Per la prima volta il presidente serbo, Tomislav Nikolić, ha chiesto perdono in un’intervista televisiva per i crimini commessi nell’enclave musulmana di Srebrenica.
Radio Vaticana - Era l’11 luglio 1995 quando l’esercito serbo-bosniaco del generale Mladic rastrellò la città e massacrò oltre 8 mila persone. Il massacro avvenne nonostante la presenza delle truppe olandesi dell’Onu, che non intervennero. Che cosa ha rappresentato, nell’orrore della guerra in ex Jugoslavia, il genocidio di Srebrenica? Giancarlo La Vella lo ha chiesto a Fulvio Scaglione, vicedirettore di Famiglia Cristiana: ascolta
R. - La strage di Srebrenica fu certamente il punto più vile di tutta la guerra nell’ex-Jugoslavia, che già fu un periodo segnato da atrocità di ogni tipo, e probabilmente anche il punto più basso che sia stato toccato in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Quel giorno - l’11 luglio 1995 - gli uomini del generale serbo Ratko Mladic rastrellarono e uccisero a sangue freddo più di 8 mila uomini e ragazzi bosniaci che vivevano in una enclave protetta - almeno teoricamente - dalle truppe Onu e in particolare dal contingente olandese: il quale, però, di fronte agli uomini di Mladic, praticamente si ritirò e se ne lavò le mani, accampando come scusa gli ordini ricevuti e le direttive Onu. Il paradosso tremendo di questa cosa è che il contingente olandese fu premiato dal suo governo con la medaglia al valore, anche se poi i successivi governi olandesi fecero autocritica e una retromarcia su questo.
D. - Qual è il significato del gesto del presidente Nikolić?
R. - Il gesto di Nikolić, secondo me, è importante e, per dire la verità, si è anche fatto attendere a lungo. Va inscritto - e con questo credo di non diminuire la portata della decisione di Nikolić - anche nel desiderio della Serbia attuale di inserirsi di più nel circuito europeo e di superare un passato tremendo, diventando, appunto, un Paese europeo a tutti i livelli, compreso quello economico che per la Serbia, in perenne crisi, è molto importante.
D. - Sarà possibile far rimarginare le ferite che la guerra in ex-Jugoslavia necessariamente si porta dietro anche oggi?
R. - Questo sarà un processo di lunga, se non di lunghissima durata. Diciamo che questo è un periodo in cui i segnali positivi sembrano - speriamo e incrociamo le dita - infittirsi. Mi viene alla mente soprattutto anche l’accordo di pochi giorni fa che la stessa Serbia ha siglato con il Kosovo: anche qui - non dimentichiamolo - ci sono rancori infiniti e una questione sospesa, che è quella dell’enclave serba nel Kosovo, che deve essere regolata e che per tutti questi anni è stato motivo di dissidio, di polemica e di confronto costante.
Radio Vaticana - Era l’11 luglio 1995 quando l’esercito serbo-bosniaco del generale Mladic rastrellò la città e massacrò oltre 8 mila persone. Il massacro avvenne nonostante la presenza delle truppe olandesi dell’Onu, che non intervennero. Che cosa ha rappresentato, nell’orrore della guerra in ex Jugoslavia, il genocidio di Srebrenica? Giancarlo La Vella lo ha chiesto a Fulvio Scaglione, vicedirettore di Famiglia Cristiana: ascolta
R. - La strage di Srebrenica fu certamente il punto più vile di tutta la guerra nell’ex-Jugoslavia, che già fu un periodo segnato da atrocità di ogni tipo, e probabilmente anche il punto più basso che sia stato toccato in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Quel giorno - l’11 luglio 1995 - gli uomini del generale serbo Ratko Mladic rastrellarono e uccisero a sangue freddo più di 8 mila uomini e ragazzi bosniaci che vivevano in una enclave protetta - almeno teoricamente - dalle truppe Onu e in particolare dal contingente olandese: il quale, però, di fronte agli uomini di Mladic, praticamente si ritirò e se ne lavò le mani, accampando come scusa gli ordini ricevuti e le direttive Onu. Il paradosso tremendo di questa cosa è che il contingente olandese fu premiato dal suo governo con la medaglia al valore, anche se poi i successivi governi olandesi fecero autocritica e una retromarcia su questo.
D. - Qual è il significato del gesto del presidente Nikolić?
R. - Il gesto di Nikolić, secondo me, è importante e, per dire la verità, si è anche fatto attendere a lungo. Va inscritto - e con questo credo di non diminuire la portata della decisione di Nikolić - anche nel desiderio della Serbia attuale di inserirsi di più nel circuito europeo e di superare un passato tremendo, diventando, appunto, un Paese europeo a tutti i livelli, compreso quello economico che per la Serbia, in perenne crisi, è molto importante.
D. - Sarà possibile far rimarginare le ferite che la guerra in ex-Jugoslavia necessariamente si porta dietro anche oggi?
R. - Questo sarà un processo di lunga, se non di lunghissima durata. Diciamo che questo è un periodo in cui i segnali positivi sembrano - speriamo e incrociamo le dita - infittirsi. Mi viene alla mente soprattutto anche l’accordo di pochi giorni fa che la stessa Serbia ha siglato con il Kosovo: anche qui - non dimentichiamolo - ci sono rancori infiniti e una questione sospesa, che è quella dell’enclave serba nel Kosovo, che deve essere regolata e che per tutti questi anni è stato motivo di dissidio, di polemica e di confronto costante.
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