Dopo 17 giorni di ricerche i soccorritori hanno individuato una donna ancora viva
GreenReport - 1.033 morti è questo l'ultimo tragico bilancio della più grande catastrofe industriale del Bangladesh, ma a 17 giorni da tragico crollo 24 aprile, nessuno saprà mai quanti cadaveri ci fossero davvero sotto gli 8 piani accartocciati del Rana Plaza: oggi termineranno le operazioni di ricerca e le macerie saranno spiante dai bulldozer. Le autorità dicono che i feriti sono circa 2.500, ed è arrivata pochi minuti fa la bella notizia che dopo 17 giorni di ricerche i soccorritori hanno individuato una donna ancora viva. Le persone che ne sono uscite indenni 2.437. Dei poveri corpi estratti dai detriti del palazzo/fabbrica costruito illegalmente su una palude di Savar, una municipalità dell'immensa capitale del Bangladesh, si conosce l'identità di solo 650, quasi tutte donne le cui spoglie vengono riconsegnate alle loro famiglie. Il generale di brigata Siddiqul Alam, a capo dell'operazione di recupero, ha detto: «Abbiamo trovato un gran numero di corpi nella tromba delle scale e sotto le scale quando l'edificio ha iniziato a crollare, i lavoratori pensavano che sarebbero stati al sicuro sotto le scale. Ogni volta che abbiamo spostato una lastra di cemento, abbiamo trovato una pila di corpi». I corpi decomposti vengono spesso identificati solo grazie ai telefonini che hanno addosso. L'Afp riferisce che «Le autorità stanno prendendo campioni di Dna dalle vittime, che potranno essere utilizzati per le future richieste di risarcimento».
Continuano intanto le manifestazioni per chiedere la pena di morte per il proprietario del Rana Plaza, Mohammad Sohel Rana, ma le responsabilità non sono solo sue. Ora si viene a sapere che il Rana Plaza, che ospitava diverse fabbriche che producevano per marchi di abbigliamento occidentali, appena un giorno prima del crollo era stato evacuato per breve tempo perché erano comparse delle crepe sui muri. Ma le operaie sono state fatte rientrare praticamente subito nelle fabbriche perché i loro padroni dovevano rispettare gli stringenti tempi di consegna imposti dai subappaltatori delle multinazionali della moda pronta occidentali, compresa Benetton che, dopo due settimane di smentite, nonostante le foto che mostravano tra le macerie sue etichette e ordinativi, ha finalmente ammesso che una delle fabbriche di camicie del Rana Plaza riforniva l'azienda tessile italiana. L'amministratore delegato di Benetton, Biagio Chiarolanza, ha però specificato che «La New Wave Style, al momento del disastro, non era uno dei nostri grossisti, ma uno dei nostri fornitori diretti in India aveva subappaltato due ordini all'azienda». Gli ordini di Benetton a New Wave, fatti tra il dicembre 2012 e il gennaio 2013, sarebbero per circa 200.000 camicie. Le camicie venivano fabbricate nel Rana Plaza Building, spedite al fornitore in India e poi finivano nel network di distribuzione di Benetton, che però non ha voluto dire in quali negozi al dettaglio siano in vendita i vestiti made in Bangladesh. Secondo la società, «Tra il 2 e il 4% dei prodotti Benetton sono fabbricati in Bangladesh. Benetton gestisce direttamente circa metà della sua produzione, mentre si affida a fornitori esterni - soprattutto in Cina - per il resto».
Erano riferite anche alle multinazionali italiane le dure parole che la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha pronunciato ieri alla conferenza sullo stato dell'Unione a Firenze: «Il "lavoro schiavo", come Papa Francesco lo ha giustamente definito, era ed è il risultato della sfrenata ricerca di profitto delle aziende occidentali ed europee. Esiste una tendenza, da parte delle imprese private in tutto il mondo a lasciare i Paesi dove la normativa in materia di lavoro e la vigilanza dello Stato proteggono i lavoratori».
La pensa come lei l'uomo più famoso del Bangladesh, il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, che in un articolo pubblicato da diversi giornali locali ha scritto che «Il disastro è un simbolo del nostro fallimento come nazione. La crepa nel Rana Plaza che ha causato il crollo del palazzo ci ha dimostrato solo che se non affrontiamo le crepe nei nostri sistemi statali, noi come nazione ci perderemo tra le macerie del crollo». Yunus ha anche esortato i marchi della moda mondiale a non abbandonare il Paese, dicendo i lavoratori che fabbricano indumenti in subappalto «Di fatto dovrebbero essere viste come loro dipendenti».
Il Bangladesh è infatti la più grande fabbrica di vestiti occidentali ed è una fabbrica pericolosissima: l'8 maggio il governo del Bangladesh ha annunciato la chiusura di 18 fabbriche di abbigliamento per motivi di sicurezza. Solo ieri, in un'altra zona della capitale, l'incendio in un edificio che ospita una fabbrica di abbigliamento ha ucciso otto persone, 5 operai, il proprietario, un ufficiale di polizia e un politico locale.
Chiarolanza ha detto all'Huffington Post che «Benetton aveva deciso di fermare la produzione con New Wave un mese prima del crollo mortale, a causa dell'incapacità del produttore di rispettare standard di qualità ed efficienza "severi"» e che «La società ha intenzione di continuare a utilizzare fabbriche in Bangladesh per produrre le sue merci. il benessere dei lavoratori nei paesi poveri è garantito meglio fornendo lavoro. Andare fuori dal Bangladesh o pensare di lasciarlo in futuro non è la soluzione. Ho trascorso alcuni periodi della mia vita in questa parte del mondo, e credo davvero che Benetton e altri marchi internazionali possano aiutare questi Paesi a migliorare le loro condizioni». Tra le motivazioni portate per la decisione di restare in Bangladesh c'è «Il bisogno di mantenere le operazioni in regioni diverse, dando alla Benetton la capacità di produrre velocemente e consegnare i capi ai commercianti al dettaglio in tutto il mondo. Altri Paesi, come il Laos e l'Egitto, offrono forza lavoro molto economica, ma il Bangladesh rappresenta il luogo migliore per produrre T-shirts e altri indumenti semplici che possono essere distribuiti ai grandi mercati asiatici, come la Cina. In Tunisia, dove abbiamo una fabbrica di nostra proprietà, possiamo produrre più o meno allo stesso costo. È meglio dividere la produzione tra alcuni Paesi e fabbriche, in modo da essere più vicini, ad esempio, ai mercati asiatici, così da consegnare direttamente i prodotti».
Le spiegazioni (tardive) della Benetton sembrano il tentativo di bloccare la grossa perdita di immagine di "United Colors of Benetton" che, mentre propaganda l'impegno sociale ed un multiculturalismo interclassista, utilizza subappaltatori che producono in fabbriche pericolosissime che sfruttano brutalmente la manodopera femminile. Come scrive l'Huffington Post, «Benetton ha dato la colpa della confusione alla complessità della sua catena di fornitori. Il gruppo opera in 120 paesi del globo e lavora con 700 produttori, e i fornitori spesso esternalizzano il lavoro, quando è necessario. C'è voluto tempo per ripercorrere tutti i registri e ritrovare gli ordini fatti alla fabbrica di Rana Plaza, ha dichiarato l'azienda».
Verrebbe da dire chi di buona globalizzazione ferisce di cattiva globalizzazione perisce, se a perire non fossero stati in realtà più di mille poveracci senza tutele e diritti, sfruttati da imprese subappaltatrici come la New Wave, che secondo Benetton rispettava evidentemente il codice di condotta, che parla anche di condizioni di lavoro e sicurezza, che devono firmare tutti i suoi fornitori. Ma Chiarolanza ha ammesso che L'azienda non ha mai condotto una cosiddetta "rilevazione sociale" (social audit) di New Wave, poiché Benetton aveva lavorato con il fornitore solo per un breve periodo di tempo». Che poi è la normalità per ordinativi di questo tipo in Paesi in via di sviluppo... Benetton invece ha assicurato che «La documentazione fornita dalle agenzia governative locali non mostrava segni di irregolarità o permessi di costruzione sospetti. Tutte le informazioni fornite alla Benetton erano completamente in linea». Peccato che i permessi di costruzione del Rana Plaza praticamente non esistano.
La Clean clothes campaign (Ccc), è in possesso di una copia di un ordine di acquisto da parte di Benetton per capi prodotti dalla New Wave, che sembra avere con l'azienda italiana rapporti molto più stretti e continui di quelli che ammette Chiarolanza, visto che sul suo sito web annovera la Benetton come un dei suoi principali clienti.
Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna abiti puliti, la sezione italiana della Ccc dice: «La gravità della situazione richiede un'assunzione di responsabilità immediata da parte dei marchi internazionali coinvolti, del governo e degli industriali bengalesi, che devono porre fine per sempre a tragedie come questa, l'ennesima per totale negligenza del sistema imprenditoriale internazionale. Aziende importanti come la Benetton hanno la responsabilità di accertare a quali condizioni vengono prodotti i loro capi e di intervenire adeguatamente e preventivamente per garantire salute e sicurezza nelle fabbriche da cui si riforniscono».
In particolare, «viste anche le ultime dichiarazioni rilasciate da Benetton con le quali si è detto disponibile a contribuire al risarcimento delle vittime del crollo e alla luce delle numerose prove che di fatto legano l'azienda a una delle fabbriche del Rana Plaza», la Ccc chiede che Benetton: Invii immediatamente una sua delegazione in Bangladesh, stabilendo un contatto diretto con Abiti Puliti e i sindacati locali per fornire immediato supporto alle vittime della tragedia che hanno bisogno di cure, cibo e assistenza; Contribuisca al fondo di risarcimento negoziato con i sindacati bengalesi e IndustryALL - la federazione internazionale dei sindacati tessili - in base a criteri equi e secondo una lista trasparente che elenchi tutte le vittime e i feriti. La cifra totale, secondo le prime stime, non potrà essere inferiore ai 30 milioni di dollari, per risarcire le vittime o le famiglie dei deceduti, per gli stipendi mancati per l'intero ciclo di vita e i danni psicologici subiti. Sono esclusi i costi dell'assistenza medica per centinaia di feriti; Firmi il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, un programma specifico di azione che include ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza per rimuovere alla radice le cause che rendono le fabbriche del paese insicure e rischiose per migliaia di lavoratori; Renda pubblica e trasparente la lista dei loro fornitori, i report degli audit effettuati e le azioni correttive intraprese per consentire alle organizzazioni non governative e ai consumatori di valutare in maniera indipendente la qualità dei loro controlli e l'effettivo miglioramento dei livelli salute e sicurezza presso i vostri fornitori.
La Campagna abiti puliti si dice «Certa che Benetton saprà valutare con attenzione le istanze che provengono anche dai loro clienti, attenti sempre più che gli abiti che acquistano siano confezionati in condizioni di produzione eque e dignitose».
Continuano intanto le manifestazioni per chiedere la pena di morte per il proprietario del Rana Plaza, Mohammad Sohel Rana, ma le responsabilità non sono solo sue. Ora si viene a sapere che il Rana Plaza, che ospitava diverse fabbriche che producevano per marchi di abbigliamento occidentali, appena un giorno prima del crollo era stato evacuato per breve tempo perché erano comparse delle crepe sui muri. Ma le operaie sono state fatte rientrare praticamente subito nelle fabbriche perché i loro padroni dovevano rispettare gli stringenti tempi di consegna imposti dai subappaltatori delle multinazionali della moda pronta occidentali, compresa Benetton che, dopo due settimane di smentite, nonostante le foto che mostravano tra le macerie sue etichette e ordinativi, ha finalmente ammesso che una delle fabbriche di camicie del Rana Plaza riforniva l'azienda tessile italiana. L'amministratore delegato di Benetton, Biagio Chiarolanza, ha però specificato che «La New Wave Style, al momento del disastro, non era uno dei nostri grossisti, ma uno dei nostri fornitori diretti in India aveva subappaltato due ordini all'azienda». Gli ordini di Benetton a New Wave, fatti tra il dicembre 2012 e il gennaio 2013, sarebbero per circa 200.000 camicie. Le camicie venivano fabbricate nel Rana Plaza Building, spedite al fornitore in India e poi finivano nel network di distribuzione di Benetton, che però non ha voluto dire in quali negozi al dettaglio siano in vendita i vestiti made in Bangladesh. Secondo la società, «Tra il 2 e il 4% dei prodotti Benetton sono fabbricati in Bangladesh. Benetton gestisce direttamente circa metà della sua produzione, mentre si affida a fornitori esterni - soprattutto in Cina - per il resto».
Erano riferite anche alle multinazionali italiane le dure parole che la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha pronunciato ieri alla conferenza sullo stato dell'Unione a Firenze: «Il "lavoro schiavo", come Papa Francesco lo ha giustamente definito, era ed è il risultato della sfrenata ricerca di profitto delle aziende occidentali ed europee. Esiste una tendenza, da parte delle imprese private in tutto il mondo a lasciare i Paesi dove la normativa in materia di lavoro e la vigilanza dello Stato proteggono i lavoratori».
La pensa come lei l'uomo più famoso del Bangladesh, il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, che in un articolo pubblicato da diversi giornali locali ha scritto che «Il disastro è un simbolo del nostro fallimento come nazione. La crepa nel Rana Plaza che ha causato il crollo del palazzo ci ha dimostrato solo che se non affrontiamo le crepe nei nostri sistemi statali, noi come nazione ci perderemo tra le macerie del crollo». Yunus ha anche esortato i marchi della moda mondiale a non abbandonare il Paese, dicendo i lavoratori che fabbricano indumenti in subappalto «Di fatto dovrebbero essere viste come loro dipendenti».
Il Bangladesh è infatti la più grande fabbrica di vestiti occidentali ed è una fabbrica pericolosissima: l'8 maggio il governo del Bangladesh ha annunciato la chiusura di 18 fabbriche di abbigliamento per motivi di sicurezza. Solo ieri, in un'altra zona della capitale, l'incendio in un edificio che ospita una fabbrica di abbigliamento ha ucciso otto persone, 5 operai, il proprietario, un ufficiale di polizia e un politico locale.
Chiarolanza ha detto all'Huffington Post che «Benetton aveva deciso di fermare la produzione con New Wave un mese prima del crollo mortale, a causa dell'incapacità del produttore di rispettare standard di qualità ed efficienza "severi"» e che «La società ha intenzione di continuare a utilizzare fabbriche in Bangladesh per produrre le sue merci. il benessere dei lavoratori nei paesi poveri è garantito meglio fornendo lavoro. Andare fuori dal Bangladesh o pensare di lasciarlo in futuro non è la soluzione. Ho trascorso alcuni periodi della mia vita in questa parte del mondo, e credo davvero che Benetton e altri marchi internazionali possano aiutare questi Paesi a migliorare le loro condizioni». Tra le motivazioni portate per la decisione di restare in Bangladesh c'è «Il bisogno di mantenere le operazioni in regioni diverse, dando alla Benetton la capacità di produrre velocemente e consegnare i capi ai commercianti al dettaglio in tutto il mondo. Altri Paesi, come il Laos e l'Egitto, offrono forza lavoro molto economica, ma il Bangladesh rappresenta il luogo migliore per produrre T-shirts e altri indumenti semplici che possono essere distribuiti ai grandi mercati asiatici, come la Cina. In Tunisia, dove abbiamo una fabbrica di nostra proprietà, possiamo produrre più o meno allo stesso costo. È meglio dividere la produzione tra alcuni Paesi e fabbriche, in modo da essere più vicini, ad esempio, ai mercati asiatici, così da consegnare direttamente i prodotti».
Le spiegazioni (tardive) della Benetton sembrano il tentativo di bloccare la grossa perdita di immagine di "United Colors of Benetton" che, mentre propaganda l'impegno sociale ed un multiculturalismo interclassista, utilizza subappaltatori che producono in fabbriche pericolosissime che sfruttano brutalmente la manodopera femminile. Come scrive l'Huffington Post, «Benetton ha dato la colpa della confusione alla complessità della sua catena di fornitori. Il gruppo opera in 120 paesi del globo e lavora con 700 produttori, e i fornitori spesso esternalizzano il lavoro, quando è necessario. C'è voluto tempo per ripercorrere tutti i registri e ritrovare gli ordini fatti alla fabbrica di Rana Plaza, ha dichiarato l'azienda».
Verrebbe da dire chi di buona globalizzazione ferisce di cattiva globalizzazione perisce, se a perire non fossero stati in realtà più di mille poveracci senza tutele e diritti, sfruttati da imprese subappaltatrici come la New Wave, che secondo Benetton rispettava evidentemente il codice di condotta, che parla anche di condizioni di lavoro e sicurezza, che devono firmare tutti i suoi fornitori. Ma Chiarolanza ha ammesso che L'azienda non ha mai condotto una cosiddetta "rilevazione sociale" (social audit) di New Wave, poiché Benetton aveva lavorato con il fornitore solo per un breve periodo di tempo». Che poi è la normalità per ordinativi di questo tipo in Paesi in via di sviluppo... Benetton invece ha assicurato che «La documentazione fornita dalle agenzia governative locali non mostrava segni di irregolarità o permessi di costruzione sospetti. Tutte le informazioni fornite alla Benetton erano completamente in linea». Peccato che i permessi di costruzione del Rana Plaza praticamente non esistano.
La Clean clothes campaign (Ccc), è in possesso di una copia di un ordine di acquisto da parte di Benetton per capi prodotti dalla New Wave, che sembra avere con l'azienda italiana rapporti molto più stretti e continui di quelli che ammette Chiarolanza, visto che sul suo sito web annovera la Benetton come un dei suoi principali clienti.
Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna abiti puliti, la sezione italiana della Ccc dice: «La gravità della situazione richiede un'assunzione di responsabilità immediata da parte dei marchi internazionali coinvolti, del governo e degli industriali bengalesi, che devono porre fine per sempre a tragedie come questa, l'ennesima per totale negligenza del sistema imprenditoriale internazionale. Aziende importanti come la Benetton hanno la responsabilità di accertare a quali condizioni vengono prodotti i loro capi e di intervenire adeguatamente e preventivamente per garantire salute e sicurezza nelle fabbriche da cui si riforniscono».
In particolare, «viste anche le ultime dichiarazioni rilasciate da Benetton con le quali si è detto disponibile a contribuire al risarcimento delle vittime del crollo e alla luce delle numerose prove che di fatto legano l'azienda a una delle fabbriche del Rana Plaza», la Ccc chiede che Benetton: Invii immediatamente una sua delegazione in Bangladesh, stabilendo un contatto diretto con Abiti Puliti e i sindacati locali per fornire immediato supporto alle vittime della tragedia che hanno bisogno di cure, cibo e assistenza; Contribuisca al fondo di risarcimento negoziato con i sindacati bengalesi e IndustryALL - la federazione internazionale dei sindacati tessili - in base a criteri equi e secondo una lista trasparente che elenchi tutte le vittime e i feriti. La cifra totale, secondo le prime stime, non potrà essere inferiore ai 30 milioni di dollari, per risarcire le vittime o le famiglie dei deceduti, per gli stipendi mancati per l'intero ciclo di vita e i danni psicologici subiti. Sono esclusi i costi dell'assistenza medica per centinaia di feriti; Firmi il Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, un programma specifico di azione che include ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza per rimuovere alla radice le cause che rendono le fabbriche del paese insicure e rischiose per migliaia di lavoratori; Renda pubblica e trasparente la lista dei loro fornitori, i report degli audit effettuati e le azioni correttive intraprese per consentire alle organizzazioni non governative e ai consumatori di valutare in maniera indipendente la qualità dei loro controlli e l'effettivo miglioramento dei livelli salute e sicurezza presso i vostri fornitori.
La Campagna abiti puliti si dice «Certa che Benetton saprà valutare con attenzione le istanze che provengono anche dai loro clienti, attenti sempre più che gli abiti che acquistano siano confezionati in condizioni di produzione eque e dignitose».
Umberto Mazzantini
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