mercoledì, giugno 26, 2013
In oltre 100 Paesi si pratica la tortura. E’ quanto si denuncia oggi per l'odierna Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, indetta in occasione dell’anniversario della ratifica della Convenzione Onu entrata in vigore il 26 giugno 1987. Servizio di Francesca Sabatinelli: ascolta

Radio Vaticana - Mettiamo la parola fine alla tortura nel mondo, sosteniamo e assistiamo tutti coloro che l’hanno subita e sollecitiamo affinché i paesi provvedano a riparare quanto sopportato dalle vittime. E’ la sintesi del messaggio che il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon ha inviato in occasione dell’odierna Giornata a sostegno delle vittime di tortura, aberrante pratica distribuita ad oggi in 112 Paesi del mondo, ben 11 in più dello scorso anno, come indicato da Amnesty International. Le vittime, chiunque esse siano, bambini donne o uomini, restano marchiate da ferite e traumi indelebili, annichilite dalla perdita della loro identità sociale, politica e culturale.

La tortura si pratica in molti Paesi preda di conflitti, ma si insinua anche nelle pieghe più nascoste delle nazioni più democratiche. Si pensi all’Italia che non ha ancora introdotto la tortura come reato specifico del suo codice penale, una grave mancanza giuridica che continua da tempo ad essere denunciata dalle associazioni che si battono per la difesa dei diritti umani. Tra queste vi è il Cir, Consiglio Italiano per i Rifugiati, che dal 1996 gestisce progetti mirati alla riabilitazione dei sopravvissuti alla tortura. Un rifugiato su tre di coloro che arrivano in Italia ha subito esperienza di tortura. E fino ad oggi il Cir ha assistito circa tremila persone. Fiorella Rathaus, responsabile dei progetti Cir diretti alle vittime di tortura:

R. – La tortura non avviene soltanto in Paesi lontani, non colpisce soltanto persone che poi arrivano qui, in fuga, ma è un fenomeno molto vicino a tutti noi, che ci riguarda profondamente e contro il quale dobbiamo lottare. Purtroppo, ci troviamo davanti a cifre che sono addirittura superiori rispetto al passato, cifre di Paesi che a tutt’oggi praticano la tortura. E questo è davvero una considerazione drammatica.

D. – Anche in considerazione dei numerosi conflitti che si stanno drammatizzando sempre di più? Penso alla Siria…

R. – Non direi che necessariamente sia collegata. Sicuramente, poi, in queste situazioni, si esaspera. Credo che per cogliere il senso profondo della tortura bisogna pensare a qualcosa di più banale, nel senso che può intromettersi nella quotidianità e nella vita delle carceri, nella vita del potere, in modo anche meno eclatante, ed è per questo che non dobbiamo guardare solo alla guerra per crearci gli anticorpi. Per crearci anticorpi che funzionino per davvero, bisogna guardarla nella sua mostruosità e nella sua banalità e nel suo essere, in qualche modo, a portata di mano di tantissime situazioni di potere. Ed è così che ne cogliamo la pericolosità e il senso profondo. In sé, la tortura è espressione di un male endemico della società, e solo questo ci aiuta poi a capirla, a coglierla, e a prevenirla davvero.

D. – Partendo da questo, è opportuno puntualizzare ciò che non solo il Cir, ma tantissime associazioni ormai da anni denunciano: il fatto che in Italia non esista il reato di tortura.

R. – Questo, evidentemente, è un’inadempienza gravissima dello Stato italiano: l’assenza di un reato di tortura, di una fattispecie specifica giuridica, compromette la possibilità di colpire davvero quello che succede in queste circostanze.

D. – Il Cir da sempre si occupa in vari modi della riabilitazione delle persone che arrivano in Italia e che hanno subito la tortura e che spessissimo hanno ricadute estremamente gravi a livello psicologico, sviluppano delle patologie … Voi con cosa vi confrontate? Quanto successo, se così si può definire, ha avuto questo tipo di approccio adottata dal Cir?

R. – La tortura non mira a far parlar le persone, la tortura mira soprattutto a distruggere l’identità profonda della persona: l’identità morale, l’identità culturale, l’identità sociale. Le persone che sopravvivono alla tortura devono essere guardate come persone piene di risorse, anche se qualcuno ha tentato di devitalizzare queste risorse. E noi, in quella prospettiva dobbiamo lavorare – e lo facciamo – ad esempio con un intervento legale che serve a far sì che queste persone siano credute, nelle loro storie difficili da credere, perché sono storie inconcepibili e indicibili. Però, ecco, se li aiutiamo ad essere creduti, se li aiutiamo a ricostruire un tessuto sociale – e questo è un altro aspetto importante – se li aiutiamo a ricostruire e a ricomporre i frammenti della loro psiche devastata da queste esperienze, se riusciamo a restituire una continuità alle loro esistenze, lì possiamo senz’altro fare un lavoro significativo. L’idea della tortura è distruggere, porre fine alla capacità di queste persone di un pensiero indipendente, di un pensiero vitale, di un pensiero che possa essere critico e portatore, anche – in alcuni casi – di verità.

D. – Chi sono le vittime di tortura che ad oggi arrivano in Italia, da dove provengono e cosa presentano, soprattutto?

R. – Lavoriamo moltissimo, come Cir, con persone provenienti dall’Afghanistan, dall’Eritrea, dalla Repubblica Democratica del Congo, e poi Costa d’Avorio, alcune persone dalla Nigeria, quest’anno abbiamo avuto anche alcune persone dal Senegal. Le persone arrivano spesso davvero in condizioni drammatiche, e per noi è veramente molto difficile pensare che queste cose siano successe il mese prima. Per esempio, per ragioni familiari io ho incontrato molti reduci dai campi di sterminio. Però, queste storie emergono normalmente molto tempo dopo. C’è questa distanza tra il momento in cui le storie vengono raccontate e il momento in cui sono avvenute. Spesso, con i rifugiati, non c’è distanza: la persona che hai davanti è una persona che davvero ha ancora sulla carne, reale o metaforica, stampata una vicenda recente, in cui davvero hanno visto il carnefice faccia a faccia due settimane prima, tre settimane prima. E questo è ancora più forte. E anche il modo in cui queste cose vengono raccontate, laddove la persona riesce a farlo – il che non è per niente ovvio – arrivano veramente come un pugno nello stomaco.


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