venerdì, marzo 01, 2013
Ha partorito di nascosto in casa, nell'abitazione della sorella, e poi ha condannato a morte il suo neonato chiudendolo in un sacchetto di plastica e vagando per ore prima di gettarlo in un cassonetto dell’Ospedale San Camillo.

Radio Vaticana - Questa volta è Roma il teatro dell’allucinante ripetizione di un gesto che vanta ormai troppi precedenti. La sua autrice, una donna romana 25.enne, è stata arrestata dalla polizia con l’accusa di infanticidio. Al microfono di Federico Piana, il presidente del Movimento per la vita, Carlo Casini, ribadisce che una mamma che non voglia tenere il figlio ha la facoltà di affidarlo anonimamente, senza essere perseguita dalla legge: ascolta

R. – La sensazione è quella di un dolore, di un dolore grande per il bambino morto, ma anche per la mamma, però. Per il bambino, che poteva essere salvato facilmente: oggi, c’è una legge che consente di lasciare in anonimato un bambino in ospedale, senza rischi per la mamma per la salvezza del bambino. Ci sono anche quelle che noi chiamiamo “culle per la vita”: anche a Roma ci sono. Ora, questa mamma si trova incriminata e mi fa pena anche lei: chissà che anche questa povera donna si sia trovata nella condizione di non sapere quello che stava facendo… Però, anche lì, è arrivata al parto, come? E’ certamente una donna che si è sentita sola, che avrà tenuto nascosta la gravidanza, che non ne ha parlato con nessuno…


D. – A questo proposito, dove sono la famiglia, le persone che le vogliono bene? Nessuno si accorge? Nessuno vede?

R. – Io so che anche per l’aborto è la stessa storia: il comune denominatore è la solitudine. Se si riesce a rompere la solitudine, i problemi si risolvono. Ci sono possibilità alternative. La società, attraverso queste “culle della vita”, dimostra che i bambini non si devono buttare via. E se una mamma non ce la fa, la società apre le braccia. Ci sono famiglie pronte ad accogliere.

D. – Secondo lei, però, non servirebbe qualcosa di più, oltre alla legge? Perché la legge anche se c’è sembra non funzionare: i casi sono tanti, non è la sola donna che ha compiuto questo gesto così drammatico…

R. – Sì, in questi ultimi anni ce ne sono stati tanti, questo è l’ultimo anello della catena. Quando si dice che i bambini non contano nulla, che sono grumi di cellule e sono considerati solo “in potenza” – quando ti insegnano perfino all’Università che si può compiere l’aborto post-natale – allora qui c’è tutta una cultura da ricostruire. Si capisce che c’è un problema educativo di grandissimo respiro.

D. – Cosa spinge, secondo lei, una mamma che porta a termine una gravidanza, a uccidere il proprio figlio? C’è anche un aspetto psicologico?

R. – E’ conosciuta la “crisi post-partum”: lo stesso Comitato nazionale di bioetica si è occupato di questo. C’è un lungo ed elaborato parere che riguarda proprio la sindrome post-partum, in cui effettivamente per un periodo di tempo breve ci può essere una crisi depressiva nella donna, nella madre, anche quando la gravidanza l’abbia voluta, ma che si trovi improvvisamente di fronte a questa novità assoluta che la sconvolge. Questo è il caso in cui la società si deve fare accanto, deve stare in piedi, deve dire: “Non ti lasciamo sola, non sarai sola”. La funzione soprattutto degli organismi di volontariato specializzati e di strutture pubbliche, che siano in modo trasparente, limpido, univoco a servizio della vita e della maternità.


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