mercoledì, giugno 26, 2013
Il discorso di Barack Obama sulla riduzione delle emissioni di gas serra e sulla politica energetica, a prescindere dagli specifici obiettivi, è un segnale forte alle lobby dei fossili, ai negazionisti del clima e al Congresso. Un messaggio che chiede a tutti di sentirsi coinvolti: un appello alla mobilitazione dei cittadini per stimolare politiche virtuose di imprese e governi locali.

Qualenergia - C’era grande attesa per il discorso di Obama sul clima sia per i riflessi sulle politiche interne, sia per le sorti dell’accordo globale sulle emissioni da raggiungere nei prossimi 18 mesi. La necessità di un segnale forte era auspicata da molti per riuscire a raggiungere l’obiettivo indicato dagli Usa a Copenaghen (-17% al 2020 rispetto al 2005, vedi grafico) ed era largamente prevedibile, visto l’impegno sul “global warming” assunto dal presidente all’attodella sua rielezione e considerate le difficoltà su altri versanti (come il controllo delle armi, Siria, ecc.). Obama è uno splendido comunicatore e il suo discorso alla Georgetown University, andato oltre le previsioni di larga parte del mondo ambientalista, segnerà il futuro della politica sul clima degli Usa e darà un impulso ad una eco-diplomazia internazionale in panne.

Sull’inutilità di discutere la fondatezza dei rischi il presidente è stato tranchant. Il 97% dei ricercatori è convinto dell’emergenza clima e, del resto, gli Usa stanno già drammaticamente subendo le conseguenze di un mondo più caldo. Non ha quindi senso di perdersi in discussioni sul ruolo dell’uomo sul clima che assomigliano alle chiacchiere se la terra sia tonda o piatta. Un messaggio ai negazionisti che continuano a influenzare i media con posizioni totalmente isolate tra i climatologi di tutto il mondo. Occorre dunque agire subito. Ma il presidente sa che il Congresso è bloccato e quindi disegna una strategia di attacco (The President's Climate Action Plan - pdf) su più versanti che prescinde da un improbabile accordo bipartisan. Utilizza le sue leve, ad iniziare dall’Environmental Protection Agency, che già ha emanato norme che dovrebbero raddoppiare l’efficienza dei veicoli per la metà del prossimo decennio, e che ora riceve il mandato di definire limiti alle emissioni delle centrali a carbone.

“Obama lancia la battaglia al carbone”, è il commento di molti. E, in effetti, la riduzione delle emissioni di CO2 di un parco obsoleto come quello degli Usa è una priorità assoluta. Vengono poi alcuni annunci, come l’accelerazione delle autorizzazioni di progetti solari ed eolici sui terreni federali e l’impegno a fornire con le rinnovabili il 20% dell’elettricità di tutte le strutture governative entro il 2020 (qui avrebbe potuto osare di più). Verrà inoltre data assistenza ai piani che diverse città e Stati stanno definendo per limitare i danni dei cambiamenti climatici. New York e New Orleans, ad esempio, hanno già subito impatti per decine di miliardi di dollari e si stanno attrezzando contro i rischi futuri. Si rivolge poi ai molti Stati che da una costa all’altra si sono dati propri obiettivi sull’efficienza e sulle rinnovabili e alle oltre 1.000 città impegnate a contenere le emissioni climalteranti. Si deve partire da lì, dalle buone pratiche sul territorio. It’s just time for Washington to catch up with the rest of the country. È il governo che deve inseguire.

Ma c’è di più. Obama sa che, senza una forte spinta dal basso, i potenti interessi contrari bloccherebbero le politiche più avanzate. Fa quindi appello mobilitazione dei cittadini per stimolare l’avvio di politiche virtuose di imprese, governi locali, del Congresso stesso. Arriva a pronunciare la parola eversiva “Divest”, uno degli slogan di un movimento che sta facendo proseliti in molte università e città statunitensi con l’obiettivo di spostare i propri investimenti dalle multinazionali dei fossili alle rinnovabili. Obama parla poi di uno dei temi più controversi, la “Keystone pipeline”, l’oleodotto che dovrebbe portare il petrolio prodotto dalle inquinanti sabbie bituminose canadesi al Golfo del Messico. Come era prevedibile, il presidente non prende una decisione netta, ma afferma che il progetto potrà essere realizzato solo se si dimostrerà che non comporterà un peggioramento netto dal punto di vista climatico (impresa improba per i fautori dello sfruttamento delle tar sands).

Infine, è importante l’impatto del discorso a livello internazionale. I critici avevano evidenziato come la riduzione dell’uso interno del carbone negli ultimi due anni aveva comportato un aumento delle esportazione di questo combustibile. Su questo punto Obama prende un impegno forte: non finanziare più centrali a carbone all’estero sprovviste di tecnologia di cattura e sequestro del carbonio, una soluzione al momento solo sperimentale. Se anche la Banca Mondiale seguisse questa linea, gli scenari elettrici cambierebbero molto nei prossimi anni. Ma il cuore della battaglia sul clima verrà dal raggiungimento di un accordo globale sul clima. Obama vuole che gli Usa riprendano la leadership nelle trattative, una posizione che avvicina la possibilità di un successo entro il 2015. Anche perché la Cina, sempre più lanciata sulle rinnovabili e sulla green economy, ha progressivamente cambiato atteggiamento.

La vecchia Europa, da sempre capofila delle battaglie sul clima, ultimamente si era un po’ appannata come dimostrano le defatiganti discussioni sugli obiettivi al 2030. La nuova posizione Usa rafforzerà la definizione di targets più ambiziosi. We need a plan to lead the world in a coordinated assault on a changing climate. Ripartiamo da qua, anche nel nostro paese.

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