sabato, luglio 13, 2013
Il caso del magistrato Pietro D’Amico, suicidatosi ad aprile nella clinica della morte svizzera chiamata EXIT

Radio Vaticana - Continua ha suscitare scalpore la vicenda del magistrato Pietro D'Amico, che lo scorso aprile decise di sottoporsi in una clinica di Basilea, in Svizzera, al cosiddetto suicidio assistito a causa di un male incurabile che la successiva autopsia ha smentito. Il legale dell'uomo, l’avv. Roccisano, ha denunciato i medici autori della diagnosi accusandoli di "errore scientifico fatale", che indusse Pietro D'Amico in uno stato di forte depressione fino al suicidio. Daniel Ienciu ha chiesto un commento al prof. Adriano Pessina, docente di Bioetica all'Università Cattolica Sacro Cuore di Milano: ascolta
 
R. – Credo che, anzitutto, vi sia una peculiarità nella forma del suicidio assistito, perché chi cerca questa forma in realtà, a differenza dei suicidi in termini classici, cerca in qualche modo un aiuto: quindi, in questo senso, manifesta implicitamente un desiderio di uscire dalla situazione di crisi in cui si trova. Per questo, il suicidio assistito è sempre una forma assolutamente paradossale e gravissima, che dovrebbe essere in qualche modo vietata. E’ una forma di indifferenza generale, per cui si lascia da sola la persona nella sua disperazione e anzi si aiuta a coltivare il senso di incapacità di resistere di fronte alle difficoltà della vita e della malattia.

D. – Guardando al caso D’Amico, qual è la sua opinione circa il possibile errore di diagnosi che avrebbe condotto l’uomo al suicidio?

R. – Mi sembra ci siano diversi errori. Il primo sicuramente è un errore diagnostico, ma poi ci sono un insieme di errori dati dal fatto che sia lasciata da sola una persona: non la si è supportata psicologicamente, non la si è aiutata a fare i conti con la presunta situazione clinica. Tutta questa vicenda mette in luce una dinamica del suicidio assistito come una dinamica di abbandono delle persone. Anzi, in qualche modo finisce per essere una qualche forma di istigazione al suicidio, perché colui che cerca la morte, in realtà cerca di uscire da una situazione difficile. Non è la morte l’oggetto primo della sua ricerca, ma il sostegno in una situazione che da solo non riesce ad affrontare. Se incontra persone che sono in grado di dargli un sostegno di natura clinica e psicologica, nessuno chiede la morte. La morte la si chiede quando si ha una complicità, una complicità che non ha alcun valore di tipo etico.


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