Una piccola casa a un piano circondata da piante e fiori, un campo sportivo. «Benvenuto nel Centro don Puglisi».
Liberainformazione - Così ci accoglie suor Carolina Iavazzo, concentrato esplosivo di allegria ed energia, la più stretta collaboratrice del parroco di Brancaccio ucciso da “cosa nostra” il 15 settembre 1993 e che domani sarà beatificato a Palermo, “martire della fede”. Qui tutto parla di don Pino, tante immagini e le sue frasi, a partire dal motto: «E se ognuno fa qualcosa…». Ma non siamo a Palermo. Questa è Calabria, Bosco Sant’Ippolito, tra Bovalino e San Luca, terra d’Aspromonte. Terra di ’ndrangheta. Attorno a noi tanti bambini studiano e giocano. «Ci sono anche i figli delle famiglie della faida di San Luca», ci spiega suor Carolina. Quella che ha provocato decine di morti, quella della strage di Duisburg. «Li hanno portati proprio le famiglie. All’inizio è stata dura, non si sedevano vicino, non giocavano insieme. Ora non li riconosci più, giocano e studiano fianco a fianco». Un piccolo grande miracolo. «È padre Puglisi che ci aiuta…..», sorride suor Carolina. Nata ad Aversa, ha lavorato in Campania, Sicilia e Calabria. «Sempre in zone “belle” dove hai la vera dimensione dell’uomo che soffre». Con don Pino dal 1991 al ’93, «l’anno più tremendo della mia vita». E ora qui, «una realtà che mi ha sfidato e fortificato». Non solo bambini. «Più tardi devo andare in una famiglia per il Rosario».
Cosa sarà per lei il giorno della beatificazione?
Di grande gioia, come quando si squarcia il cielo dopo una tempesta e vedi l’azzurro. Su padre Puglisi si è detto di tutto: è stato un prete antimafia, ma non sono d’accordo, è stato un eroe, ma gli eroi li creiamo noi per non impegnarci abbastanza.
E allora chi era?
Un prete di strada che ha dato tutto a Dio, ma nella misura in cui ha dato tutto a Dio ha dato tutto all’uomo. E in questo binomio Dio-uomo è rimasto fedele a Dio e fedele all’uomo. Viveva un bellissimo rapporto con il Signore. L’ho visto tante volte in preghiera, nell’Eucaristia, quando spezzettava la Parola di Dio per renderla semplice per le persone semplici di Brancaccio. Però l’ho visto anche fortemente impegnato nel quartiere, quando si interessava delle famiglie che non avevano il pane quotidiano, il pane della speranza, neanche il pane della sicurezza fisica. Quando il mafioso dice «siamo noi che diamo pane e lavoro, non la Chiesa o lo Stato», è una grande bugia. La mafia dà pane e lavoro, se di lavoro si può parlare, solo a se stessa. Soldi, benessere. Mentre padre Puglisi, in occasione della festa di San Gaetano, attraversa con la processione le vie di Brancaccio tra mura fatiscenti, su una terrazza i boss festeggiano con lo champagne.
Quando è andata a Brancaccio sapeva cosa avrebbe incontrato?
Solo quando hanno ucciso padre Puglisi ho capito le gravi condizioni di quel quartiere. Vedevo che c’era molto degrado e da quello quanta mafia c’era. Degrado ambientale, morale, strutturale, ma anche di cultura e istruzione. Infatti padre Puglisi aveva colto il fenomeno della mafia proprio dalla mancanza d’istruzione.
E insisteva molto sulla scuola.
Diceva che se l’uomo si apre al sapere riesce a gestire anche le forze occulte della mafia, a distinguere il bene dal male, ma se vive nell’ignoranza, per un pezzo di pane che la mafia gli dà in quel momento, non riesce a guardare al futuro.
Lei non aveva percepito il livello della violenza mafiosa?
Padre Puglisi ci proteggeva. Cercava di caricare tutto su di sé. Spesso lo vedevo con gli occhi arrossati, il labbro spaccato, ma mi diceva: «Non si preoccupi, io soffro di pressione alta». Non era vero. Era per tenerci fuori…
Qual è l’immagine di quel giorno?
Lo sconforto interiore, la folla, la rabbia del cardinale Pappalardo. Però l’immagine che porto negli occhi, oltre che nel cuore, è quando l’ho visto sulla barella. La testa leggermente piegata sulla spalla destra, il colpo di pistola dietro l’orecchio da cui perdeva ancora sangue. Gli occhi semiaperti, si vedeva ancora il celeste. Un volto sereno. Era lui. Questa è l’immagine che mi porto di quel giorno. La più bella, anche se la più dolorosa della mia vita.
Perché la mafia decise di ucciderlo?
Portava avanti la logica del Vangelo: cercare l’uomo fino in fondo, non fin quando ti fa comodo o fin quando puoi e poi quando vedi il pericolo scappi. No, lui resisteva, non sarebbe mai tornato indietro. Per vivere la logica del Vangelo si era messo di traverso alla mafia. Ma la mafia non ama essere sfidata, soprattutto da un prete. È abituata a comandare. Quello che lui chiedeva era proprio il contrario delle logiche di mafia.
Cosa chiedeva don Puglisi?
Più civiltà nel quartiere, una scuola media, una bonifica dalla sporcizia più totale, compresa droga e degrado morale. Assistevamo tante famiglie di mafiosi in carcere che facevano pena perché vivevano in questo squallore, illuse e ingannate. Lui voleva rompere tutto questo.
Per togliere i giovani alla mafia.
Li aveva già portati via. Cominciò dai bambini, perché sono i più aperti al cambiamento. E questo dava terribilmente fastidio alla mafia.
Cosa rimane di don Puglisi?
Un messaggio forte a livello di coscienza per ciascuno, a cominciare da me che ho fatto “una scelta nella scelta”. I giovani che vengono qui in visita non escono come sono entrati. E siccome stiamo vivendo un periodo di mediocrità soffusa e diffusa, padre Puglisi diventa una terapia d’urto: se lui è riuscito a fare questo, anche io posso impegnarmi.
Cosa le manca di lui?
Era un motore di idee… Ma mi manca soprattutto il suo sorriso. Era una persona ottimista. Dove arrivava ti dava sicurezza, quando avevamo incertezze lui ci diceva «tranquilli». Si fidava molto di Dio.
La capita mai, in questa Locride così difficile, di chiedergli un aiuto?
Certo, lo prego ogni giorno. Se mi trovo un po’ più coraggiosa rispetto a Brancaccio lo devo al suo martirio. Mi dicono: «Non hai paura di vivere qui?». No, fa parte del “pacchetto” che ho scelto. Ho scelto di vivere in questa terra, metto nel conto tutto quello che mi potrebbe capitare. Padre Puglisi è al mio fianco.
Liberainformazione - Così ci accoglie suor Carolina Iavazzo, concentrato esplosivo di allegria ed energia, la più stretta collaboratrice del parroco di Brancaccio ucciso da “cosa nostra” il 15 settembre 1993 e che domani sarà beatificato a Palermo, “martire della fede”. Qui tutto parla di don Pino, tante immagini e le sue frasi, a partire dal motto: «E se ognuno fa qualcosa…». Ma non siamo a Palermo. Questa è Calabria, Bosco Sant’Ippolito, tra Bovalino e San Luca, terra d’Aspromonte. Terra di ’ndrangheta. Attorno a noi tanti bambini studiano e giocano. «Ci sono anche i figli delle famiglie della faida di San Luca», ci spiega suor Carolina. Quella che ha provocato decine di morti, quella della strage di Duisburg. «Li hanno portati proprio le famiglie. All’inizio è stata dura, non si sedevano vicino, non giocavano insieme. Ora non li riconosci più, giocano e studiano fianco a fianco». Un piccolo grande miracolo. «È padre Puglisi che ci aiuta…..», sorride suor Carolina. Nata ad Aversa, ha lavorato in Campania, Sicilia e Calabria. «Sempre in zone “belle” dove hai la vera dimensione dell’uomo che soffre». Con don Pino dal 1991 al ’93, «l’anno più tremendo della mia vita». E ora qui, «una realtà che mi ha sfidato e fortificato». Non solo bambini. «Più tardi devo andare in una famiglia per il Rosario».
Cosa sarà per lei il giorno della beatificazione?
Di grande gioia, come quando si squarcia il cielo dopo una tempesta e vedi l’azzurro. Su padre Puglisi si è detto di tutto: è stato un prete antimafia, ma non sono d’accordo, è stato un eroe, ma gli eroi li creiamo noi per non impegnarci abbastanza.
E allora chi era?
Un prete di strada che ha dato tutto a Dio, ma nella misura in cui ha dato tutto a Dio ha dato tutto all’uomo. E in questo binomio Dio-uomo è rimasto fedele a Dio e fedele all’uomo. Viveva un bellissimo rapporto con il Signore. L’ho visto tante volte in preghiera, nell’Eucaristia, quando spezzettava la Parola di Dio per renderla semplice per le persone semplici di Brancaccio. Però l’ho visto anche fortemente impegnato nel quartiere, quando si interessava delle famiglie che non avevano il pane quotidiano, il pane della speranza, neanche il pane della sicurezza fisica. Quando il mafioso dice «siamo noi che diamo pane e lavoro, non la Chiesa o lo Stato», è una grande bugia. La mafia dà pane e lavoro, se di lavoro si può parlare, solo a se stessa. Soldi, benessere. Mentre padre Puglisi, in occasione della festa di San Gaetano, attraversa con la processione le vie di Brancaccio tra mura fatiscenti, su una terrazza i boss festeggiano con lo champagne.
Quando è andata a Brancaccio sapeva cosa avrebbe incontrato?
Solo quando hanno ucciso padre Puglisi ho capito le gravi condizioni di quel quartiere. Vedevo che c’era molto degrado e da quello quanta mafia c’era. Degrado ambientale, morale, strutturale, ma anche di cultura e istruzione. Infatti padre Puglisi aveva colto il fenomeno della mafia proprio dalla mancanza d’istruzione.
E insisteva molto sulla scuola.
Diceva che se l’uomo si apre al sapere riesce a gestire anche le forze occulte della mafia, a distinguere il bene dal male, ma se vive nell’ignoranza, per un pezzo di pane che la mafia gli dà in quel momento, non riesce a guardare al futuro.
Lei non aveva percepito il livello della violenza mafiosa?
Padre Puglisi ci proteggeva. Cercava di caricare tutto su di sé. Spesso lo vedevo con gli occhi arrossati, il labbro spaccato, ma mi diceva: «Non si preoccupi, io soffro di pressione alta». Non era vero. Era per tenerci fuori…
Qual è l’immagine di quel giorno?
Lo sconforto interiore, la folla, la rabbia del cardinale Pappalardo. Però l’immagine che porto negli occhi, oltre che nel cuore, è quando l’ho visto sulla barella. La testa leggermente piegata sulla spalla destra, il colpo di pistola dietro l’orecchio da cui perdeva ancora sangue. Gli occhi semiaperti, si vedeva ancora il celeste. Un volto sereno. Era lui. Questa è l’immagine che mi porto di quel giorno. La più bella, anche se la più dolorosa della mia vita.
Perché la mafia decise di ucciderlo?
Portava avanti la logica del Vangelo: cercare l’uomo fino in fondo, non fin quando ti fa comodo o fin quando puoi e poi quando vedi il pericolo scappi. No, lui resisteva, non sarebbe mai tornato indietro. Per vivere la logica del Vangelo si era messo di traverso alla mafia. Ma la mafia non ama essere sfidata, soprattutto da un prete. È abituata a comandare. Quello che lui chiedeva era proprio il contrario delle logiche di mafia.
Cosa chiedeva don Puglisi?
Più civiltà nel quartiere, una scuola media, una bonifica dalla sporcizia più totale, compresa droga e degrado morale. Assistevamo tante famiglie di mafiosi in carcere che facevano pena perché vivevano in questo squallore, illuse e ingannate. Lui voleva rompere tutto questo.
Per togliere i giovani alla mafia.
Li aveva già portati via. Cominciò dai bambini, perché sono i più aperti al cambiamento. E questo dava terribilmente fastidio alla mafia.
Cosa rimane di don Puglisi?
Un messaggio forte a livello di coscienza per ciascuno, a cominciare da me che ho fatto “una scelta nella scelta”. I giovani che vengono qui in visita non escono come sono entrati. E siccome stiamo vivendo un periodo di mediocrità soffusa e diffusa, padre Puglisi diventa una terapia d’urto: se lui è riuscito a fare questo, anche io posso impegnarmi.
Cosa le manca di lui?
Era un motore di idee… Ma mi manca soprattutto il suo sorriso. Era una persona ottimista. Dove arrivava ti dava sicurezza, quando avevamo incertezze lui ci diceva «tranquilli». Si fidava molto di Dio.
La capita mai, in questa Locride così difficile, di chiedergli un aiuto?
Certo, lo prego ogni giorno. Se mi trovo un po’ più coraggiosa rispetto a Brancaccio lo devo al suo martirio. Mi dicono: «Non hai paura di vivere qui?». No, fa parte del “pacchetto” che ho scelto. Ho scelto di vivere in questa terra, metto nel conto tutto quello che mi potrebbe capitare. Padre Puglisi è al mio fianco.
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