Il vescovo di Roma si è insediato a san Giovanni in Laterano
“Per me sentirsi peccatori è una delle cose più belle che possano capitare”, spiegava anni fa l’arcivescovo di Buenos Aires incalzato da due amici giornalisti. Chi dovesse chiedersi oggi perché l’assiduo ricorrere di peccato, misericordia, perdono nelle parole di papa Francesco, potrebbe leggere con molto frutto quelle pagine, divenute un best seller anche in Italia (Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo Papa si racconta – Conversazione con Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, ed. Salani 2013) con ’imprevedibile arrivo a Roma di un papa argentino. Che di tutti i titoli che gli competono, ama utilizzarne uno soprattutto.
“Voi sapete che il dovere del conclave era di dare un Vescovo a Roma”, disse presentandosi al mondo il 13 marzo sera. Ci sarebbero pure “Vicario di Gesù Cristo”, “Successore del Principe degli apostoli”, “Sommo Pontefice della Chiesa universale”, “Primate d’Italia”, “Arcivescovo e Metropolita della Provincia romana”, “Sovrano dello Stato della Città del Vaticano”, per finire col più umile “Servo dei servi di Dio”. Così riporta quell’enciclopedico “chi è chi” della Chiesa cattolica del mondo intero, le 2000 e rotti pagine dell’Annuario pontificio, dove fino al 2006 questa pletora di altisonanti qualifiche era arricchita ancora da “Patriarca di Occidente”, cassato perché a detta del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani era divenuto “privo di senso insistere a trascinarselo dietro”.
E neppure con san Giovanni in Laterano si scherza. Molti, è probabile, la conoscono come piazza dei concerti, dei comizi e degli scioperi, nessuno come “Sacrosanta Cattedrale Papale Arcibasilica Romana Maggiore del Santissimo Salvatore e dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista al Laterano, madre e capo di tutte le chiese della Città e del mondo”. Ecco perché, trovandosi lì la sua cattedra di vescovo, appunto, della città eterna, simbolo della potestà episcopale di insegnamento del vescovo di qualsiasi diocesi, ogni nuovo Papa è tenuto ad andare là ad “insediarsi”.
A preoccuparsene è nientemeno che il testo più letto e citato delle scorse settimane in Vaticano e dintorni, l’ormai famosa costituzione “Universi dominici gregis” che regola ogni infimo dettaglio di sede vacante e conclave, specificando al novantaduesimo ed ultimo articolo che ogni nuovo Papa “entro un tempo conveniente, prenderà possesso della Patriarcale Arcibasilica Lateranense”. La posizione finale, come fosse una posticcia appendice, non inganni. Insediarsi sulla cattedra romana è come appropriarsi delle radici da cui il ministero petrino succhia la linfa vitale delle sue prerogative. Il Papa, per farla breve, è tale perché pastore della città eterna, per storia, tradizione, ecclesiologia cattolica. E papa Bergoglio, si direbbe fino ad oggi, si sente e vuole essere anzitutto pastore, di Roma oggi come di Buenos Aires lo era ieri.
Non è scontato né ovvio, a ben vedere, che predicando oggi nelle solenni vesti di Pontefice, faccia ricorso a titolo di esempio ad esperienze del passato. “Quante volte nel mio ministero pastorale mi son sentito ripetere: ‘Padre, ho molti peccati’; e l’invito che ho sempre fatto è ‘Non temere, va’ da Lui, ti sta aspettando, Lui farà tutto’”, ha raccontato ieri proprio dalla cattedra su cui si era appena seduto la prima volta. In una così solenne occasione, avrebbe potuto dedicare l’omelia a significati e richiami storici di un simbolo di onori e poteri molto più materiali che spirituali, in passato. Tanto che, per dirne una, è viva ancora, nell’immaginario storico del popolino romano, la memoria delle maestose processioni a cavallo con cui i papi del passato arrivavano in Laterano.
Francesco invece si è servito della consueta automobile, senza formalismi alcuni, e si è fermato come primo atto a scoprire la targa che da ieri intitola piazza san Giovanni al beato Giovanni Paolo II. Coincidenza non casuale, dato che ieri ricorreva pure la festa della divina Misericordia, istituita dal predecessore 13 anni fa. E proprio di misericordia, ancora, cogliendo la palla al balzo, ha parlato dall’inizio alla fine. “Com’è bella questa realtà della fede per la nostra vita: la misericordia di Dio!”. Quella che Gesù ha avuto per l’incredulo Tommaso, nel Vangelo di ieri, la pazienza con cui “Gesù non abbandona il testardo Tommaso nella sua incredulità; gli dona una settimana di tempo, non chiude la porta, attende”.
Oppure Pietro, che rinnega tre volte Gesù e ne incrocia subito dopo lo sguardo, e piange. “Quanta tenerezza! Fratelli e sorelle, non perdiamo mai la fiducia nella misericordia paziente di Dio!”, non fa che ripetere il Papa da quando è stato eletto, lo stesso messaggio che un’umile suora polacca lasciò all’alba dell’immane catastrofe della seconda guerra mondiale. “L'umanità non troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla divina misericordia", è scritto nel diario della mistica Faustina Kowalska, le parole che Gesù le rivolgeva apparendole, a Lagiewniki, presso Cracovia.
Papa Wojtyla apprese la devozione alla divina misericordia fin da giovane, da operaio seminarista clandestino che nei duri anni dell’occupazione nazista passava ogni giorno a Lagiewniki per andare al lavoro e si fermava a pregare nel monastero dove suor Faustina era morta, pochi anni prima, in odore di santità. Fu lui, da giovane vescovo di Cracovia, ad avviarne la causa di beatificazione, poi a canonizzarla, il 30 aprile 2000, nella cosiddetta “Domenica in albis” che chiude l’ottava di Pasqua, perché tutti i catecumeni battezzati la notte di Pasqua vestivano di bianco (“albus”) un’intera settimana, in segn
o di festa.
“Felice colpa”, vale a dire il peccato di Adamo ed Eva con cui ha inizio la storia biblica della salvezza, suona appunto in quella notte il solenne canto dell’Exultet. Paradossale, come affermazione, potrebbe pure sembrare un po’. Ma il paradosso, si sa, la contraddizione inattesa che suscitando stupore dischiude orizzonti nuovi, è l’essenza della fede. Anche i discepoli di Emmaus, come Tommaso, si sentivano abbandonati da Gesù, che apparve loro affiancandoli lungo il cammino, per spiegare le scritture e condividere il pane della mensa. “Questo”, nella spiegazione offerta ieri dal Papa, “è lo stile di Dio: non è impaziente come noi, che spesso vogliamo tutto e subito, anche con le persone. Dio è paziente con noi perché ci ama, e chi ama comprende, spera, dà fiducia, non abbandona, non taglia i ponti, sa perdonare. Ricordiamolo nella nostra vita di cristiani: Dio ci aspetta sempre, anche quando ci siamo allontanati!”. Basta solo avere il coraggio di tornare, ma questo tocca a noi. e questo spetta a noi. “Forse qualcuno potrebbe pensare: il mio peccato è così grande… Ma Dio aspetta proprio te”.
A neppure un mese dall’elezione di Francesco, prudenza vuole che si parli di “impressioni”, più che “idee” o “opinioni”‘ suscitate dal suo magistero e dal personale stile con cui interpreta l’augusto ruolo di Papa. Ma una almeno è cosi vivida da spiccare su tutte: il richiamo costante alla misericordia di Dio, evocata ad ogni occasione buona con l’invito a non disperarne mai, ha dolcemente toccato il cuore di molti, e l’affetto e la simpatia popolari che il Papa si è subito conquistato potrebbero esserne la gioiosa e spontanea prova. Non a caso, del resto, sociologi, psicologi, osservatori vari di fenomeni sociali e culturali vanno ripetendo da tempo che il mondo sembra aver perso il senso del peccato, e tuttavia la gente vive sempre più afflitta da tormentosi sensi di colpa. Così ragionavano pure i giornalisti di cui sopra, con la domanda da cui siamo partiti rivolta al cardinale, allora, Bergoglio. Ma è così, rispondeva appunto lui, che si scopre la grandezza della vita, “quando prendiamo coscienza che siamo peccatori e siamo salvati da Gesù”.
“Per me sentirsi peccatori è una delle cose più belle che possano capitare”, spiegava anni fa l’arcivescovo di Buenos Aires incalzato da due amici giornalisti. Chi dovesse chiedersi oggi perché l’assiduo ricorrere di peccato, misericordia, perdono nelle parole di papa Francesco, potrebbe leggere con molto frutto quelle pagine, divenute un best seller anche in Italia (Jorge Mario Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo Papa si racconta – Conversazione con Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, ed. Salani 2013) con ’imprevedibile arrivo a Roma di un papa argentino. Che di tutti i titoli che gli competono, ama utilizzarne uno soprattutto.
“Voi sapete che il dovere del conclave era di dare un Vescovo a Roma”, disse presentandosi al mondo il 13 marzo sera. Ci sarebbero pure “Vicario di Gesù Cristo”, “Successore del Principe degli apostoli”, “Sommo Pontefice della Chiesa universale”, “Primate d’Italia”, “Arcivescovo e Metropolita della Provincia romana”, “Sovrano dello Stato della Città del Vaticano”, per finire col più umile “Servo dei servi di Dio”. Così riporta quell’enciclopedico “chi è chi” della Chiesa cattolica del mondo intero, le 2000 e rotti pagine dell’Annuario pontificio, dove fino al 2006 questa pletora di altisonanti qualifiche era arricchita ancora da “Patriarca di Occidente”, cassato perché a detta del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani era divenuto “privo di senso insistere a trascinarselo dietro”.
E neppure con san Giovanni in Laterano si scherza. Molti, è probabile, la conoscono come piazza dei concerti, dei comizi e degli scioperi, nessuno come “Sacrosanta Cattedrale Papale Arcibasilica Romana Maggiore del Santissimo Salvatore e dei Santi Giovanni Battista ed Evangelista al Laterano, madre e capo di tutte le chiese della Città e del mondo”. Ecco perché, trovandosi lì la sua cattedra di vescovo, appunto, della città eterna, simbolo della potestà episcopale di insegnamento del vescovo di qualsiasi diocesi, ogni nuovo Papa è tenuto ad andare là ad “insediarsi”.
A preoccuparsene è nientemeno che il testo più letto e citato delle scorse settimane in Vaticano e dintorni, l’ormai famosa costituzione “Universi dominici gregis” che regola ogni infimo dettaglio di sede vacante e conclave, specificando al novantaduesimo ed ultimo articolo che ogni nuovo Papa “entro un tempo conveniente, prenderà possesso della Patriarcale Arcibasilica Lateranense”. La posizione finale, come fosse una posticcia appendice, non inganni. Insediarsi sulla cattedra romana è come appropriarsi delle radici da cui il ministero petrino succhia la linfa vitale delle sue prerogative. Il Papa, per farla breve, è tale perché pastore della città eterna, per storia, tradizione, ecclesiologia cattolica. E papa Bergoglio, si direbbe fino ad oggi, si sente e vuole essere anzitutto pastore, di Roma oggi come di Buenos Aires lo era ieri.
Non è scontato né ovvio, a ben vedere, che predicando oggi nelle solenni vesti di Pontefice, faccia ricorso a titolo di esempio ad esperienze del passato. “Quante volte nel mio ministero pastorale mi son sentito ripetere: ‘Padre, ho molti peccati’; e l’invito che ho sempre fatto è ‘Non temere, va’ da Lui, ti sta aspettando, Lui farà tutto’”, ha raccontato ieri proprio dalla cattedra su cui si era appena seduto la prima volta. In una così solenne occasione, avrebbe potuto dedicare l’omelia a significati e richiami storici di un simbolo di onori e poteri molto più materiali che spirituali, in passato. Tanto che, per dirne una, è viva ancora, nell’immaginario storico del popolino romano, la memoria delle maestose processioni a cavallo con cui i papi del passato arrivavano in Laterano.
Francesco invece si è servito della consueta automobile, senza formalismi alcuni, e si è fermato come primo atto a scoprire la targa che da ieri intitola piazza san Giovanni al beato Giovanni Paolo II. Coincidenza non casuale, dato che ieri ricorreva pure la festa della divina Misericordia, istituita dal predecessore 13 anni fa. E proprio di misericordia, ancora, cogliendo la palla al balzo, ha parlato dall’inizio alla fine. “Com’è bella questa realtà della fede per la nostra vita: la misericordia di Dio!”. Quella che Gesù ha avuto per l’incredulo Tommaso, nel Vangelo di ieri, la pazienza con cui “Gesù non abbandona il testardo Tommaso nella sua incredulità; gli dona una settimana di tempo, non chiude la porta, attende”.
Oppure Pietro, che rinnega tre volte Gesù e ne incrocia subito dopo lo sguardo, e piange. “Quanta tenerezza! Fratelli e sorelle, non perdiamo mai la fiducia nella misericordia paziente di Dio!”, non fa che ripetere il Papa da quando è stato eletto, lo stesso messaggio che un’umile suora polacca lasciò all’alba dell’immane catastrofe della seconda guerra mondiale. “L'umanità non troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla divina misericordia", è scritto nel diario della mistica Faustina Kowalska, le parole che Gesù le rivolgeva apparendole, a Lagiewniki, presso Cracovia.
o di festa.
“Felice colpa”, vale a dire il peccato di Adamo ed Eva con cui ha inizio la storia biblica della salvezza, suona appunto in quella notte il solenne canto dell’Exultet. Paradossale, come affermazione, potrebbe pure sembrare un po’. Ma il paradosso, si sa, la contraddizione inattesa che suscitando stupore dischiude orizzonti nuovi, è l’essenza della fede. Anche i discepoli di Emmaus, come Tommaso, si sentivano abbandonati da Gesù, che apparve loro affiancandoli lungo il cammino, per spiegare le scritture e condividere il pane della mensa. “Questo”, nella spiegazione offerta ieri dal Papa, “è lo stile di Dio: non è impaziente come noi, che spesso vogliamo tutto e subito, anche con le persone. Dio è paziente con noi perché ci ama, e chi ama comprende, spera, dà fiducia, non abbandona, non taglia i ponti, sa perdonare. Ricordiamolo nella nostra vita di cristiani: Dio ci aspetta sempre, anche quando ci siamo allontanati!”. Basta solo avere il coraggio di tornare, ma questo tocca a noi. e questo spetta a noi. “Forse qualcuno potrebbe pensare: il mio peccato è così grande… Ma Dio aspetta proprio te”.
A neppure un mese dall’elezione di Francesco, prudenza vuole che si parli di “impressioni”, più che “idee” o “opinioni”‘ suscitate dal suo magistero e dal personale stile con cui interpreta l’augusto ruolo di Papa. Ma una almeno è cosi vivida da spiccare su tutte: il richiamo costante alla misericordia di Dio, evocata ad ogni occasione buona con l’invito a non disperarne mai, ha dolcemente toccato il cuore di molti, e l’affetto e la simpatia popolari che il Papa si è subito conquistato potrebbero esserne la gioiosa e spontanea prova. Non a caso, del resto, sociologi, psicologi, osservatori vari di fenomeni sociali e culturali vanno ripetendo da tempo che il mondo sembra aver perso il senso del peccato, e tuttavia la gente vive sempre più afflitta da tormentosi sensi di colpa. Così ragionavano pure i giornalisti di cui sopra, con la domanda da cui siamo partiti rivolta al cardinale, allora, Bergoglio. Ma è così, rispondeva appunto lui, che si scopre la grandezza della vita, “quando prendiamo coscienza che siamo peccatori e siamo salvati da Gesù”.
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