Christian Legros, direttore di Belgaqua, è intervenuto al Forum europeo dei giovani sull'acqua per spiegare i punti chiave del Blueprint, la revisione della direttiva quadro sui servizi idrici
Città Nuova - Lui, con i cosiddetti “decisori”, si confronta ogni giorno: Christian Legros, direttore della federazione belga dei servizi idrici Belgaqua, da Bruxelles ha un posto d'osservazione privilegiato sull'elaborazione delle politiche idriche europee: tanto più che le istituzioni comunitarie promuovono regolarmente consultazioni pubbliche sui temi più svariati, alle quali chiunque – iscrivendosi, fino ad esaurimento posti – può partecipare. «Peccato però – osserva – che queste avvengano a Bruxelles, e non è previsto un rimborso per il viaggio: per cui vi partecipa soltanto chi vive qui o chi può permettersi la spesa». Legros ha raggiunto i giovani del Forum europeo sull'acqua a Padova, per illustrare la revisione della direttiva quadro sui servizi idrici. L'abbiamo incontrato nella città del Santo per porgli alcune domande.
Monsieur Legros, come si è arrivati alla direttiva a quali sono i punti chiave della revisione?
«Il punto di partenza è la tutela della qualità dell'acqua in Europa, che non è una questione nuova: a Bruxelles i pesci sono spariti dal fiume già quarant'anni fa. Negli anni Settanta si sono emanate le prime direttive, fino ad arrivare nel 2000 a quella ora sotto revisione. I punti chiave sono sostanzialmente tre: il recupero totale dei costi di gestione; il principio secondo cui chi inquina paga; e l'innovazione tecnologica come chiave per una maggiore efficienza nell'uso e nella depurazione dell'acqua. A questo si aggiungono una serie di misure preventive per la tutela della qualità e della quantità dell'acqua – una nuova questione, introdotta soprattutto dai cambiamenti climatici –, per la creazione di sistemi comuni di monitoraggio e per la cooperazione transfrontaliera, dato che il 60 per cento delle acque europee scorre a cavallo di uno o più confini».
Da dove nascono, dunque, le accuse di porre le basi per la privatizzazione?
«La direttiva non obbliga in alcun modo a privatizzare, né l'Unione europea, in base all'articolo 34 del Trattato, ha il potere di farlo; di fatto però sia il principio di recupero dei costi che quello di prevedere una tariffa per chi inquina implicano la determinazione di un valore economico per l'acqua, che infatti è esplicitamente previsto dalla direttiva oltre che entrato nella mentalità comune. Oltretutto, secondo la Commissione, tale valore non deve essere troppo basso, per disincentivare gli sprechi. Ciò però significa che l'acqua diventa una merce come le altre, commerciabile sul mercato: e date anche le condizioni di difficoltà in cui versano parecchi Stati, l'obbligo di recuperare interamente i costi crea di fatto le condizioni politiche per la privatizzazione. Se aggiungiamo poi che il testo della norma non riconosce l'acqua come “diritto” o come “bene comune”, ma soltanto come “risorsa”, ne discende che non c'è alcuna certezza che questa venga garantita – quantomeno nella quantità minina necessaria ai bisogni essenziali – anche a chi non dovesse essere in condizione di pagarla».
Quali sono, secondo lei, le maggiori criticità del Blueprint?
«Innanzitutto la scarsa chiarezza, tanto che sono partite nove procedure di infrazione sull'applicazione. Prendiamo, ad esempio, il principio di recupero dei costi: a carico di chi? Del consumatore? Di chi inquina? Di altre entrate fiscali? La questione è aperta. Anche la determinazione dei costi non è così agevole: non si tratta soltanto di quelli di gestione diretta, ma anche degli investimenti futuri, dell'impatto ambientale, e di quelli legati ad altre condizioni specifiche del territorio. Inoltre la direttiva prende in considerazione soltanto le acque di superficie, tralasciando quelle sotterranee. La base di partenza è buona, ma bisogna capire come integrarla con le altre politiche europee, ad esempio con quella agricola».
Il principio secondo cui chi inquina paga non pone il rischio che chiunque possa contaminare l'acqua, purché se lo possa permettere?
«Attenzione: la direttiva non sancisce una sorta di “diritto ad inquinare”, perché va letta insieme ad altre norme che pongono limiti alle emissioni; più che altro la questione è quanto debba pagare chi inquina. Certo quei soldi dovrebbero servire a finanziare l'innovazione tecnologica nel campo della depurazione e di un uso più efficiente dell'acqua, con la conseguente creazione di posti di lavoro: ma non bisogna nemmeno cadere nell'illusione che la soluzione stia solo lì».
Città Nuova - Lui, con i cosiddetti “decisori”, si confronta ogni giorno: Christian Legros, direttore della federazione belga dei servizi idrici Belgaqua, da Bruxelles ha un posto d'osservazione privilegiato sull'elaborazione delle politiche idriche europee: tanto più che le istituzioni comunitarie promuovono regolarmente consultazioni pubbliche sui temi più svariati, alle quali chiunque – iscrivendosi, fino ad esaurimento posti – può partecipare. «Peccato però – osserva – che queste avvengano a Bruxelles, e non è previsto un rimborso per il viaggio: per cui vi partecipa soltanto chi vive qui o chi può permettersi la spesa». Legros ha raggiunto i giovani del Forum europeo sull'acqua a Padova, per illustrare la revisione della direttiva quadro sui servizi idrici. L'abbiamo incontrato nella città del Santo per porgli alcune domande.
Monsieur Legros, come si è arrivati alla direttiva a quali sono i punti chiave della revisione?
«Il punto di partenza è la tutela della qualità dell'acqua in Europa, che non è una questione nuova: a Bruxelles i pesci sono spariti dal fiume già quarant'anni fa. Negli anni Settanta si sono emanate le prime direttive, fino ad arrivare nel 2000 a quella ora sotto revisione. I punti chiave sono sostanzialmente tre: il recupero totale dei costi di gestione; il principio secondo cui chi inquina paga; e l'innovazione tecnologica come chiave per una maggiore efficienza nell'uso e nella depurazione dell'acqua. A questo si aggiungono una serie di misure preventive per la tutela della qualità e della quantità dell'acqua – una nuova questione, introdotta soprattutto dai cambiamenti climatici –, per la creazione di sistemi comuni di monitoraggio e per la cooperazione transfrontaliera, dato che il 60 per cento delle acque europee scorre a cavallo di uno o più confini».
Da dove nascono, dunque, le accuse di porre le basi per la privatizzazione?
«La direttiva non obbliga in alcun modo a privatizzare, né l'Unione europea, in base all'articolo 34 del Trattato, ha il potere di farlo; di fatto però sia il principio di recupero dei costi che quello di prevedere una tariffa per chi inquina implicano la determinazione di un valore economico per l'acqua, che infatti è esplicitamente previsto dalla direttiva oltre che entrato nella mentalità comune. Oltretutto, secondo la Commissione, tale valore non deve essere troppo basso, per disincentivare gli sprechi. Ciò però significa che l'acqua diventa una merce come le altre, commerciabile sul mercato: e date anche le condizioni di difficoltà in cui versano parecchi Stati, l'obbligo di recuperare interamente i costi crea di fatto le condizioni politiche per la privatizzazione. Se aggiungiamo poi che il testo della norma non riconosce l'acqua come “diritto” o come “bene comune”, ma soltanto come “risorsa”, ne discende che non c'è alcuna certezza che questa venga garantita – quantomeno nella quantità minina necessaria ai bisogni essenziali – anche a chi non dovesse essere in condizione di pagarla».
Quali sono, secondo lei, le maggiori criticità del Blueprint?
«Innanzitutto la scarsa chiarezza, tanto che sono partite nove procedure di infrazione sull'applicazione. Prendiamo, ad esempio, il principio di recupero dei costi: a carico di chi? Del consumatore? Di chi inquina? Di altre entrate fiscali? La questione è aperta. Anche la determinazione dei costi non è così agevole: non si tratta soltanto di quelli di gestione diretta, ma anche degli investimenti futuri, dell'impatto ambientale, e di quelli legati ad altre condizioni specifiche del territorio. Inoltre la direttiva prende in considerazione soltanto le acque di superficie, tralasciando quelle sotterranee. La base di partenza è buona, ma bisogna capire come integrarla con le altre politiche europee, ad esempio con quella agricola».
Il principio secondo cui chi inquina paga non pone il rischio che chiunque possa contaminare l'acqua, purché se lo possa permettere?
«Attenzione: la direttiva non sancisce una sorta di “diritto ad inquinare”, perché va letta insieme ad altre norme che pongono limiti alle emissioni; più che altro la questione è quanto debba pagare chi inquina. Certo quei soldi dovrebbero servire a finanziare l'innovazione tecnologica nel campo della depurazione e di un uso più efficiente dell'acqua, con la conseguente creazione di posti di lavoro: ma non bisogna nemmeno cadere nell'illusione che la soluzione stia solo lì».
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