martedì, giugno 11, 2013
L’ennesima tragedia del mare che si è consumata ieri al largo di Christmas Island, avamposto di territorio australiano proiettato verso l’Indonesia, ha evidenziato ancora una volta la situazione di migliaia di persone che affidano a imbarcazioni fornite da trafficanti senza scrupoli le loro speranze di fuggire da aree di conflitto o dall’emarginazione per raggiungere l’Australia.  

Misna - Nella serata di ieri, i guardacoste australiani hanno sospeso le ricerche, considerate ormai “inutili” dalle autorità mediche, date le caratteristiche di quel tratto di mare. Delle 55 persone che le autorità di Canberra hanno stimato a bordo dell’imbarcazione avvistata mercoledì scorso, mezzi di soccorso aerei e navali hanno individuato 13 corpi attorno ad alcuni rottami dell’imbarcazione. Non si conoscono ancora le cause precise del naufragio e neppure la nazionalità di coloro che eran a bordo. Abitualmente sono afghani, iracheni e srilankesi a tentare il viaggio lungo e pericoloso verso le coste australiane, transitando abitualmente dalle acque indiane, thailandesi e malesi prima di approdare sulla costa meridionale dell’isola indonesiana di Giava e da qui attraversare l’ultimo tratto di mare aperto verso Christmas Island e oltre.

Secondo i dati ufficiali forniti dal dipartimento dell’Immigrazione australiano, sono state 278 le imbarcazioni intercettate lo scorso anno con un totale di oltre 17.000 passeggeri. Un numero cresciuto notevolmente rispetto all’anno recedente ma che sarà probabilmente superato quest’anno, dato che nei primi cinque mesi dell’anno sono state intercettate quasi 11.000 persone su 164 imbarcazioni. Sono centinaia le vittime registrate nel tentativo di raggiungere l’Australia, paese che applica una politica di respingimento verso centri offshore, come quelli in Papua-Nuova Guinea, Nauru o Vanuatu, dove chi viene fermato resta a disposizione per un successivo screening che ne accerti nazionalità e ragioni del viaggio.

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