Il Kenya ha saputo cogliere il suo appuntamento con la storia: le elezioni generali considerate un test cruciale per la democrazia e la stabilità interna del paese si sono svolte pacificamente e gli osservatori hanno certificato la correttezza e trasparenza delle procedure di voto.
Misna - Nonostante i ritardi nello spoglio aggravati da un black-out tecnico, gli elettori hanno atteso con calma e compostezza i dati definitivi. La vittoria di Uhuru Kenyatta al primo turno con una risicata maggioranza del 50.3% delle preferenze ha quindi aperto un nuovo capitolo della vita politica del paese, altrettanto densa di sfide e incognite. La MISNA ne ha parlato con Omweri Angima, analista del Centro per la democrazia multipartitica di Nairobi.
Cosa è cambiato in Kenya rispetto a cinque anni fa, quando le elezioni sfociarono in disordini e violenze costate la vita a 1300 persone?
Intanto la campagna elettorale è stata condotta con criterio e buon senso dalla maggior parte dei politici. Il monitoraggio è stato costante e le poche ‘mele marce’ sono state subito isolate. Si è parlato di programmi e contenuti, senza sobillare le persone l’una contro l’altra sulla base di linee etniche e di appartenenza tribale. Inoltre – cosa fondamentale – è stato messo in piedi un meccanismo elettorale e giudiziario credibile: la Commissione, a differenza di quella del 2007, è stata composta con metodo ed equità e gli organismi giudiziari incaricati di valutare esposti e verificare accuse di brogli erano davvero indipendenti. La gente sapeva che poteva fidarsi e che, se qualcuno avesse provato a manipolare voto, sarebbero intervenute per garantire i diritti dei cittadini.
Cosa ha giocato in favore di Uhuru Kenayatta, eletto contro ogni pronostico già al primo turno?
Sicuramente l’appartenenza etnica, come sempre accade, ha avuto un ruolo preponderante. Kenyatta e il suo alleato William Ruto rappresentano le due comunità più diffuse e potenti del paese, il kikuyu e i kalenjin. Gli elettori di questi due grandi segmenti di popolazione si sono attivati per non perdere i privilegi e le posizioni dominanti che ricoprono attualmente in Kenya. Lo stesso Kenyatta è un ricco proprietario terriero, la sua è una delle famiglie più potenti del paese. La posta in gioco era alta.
Quali sono le sfide che il nuovo presidente si troverà ad affrontare?
Qui li chiamano ‘i grandi quattro’ per indicare i quattro temi considerati all’ordine del giorno. Si tratta della disoccupazione giovanile, salita a tassi altissimi e che provoca grande frustrazione nelle generazioni di giovani keniani. Poi c’è la povertà, che riguarda il 60% della popolazione, costretta a vivere con meno di due dollari al giorno. Quindi l’eterna questione della riforma agraria, causa di dispute e di moltissimi dei problemi del paese, non ultimo quello delle violenze tra comunità pastorali. E infine l’integrazione nazionale: bisogna far capire ai cittadini che sono tutti parte di uno stesso sistema e che prima di essere kikuyu, luo o kalenjin sono innanzitutto keniani.
I futuri sviluppi del processo a Kenyatta, da parte della dalla Corte penale internazionale (Cpi) potrebbero comportare un isolamento internazionale del Kenya. Questo non ha pesato sul voto?
Kenyatta ha saputo gestire bene la questione durante la campagna e nei dibattiti televisivi. Al punto che sembrava questa l’unica accusa che i suoi avversari riuscivano a muovergli. Ha promesso che nulla gli impedirà di governare con autorevolezza il paese e la gente gli ha creduto. Le pressioni esterne, di paesi che non volevano la sua elezione sulla base delle accuse che gli vengono mosse dalla Cpi, sono state percepite come delle interferenze inaccettabili. Hanno avuto un effetto ‘boomerang’ che gli ha garantito anche i voti degli indecisi.
Misna - Nonostante i ritardi nello spoglio aggravati da un black-out tecnico, gli elettori hanno atteso con calma e compostezza i dati definitivi. La vittoria di Uhuru Kenyatta al primo turno con una risicata maggioranza del 50.3% delle preferenze ha quindi aperto un nuovo capitolo della vita politica del paese, altrettanto densa di sfide e incognite. La MISNA ne ha parlato con Omweri Angima, analista del Centro per la democrazia multipartitica di Nairobi.
Cosa è cambiato in Kenya rispetto a cinque anni fa, quando le elezioni sfociarono in disordini e violenze costate la vita a 1300 persone?
Intanto la campagna elettorale è stata condotta con criterio e buon senso dalla maggior parte dei politici. Il monitoraggio è stato costante e le poche ‘mele marce’ sono state subito isolate. Si è parlato di programmi e contenuti, senza sobillare le persone l’una contro l’altra sulla base di linee etniche e di appartenenza tribale. Inoltre – cosa fondamentale – è stato messo in piedi un meccanismo elettorale e giudiziario credibile: la Commissione, a differenza di quella del 2007, è stata composta con metodo ed equità e gli organismi giudiziari incaricati di valutare esposti e verificare accuse di brogli erano davvero indipendenti. La gente sapeva che poteva fidarsi e che, se qualcuno avesse provato a manipolare voto, sarebbero intervenute per garantire i diritti dei cittadini.
Cosa ha giocato in favore di Uhuru Kenayatta, eletto contro ogni pronostico già al primo turno?
Sicuramente l’appartenenza etnica, come sempre accade, ha avuto un ruolo preponderante. Kenyatta e il suo alleato William Ruto rappresentano le due comunità più diffuse e potenti del paese, il kikuyu e i kalenjin. Gli elettori di questi due grandi segmenti di popolazione si sono attivati per non perdere i privilegi e le posizioni dominanti che ricoprono attualmente in Kenya. Lo stesso Kenyatta è un ricco proprietario terriero, la sua è una delle famiglie più potenti del paese. La posta in gioco era alta.
Quali sono le sfide che il nuovo presidente si troverà ad affrontare?
Qui li chiamano ‘i grandi quattro’ per indicare i quattro temi considerati all’ordine del giorno. Si tratta della disoccupazione giovanile, salita a tassi altissimi e che provoca grande frustrazione nelle generazioni di giovani keniani. Poi c’è la povertà, che riguarda il 60% della popolazione, costretta a vivere con meno di due dollari al giorno. Quindi l’eterna questione della riforma agraria, causa di dispute e di moltissimi dei problemi del paese, non ultimo quello delle violenze tra comunità pastorali. E infine l’integrazione nazionale: bisogna far capire ai cittadini che sono tutti parte di uno stesso sistema e che prima di essere kikuyu, luo o kalenjin sono innanzitutto keniani.
I futuri sviluppi del processo a Kenyatta, da parte della dalla Corte penale internazionale (Cpi) potrebbero comportare un isolamento internazionale del Kenya. Questo non ha pesato sul voto?
Kenyatta ha saputo gestire bene la questione durante la campagna e nei dibattiti televisivi. Al punto che sembrava questa l’unica accusa che i suoi avversari riuscivano a muovergli. Ha promesso che nulla gli impedirà di governare con autorevolezza il paese e la gente gli ha creduto. Le pressioni esterne, di paesi che non volevano la sua elezione sulla base delle accuse che gli vengono mosse dalla Cpi, sono state percepite come delle interferenze inaccettabili. Hanno avuto un effetto ‘boomerang’ che gli ha garantito anche i voti degli indecisi.
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