovo di Acerra e dell’allora sottosegretario alla Giustizia, Domenico Contestabile, sull’ipotesi dissociazione. Qualcuno pensò che, come per il terrorismo, anche per i camorristi si potesse introdurre nel codice la figura del dissociato: mi auto accuso di tutti i miei crimini, ma non coinvolgo altri, ricevendone in cambio benefici di pena. Una deviazione della politica giudiziaria avviata dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, con la legge sui collaboratori di giustizia e i contratti dei pentiti tipo Stati Uniti. Angelo Moccia, boss del clan Alfieri ad Afragola, si dichiarò dissociato. Lo fece anche Pasquale Loreto, del clan Pepe vicino ad Alfieri in provincia di Salerno. Il 17 febbraio 1994 furono fatte trovare delle armi nel garage di fronte al Tribunale di Salerno. Fu coinvolto come garante don Riboldi, il progetto venne portato al sottosegretario Contestabile che ne accennò al ministro Giovanni Conso. Il progetto non andò in porto: la procura all’epoca guidata da Agostino Cordova disse “no”. La dissociazione non è ammissibile, valgono solo i pentiti. Intanto, i clan se la prendevano con i familiari dei collaboratori di giustizia: vennero uccisi il fratello di Dario De Simone e di Mario Pepe. Adesso dopo anni lo stesso De Simone parla di quell’approccio istituzionale indicando Nicola Cosentino come un serio interlocutore politico di quel progetto. Ricostruzioni e deposizioni inedite emerse nel corso del processo che si aggiungono alle dichiarazioni dell’ex deputato del Pd Lorenzo Diana che aveva tirato in ballo l’ex sottosegretario per quanto riguarda gli interessi politici nel settore dei rifiuti. E pensare che l’onorevole Cosentino di fronte alla mancata ricandidatura ha inscenato una vera e propria sceneggiata napoletana con tanto di psicodramma sulla rotta Roma-Napoli-Caserta. Dimenticando che a dicembre scorso i suoi legali con un’istanza difensiva chiesero la revoca della misura cautelare – quella relativa all’inchiesta poi sfociata in un nuovo processo “Il Principe e la scheda ballerina” – ma il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli Eduardo De Gregorio in venti pagine ha motivato che le esigenze cautelari non sono cessate e che la riproposizione di Cosentino in una qualsiasi lista di candidati costituirebbe un forte elemento di “condizionamento della competizione elettorale”. Condizionamento che si può desumere, continua, non solo “da comuni regole di logica e di esperienza”, ma anche da quanto “finora raccolto dalle indagini”. Ritornando all’udienza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sul finire Carmine Schiavone mette fuori un carico pesantissimo e svela: “Chiesi a Don Peppino Diana (il parroco ucciso il 19 marzo del 1994 in sacrestia per il suo impegno anticamorra) di sostenere Nicola Cosentino come candidato alle provinciali: era il 1991. Il prete portava molti voti, era seguito”, dice Schiavone e aggiunge: “Cosentino mi chiese di coinvolgere il prete”. Un racconto che mostra come Cosentino si muovesse a 360 gradi sul territorio per rastrellare consensi. L’aver chiesto un aiuto non significa che don Peppe diede sostegno elettorale a Nick ‘o mericano.
Lo stesso Schiavone – infatti – chiarisce: “C’era un tessuto di rapporti di parentela tra la famiglia di don Peppino e noi Schiavone. E comunque lui, don Peppino, era molto critico, parlava sempre contro i camorristi : tanto che io gli dicevo di stare attento, e in qualche modo gli garantivo una protezione. Finché io non mi sono allontanato, lui era protetto”.
Il racconto rimbomba nel silenzio dell’aula giudiziaria, l’onorevole Nicola Cosentino è attento, lo sguardo è fisso. A volte si rivolge al suo avvocato, un sussurro per poi ritornare ad ascoltare. “Noi Casalesi non avevamo preferenze per uno schieramento oppure un altro. Tanto i favori alla fine ce li facevano tutti. Ricordo ad esempio che abbandonammo la Dc casertana per darle un segnale, votammo un partito che non esisteva quello liberale eleggendo l’avvocato Martucci”. Parla con scioltezza De Simone ripete cose già note fino a quando cala un asso che spiazza tutti. E accenna a una presunta trattativa speculare a quella per intenderci mafia-Stato avvenuta negli stessi anni e che riguardava la camorra. Un papello napoletano sottoscritto da tutti i capi della camorra che nulla aveva a che fare con Cosa Nostra. Il collaboratore di giustizia svela il progetto secondo le rivelazioni che apprese dagli esponenti del clan Moccia di Afragola che avevano rapporti molto in alto sia con la politica romana sia con gli ambiente della chiesa, il referente dell’operazione era il ministro della giustizia Giovanni Conso quello stesso che in meno di cinque minuti tolse con una firma il carcere duro a centinaia di mafiosi. “Noi dovevamo consegnare le armi, ma in cambio avevamo un alleggerimento sulle leggi, niente ergastoli e niente confische, e intanto continuavamo le cose nostre. Ne parlai anche con Cosentino, di questo. La cosa saltò perchè Francesco Sandokan Schiavone non accettò: disse che lui allo Stato, non voleva consegnare neanche un temperino”. Uno spaccato che conferma il rango dei Casalesi simili per organizzazione e modus operandi più a Cosa nostra che alla camorra partenopea, litigiosa e per niente strategica. E’ lo stesso pentito Carmine Schiavone, ex imprenditore e cugino di Sandokan a confermarla dai giudici in videoconferenza spiega : “Noi siamo un’altra cosa rispetto alla camorra. Noi avevamo la nostra idea: dovevamo formare i nostri giovani come persone con la testa, dovevamo formarli come magistrati, poliziotti, carabinieri, politici perchè no, anche ministri: per avere i nostri referenti nelle istituzioni”. Accordarsi con lo Stato. Ingaggiare una trattativa. Questo progettavano i capi camorra. Nacque l’idea della dissociazione. La vicenda è stata ripescata e ricordata dal collega de “Il Mattino” Gigi Di Fiore. Le prime verità emersero e furono accennate in una delle tante ordinanze cautelari partorite dalle indagini sulle dichiarazioni del “Buscetta campano”: Pasquale Galasso.
Nell’atto giudiziario, si parlava del ruolo di don Antonio Riboldi vescovo di Acerra e dell’allora sottosegretario alla Giustizia, Domenico Contestabile, sull’ipotesi dissociazione. Qualcuno pensò che, come per il terrorismo, anche per i camorristi si potesse introdurre nel codice la figura del dissociato: mi auto accuso di tutti i miei crimini, ma non coinvolgo altri, ricevendone in cambio benefici di pena. Una deviazione della politica giudiziaria avviata dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, con la legge sui collaboratori di giustizia e i contratti dei pentiti tipo Stati Uniti. Angelo Moccia, boss del clan Alfieri ad Afragola, si dichiarò dissociato. Lo fece anche Pasquale Loreto, del clan Pepe vicino ad Alfieri in provincia di Salerno. Il 17 febbraio 1994 furono fatte trovare delle armi nel garage di fronte al Tribunale di Salerno. Fu coinvolto come garante don Riboldi, il progetto venne portato al sottosegretario Contestabile che ne accennò al ministro Giovanni Conso. Il progetto non andò in porto: la procura all’epoca guidata da Agostino Cordova disse “no”. La dissociazione non è ammissibile, valgono solo i pentiti. Intanto, i clan se la prendevano con i familiari dei collaboratori di giustizia: vennero uccisi il fratello di Dario De Simone e di Mario Pepe. Adesso dopo anni lo stesso De Simone parla di quell’approccio istituzionale indicando Nicola Cosentino come un serio interlocutore politico di quel progetto. Ricostruzioni e deposizioni inedite emerse nel corso del processo che si aggiungono alle dichiarazioni dell’ex deputato del Pd Lorenzo Diana che aveva tirato in ballo l’ex sottosegretario per quanto riguarda gli interessi politici nel settore dei rifiuti. E pensare che l’onorevole Cosentino di fronte alla mancata ricandidatura ha inscenato una vera e propria sceneggiata napoletana con tanto di psicodramma sulla rotta Roma-Napoli-Caserta. Dimenticando che a dicembre scorso i suoi legali con un’istanza difensiva chiesero la revoca della misura cautelare – quella relativa all’inchiesta poi sfociata in un nuovo processo “Il Principe e la scheda ballerina” – ma il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli Eduardo De Gregorio in venti pagine ha motivato che le esigenze cautelari non sono cessate e che la riproposizione di Cosentino in una qualsiasi lista di candidati costituirebbe un forte elemento di “condizionamento della competizione elettorale”. Condizionamento che si può desumere, continua, non solo “da comuni regole di logica e di esperienza”, ma anche da quanto “finora raccolto dalle indagini”. Ritornando all’udienza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sul finire Carmine Schiavone mette fuori un carico pesantissimo e svela: “Chiesi a Don Peppino Diana (il parroco ucciso il 19 marzo del 1994 in sacrestia per il suo impegno anticamorra) di sostenere Nicola Cosentino come candidato alle provinciali: era il 1991. Il prete portava molti voti, era seguito”, dice Schiavone e aggiunge: “Cosentino mi chiese di coinvolgere il prete”. Un racconto che mostra come Cosentino si muovesse a 360 gradi sul territorio per rastrellare consensi. L’aver chiesto un aiuto non significa che don Peppe diede sostegno elettorale a Nick ‘o mericano.
Lo stesso Schiavone – infatti – chiarisce: “C’era un tessuto di rapporti di parentela tra la famiglia di don Peppino e noi Schiavone. E comunque lui, don Peppino, era molto critico, parlava sempre contro i camorristi : tanto che io gli dicevo di stare attento, e in qualche modo gli garantivo una protezione. Finché io non mi sono allontanato, lui era protetto”.
di Arnaldo Capezzuto
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