mercoledì, maggio 22, 2013
Da Cgil a Coldiretti i numeri di un Paese che lascia per strada qualità del lavoro e sostenibilità

Greenreport - Sono 8 milioni e 750mila gli italiani in età attiva (ovvero tutti i compresi tra i 15 e i 64 anni, circa 40milioni di persone) che si trovano in sofferenza lavorativa: precari, disoccupati, scoraggiati che nemmeno lo cercano più, un lavoro. Se ne contano 2,8 milioni in più rispetto al 2007, al tramonto dell'era pre-crisi. I numeri diffusi dal rapporto Ires-Cgil inglobano più del 20% della popolazione in età attiva, e approfondiscono gli effetti della crisi sul lavoro in Italia più di quanto non facciano i numeri ufficiali , che non tengono conto della precarietà o di quelle situazioni in chiaroscuro che sfuggono all'etichetta ufficiale affibbiata dalla statistica allo status di disoccupato. Il tasso di disoccupazione, sottolinea infatti lo studio, «non misura la dimensione reale della platea di chi vorrebbe lavorare».

Ancora più significativi, se possibile, appaiono i numeri diffusi oggi dalla prima analisi Coldiretti/Swg su i giovani e la crisi. La maggioranza dei giovani (il 51%) sotto i 40 anni è pronta ad espatriare. Quasi un giovane su tre (32%) pur di lavorare farebbe lo spazzino, ma la percentuale sale addirittura al 49% per quelli in cerca di lavoro e scende al 19% per gli studenti. Oltre 4 giovani disoccupati su 10 (43%) sarebbero peraltro disposti, pur di lavorare, ad accettare un compenso di 500 euro al mese a parità di orario di lavoro, mentre il 39% sarebbe disposto ad un maggiore orario di lavoro a parità di stipendio. «L'analisi evidenzia un forte spirito di sacrificio delle giovani generazioni - afferma il presidente della Coldiretti, Sergio Marini - che li porta addirittura a rinunciare a diritti del lavoro fondamentali. Questo non può essere consentito in un Paese civile come l'Italia».

Chissà se l'ex ministro Fornero, che inciampò sulla sfortunata affermazione dei giovani italiani troppo choosy (schizzinosi) vorrà commentare la notizia. Certamente è oltremodo significativo il cambio cui i giovani italiani sono stati costretti dalla crisi. Da sognare un futuro da imprenditore (o perché no, il classico astronauta) a uno da spazzino. Con tutto il rispetto per una professione che ha molto a che vedere con la vivibilità dei nostri ambienti urbani - non è un caso se, più politically correct, si parli adesso di operatori ecologici - quel che stupisce non è che un ragazzo accetti di svolgere un lavoro onesto quanto utile, ma che nelle sue prospettive, si deduce dallo studio, questo sia l'ambizione massima che gli venga prospettata. Un quadro dove rientra alla perfezione la stonata uscita del sindaco di New York, il milionario Michael Bloomberg, che ha dichiarato: «Per lo studente medio, diventare un idraulico potrebbe essere una soluzione migliore che frequentare Harvard». Proprio lui che ad Harvard ha studiato.

La fetta di popolazione mondiale che si trova preclusa l'ambizione di un futuro migliore si sta d'altronde progressivamente allargando. Perfino Christine Lagarde, direttrice generale del Fondo monetario internazionale, ha recentemente ricordato in una conferenza a Washington sulla povertà che le disuguaglianze nel mondo sono aumentate: lo 0,5% della popolazione controlla il 35% della ricchezza. «In questo momento ci sono studi - ha affermato la Lagarde, come ricorda il Manifesto - che dimostrano che una distribuzione più equa della ricchezza favorisce una crescita più duratura. Non sono comunista, ma questa è la realtà». L'ideologia dell'austerità, che ancora fa valere il suo predominio in Europa, contribuisce ad allargare questa forbice all'interno dei confini del Vecchio continente, o almeno di quelli più deboli (ossia quelli del sud, compresi nostri). Le élite trovano forse comodo spingere la competitività dell'Unione agendo sulla leva dei diritti, abbassando le pretese e i salari dei lavoratori per livellarli sul piano dei concorrenti nei paesi emergenti, ma evidentemente non è questa la strada per il benessere della maggioranza.

«L'Italia che non può permettersi di rincorrere la competizione internazionale sul piano dei costi, soprattutto umani - spiega ancora Sergio Marini - ma deve puntare su una crescita sostenibile che valorizzi le distintività nazionali, creatività, cultura, ambiente, cibo e territorio». Non è una posizione isolata. Mentre continua la battaglia del premio Nobel dell'economia Paul Krugman contro l'austerità dei «Bocconi boys», un altro Nobel - l'indiano Amartya Sen - in un'intervista al Corriere della Sera ricorda che «Il successo economico dei Paesi asiatici - a cominciare dal Giappone ma anche di Singapore, Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud e ovviamente Cina - ha seguito una rotta focalizzata sull'istruzione, sulla qualità del lavoro. Dovreste tenerne conto, in Europa. Il 60% dei giovani disoccupati in Grecia fa crollare la qualità del lavoro: crescere sarà più difficile». Se in Europa vogliamo ancora credere nell'unica scelta che appaia sensata, ovvero quella di uno sviluppo possibile solo se più sostenibile, la qualità del lavoro è proprio sostenibilità sociale, e non si tratta di un'opzione scorporabile dal pacchetto. Prendere o lasciare.

Sono presenti 0 commenti

Inserisci un commento

Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.



___________________________________________________________________________________________
Testata giornalistica iscritta al n. 5/11 del Registro della Stampa del Tribunale di Pisa
Proprietario ed Editore: Fabio Gioffrè
Sede della Direzione: via Socci 15, Pisa