A Cochabamba, in Bolivia, i comitati di cittadini hanno preso in mano la gestione del servizio idrico. Il racconto di Camila Oliveira.
Città Nuova -C'è una data che gli abitanti di Cochabamba, in Bolivia, ricordano come storica: l'11 aprile del 2000. Quel giorno terminò la “guerra dell'acqua”, la rivolta popolare contro il contratto con la multinazionale “Aguas del Tunari”, che costrinse le autorità a modificare la legge sull'acqua scongiurando il rischio di privatizzazione e portò alla cancellazione di un contratto quarantennale con la Suez nelle vicine città di La Paz e El Alto. Se il servizio idrico è rimasto nelle mani di una compagnia pubblica, la Semapa, questo non è però bastato a risolvere i problemi: i casi di corruzione e di nepotismo, che hanno portato anche alla cancellazione di un prestito di 18 milioni di dollari da parte della Banca interamericana per lo sviluppo, hanno coinvolto diversi direttori dell'azienda, fino allo scioglimento dell'intero CdA nel 2009. Quegli stessi movimenti popolari che avevano “vinto la guerra, ma perso l'acqua”, hanno così ripreso in mano la situazione soprattutto nei quartieri più poveri, rimasti scoperti dalla rete idrica e fognaria: si è così creata una rete di Comités de agua, comitati per l'acqua, che gestiscono dal basso in maniera indipendente il servizio.
«Ce ne sono circa un centinaio in tutta Cochabamba – racconta Camila Oliveira, della Fundaciòn Abril – e servono circa un milione di abitanti, la metà della popolazione». Il principio di base è quello di diventare in qualche modo azionisti: «Ciascuna famiglia mette una quota in denaro e si rende disponibile per un certo numero di ore di lavoro, in base alle proprie possibilità – prosegue la Oliveira – e queste vengono decise dall'assemblea di quartiere: così come le tariffe che ciascuno poi pagherà per il consumo. Diverse famiglie sono formate soltanto dai nonni e dai nipoti, perché i genitori sono emigrati, per cui non possono permettersi molto». Certo le cifre non sono irrisorie, ma almeno sono tenute sotto controllo dalla comunità – a differenza di quelle praticate dalla Semapa; e oltretutto «nelle zone servite dai Comités l'acqua è disponibile 24 ore al giorno, mentre nelle altre si raggiungono picchi negativi di appena due ore». Se poi qualcuno volesse entrare nei Comités per approfittare dei vantaggi, ma non si presentasse alle riunioni, deve pagare una multa, «anche questa decisa dall'assemblea»: cardine di tutto è la corresponsabilità e la cogestione, per cui nessuno può lavarsene le mani.
Certo le difficoltà non mancano: «La gestione non è facile – ammette la giovane attivista –, sia dal punto di vista tecnico, sia perché spesso non è possibile mettere da parte denaro sufficiente per gli investimenti: anche solo cambiare le tubature vecchie è difficile. Inoltre a volte l'acqua, molto banalmente, manca: abbiamo comunque un accordo con la Semapa, perché la fornisca in cisterne a prezzi agevolati». Anche per fronteggiare meglio questi problemi si è creata già nel 2004 una rete, la Asica Sur, che riunisce questi comitati, e funziona da soggetto negoziale verso le autorità: sono così arrivati appoggi finanziari da parte del governo, di diverse organizzazioni non governatie e dell'Unione Europea, soprattutto per i progetti di costruzione e ampliamento delle infrastrutture.
I Comités, fortunatamente, non sono soli: in tutta l'America Latina è infatti attiva la Plataforma de acuerdos pùblicos comunitarios (APC), una rete di organizzazioni sindacali e sociali, istituzioni e imprese pubbliche, che promuove la cooperazione tecnica e lo scambio di buone pratiche tra enti pubblici e società civile anche al di là dei confini nazionali. I risultati in termini di sviluppo della copertura e dell'efficienza della gestione della rete idrica sono stati tangibili, soprattutto in Argentina, Perù e Uruguay: «Abbiamo imparato molto dai nostri fratelli andini – ammette Adriana Marquisio, delle Obras sanitarias del Estado dell'Uruguay –: nel nostro Paese c'è la concezione che lo Stato debba fare tutto, mentre loro ci hanno insegnato ad impegnarci in prima persona».
di Chiara Andreola
Città Nuova -C'è una data che gli abitanti di Cochabamba, in Bolivia, ricordano come storica: l'11 aprile del 2000. Quel giorno terminò la “guerra dell'acqua”, la rivolta popolare contro il contratto con la multinazionale “Aguas del Tunari”, che costrinse le autorità a modificare la legge sull'acqua scongiurando il rischio di privatizzazione e portò alla cancellazione di un contratto quarantennale con la Suez nelle vicine città di La Paz e El Alto. Se il servizio idrico è rimasto nelle mani di una compagnia pubblica, la Semapa, questo non è però bastato a risolvere i problemi: i casi di corruzione e di nepotismo, che hanno portato anche alla cancellazione di un prestito di 18 milioni di dollari da parte della Banca interamericana per lo sviluppo, hanno coinvolto diversi direttori dell'azienda, fino allo scioglimento dell'intero CdA nel 2009. Quegli stessi movimenti popolari che avevano “vinto la guerra, ma perso l'acqua”, hanno così ripreso in mano la situazione soprattutto nei quartieri più poveri, rimasti scoperti dalla rete idrica e fognaria: si è così creata una rete di Comités de agua, comitati per l'acqua, che gestiscono dal basso in maniera indipendente il servizio.
«Ce ne sono circa un centinaio in tutta Cochabamba – racconta Camila Oliveira, della Fundaciòn Abril – e servono circa un milione di abitanti, la metà della popolazione». Il principio di base è quello di diventare in qualche modo azionisti: «Ciascuna famiglia mette una quota in denaro e si rende disponibile per un certo numero di ore di lavoro, in base alle proprie possibilità – prosegue la Oliveira – e queste vengono decise dall'assemblea di quartiere: così come le tariffe che ciascuno poi pagherà per il consumo. Diverse famiglie sono formate soltanto dai nonni e dai nipoti, perché i genitori sono emigrati, per cui non possono permettersi molto». Certo le cifre non sono irrisorie, ma almeno sono tenute sotto controllo dalla comunità – a differenza di quelle praticate dalla Semapa; e oltretutto «nelle zone servite dai Comités l'acqua è disponibile 24 ore al giorno, mentre nelle altre si raggiungono picchi negativi di appena due ore». Se poi qualcuno volesse entrare nei Comités per approfittare dei vantaggi, ma non si presentasse alle riunioni, deve pagare una multa, «anche questa decisa dall'assemblea»: cardine di tutto è la corresponsabilità e la cogestione, per cui nessuno può lavarsene le mani.
Certo le difficoltà non mancano: «La gestione non è facile – ammette la giovane attivista –, sia dal punto di vista tecnico, sia perché spesso non è possibile mettere da parte denaro sufficiente per gli investimenti: anche solo cambiare le tubature vecchie è difficile. Inoltre a volte l'acqua, molto banalmente, manca: abbiamo comunque un accordo con la Semapa, perché la fornisca in cisterne a prezzi agevolati». Anche per fronteggiare meglio questi problemi si è creata già nel 2004 una rete, la Asica Sur, che riunisce questi comitati, e funziona da soggetto negoziale verso le autorità: sono così arrivati appoggi finanziari da parte del governo, di diverse organizzazioni non governatie e dell'Unione Europea, soprattutto per i progetti di costruzione e ampliamento delle infrastrutture.
I Comités, fortunatamente, non sono soli: in tutta l'America Latina è infatti attiva la Plataforma de acuerdos pùblicos comunitarios (APC), una rete di organizzazioni sindacali e sociali, istituzioni e imprese pubbliche, che promuove la cooperazione tecnica e lo scambio di buone pratiche tra enti pubblici e società civile anche al di là dei confini nazionali. I risultati in termini di sviluppo della copertura e dell'efficienza della gestione della rete idrica sono stati tangibili, soprattutto in Argentina, Perù e Uruguay: «Abbiamo imparato molto dai nostri fratelli andini – ammette Adriana Marquisio, delle Obras sanitarias del Estado dell'Uruguay –: nel nostro Paese c'è la concezione che lo Stato debba fare tutto, mentre loro ci hanno insegnato ad impegnarci in prima persona».
di Chiara Andreola
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