giovedì, marzo 28, 2013
La drammatica vicenda di Cipro ripropone un problema irrisolto delle nostre istituzioni bancarie. Perché la finanza torni a servire l’economia serve un passo elementare: chi vuole gestire quattrini altrui cominci a metterci i propri.

Città Nuova - Oggi che la principale occupazione delle banche è convincere le famigliole a depositare presso di loro i propri risparmi è difficile capire perché i Monti di Pietà e le Casse di Risparmio siano state una grande innovazione. Tradizionalmente l’attività bancaria non era roba per loro. Era un affare tra i nuovi mercanti, bisognosi di finanziare l’acquisto di partite di merce da andare in giro a rivendere avventurosamente, e quelli che i soldi li avevano fatti già, con il commercio o con l’usura, e ora sedevano dietro il “banco” e guadagnavano prestandoli.

Le banche fallivano spesso (di quelle nate negli Usa tra il 1810 e il 1820 nel 1825 quasi la metà aveva già chiuso i battenti), ma a rimetterci erano prima di tutto gli azionisti, a cui apparteneva la gran parte dei soldi dati in prestito. Da quella volta molte cose sono cambiate e le banche sono diventate parte integrante della vita anche di lavoratori dipendenti e di pensionati. La gran parte delle nostre entrate e delle nostre spese passa per di là, sotto forma di accreditamenti, bonifici, prelievi, assegni, strisciate di carte di credito o codici Pin di bancomat.

Con i soldi degli altri Solo una piccola parte dei soldi che le banche danno a prestito viene dalle tasche dei loro proprietari, gli azionisti, chiaramente i più adatti ad accollarsi gli inevitabili rischi dell’attività creditizia; la grandissima parte invece è denaro che gli istituti si fanno a loro volta prestare, solo un po’ sotto forma di obbligazioni, e quindi da prestatori consapevoli che qualche rischio se lo stanno prendendo, e per tutto il resto da gente come noi che quando deposita i soldi non ha la minima consapevolezza di essere coinvolta in un’intermediazione rischiosa.

Perchè le banche non possono fallire Bastano queste due considerazioni per capire che la società non può più permettersi che le banche vadano gambe all’aria, anche quando chi le ha gestite se lo meriterebbe: salterebbe tutto il sistema dei pagamenti e a pagare sarebbero anche i più ignari risparmiatori. Per questo in molti paesi, tra cui quelli dell’Unione Europea, è in vigore un meccanismo pubblico di assicurazione dei depositi fino a 100 mila euro, ma poi va a finire che gli Stati sono chiamati ad intervenire onerosamente anche al di là di quello, come è successo ad esempio per il salvataggio della banca franco-belga Dexia. Purtroppo quello di Cipro non è che l’ultimo caso di una sciagurata sequenza di episodi, e per certi versi neanche il più spudorato.

La novità preoccupante del caso cipriota è che stavolta non abbiamo visto i supermanager distribuirsi astronomici superbonus fino a poco prima di dover chiedere a qualcun altro di accollarsi le perdite, come è avvenuto a Wall Street nel 2008. Non si possono neanche accusare i banchieri ciprioti di aver fatto scelte azzardate (stavolta niente “titoli tossici” o “mutui subprime”, come negli USA). Il problema è stato aver prestato allo stato greco, una cosa che in passato sarebbe stata definita “prudente”, ma che negli ultimi tempi era diventata una scommessa: i tassi diventavano altissimi perché il rischio di mancato rimborso cresceva. Alla fine, come sappiamo, metà dei crediti concessi alla Grecia sono andati in fumo ed è questo che ha destabilizzato le banche cipriote. Ad aggravare i problemi c’è il fatto che queste ultime sono cresciute in modo smisurato rispetto alla dimensione economica dell’isola, perché Cipro era diventata una specie di piattaforma parcheggiata in mezzo al Mediterraneo fuori da troppo stretti controlli, a cui approdavano capitali di dubbia provenienza, in buona parte russi.

I conti dei contribuenti Di conseguenza, come era già successo in Islanda, salvare banche così grandi era un’impresa fuori portata per il piccolo stato cipriota. Quindi a pagare doveva essere qualcun altro. Ma chi? La solita trojka (Banca Centrale Europea, Commissione Europea e Fondo monetario internazionale) si è dichiarata disposta a coprire il grosso, ma a patto che qualche miliardo se lo sobbarcassero in loco. In mancanza di buone alternative, la scure è caduta sui depositanti, anche con la giustificazione che negli ultimi anni hanno goduto di tassi di interesse particolarmente alti. Oltre al fatto che in questi casi, a fianco dei marpioni, ci vanno sempre di mezzo tanti innocenti, il grande timore è che chi ha depositato nelle banche spagnole, portoghesi o magari italiane cominci a temere che anche lì prima o poi possa succedere qualcosa di simile, e sarebbe un guaio.

Economia di carta o reale? Di fronte al corpo ferito della società cipriota, la considerazione che non si può non fare, ancora una volta, è che finché le banche continueranno a rischiare oltre misura i soldi degli altri, e le autorità di controllo continueranno a lasciarglielo fare, di episodi del genere continueremo ad averne, diversi tra loro solo in apparenza. Sento spesso condannare la cosiddetta "economia di carta" o la "creazione di ricchezza virtuale", ma temo che queste espressioni alla fine confondano le idee. Più semplicemente, perché la finanza torni a servire l’economia, come dovrebbe essere suo compito, c’è un primo passo da fare, molto elementare: chi vuole gestire quattrini altrui cominci a metterci i propri, e tanti.

Benedetto Gui

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