«Ma, avanti ca’ ammazzano a mia, nni stinnichiu iu ‘nu para (‘prima che ammazzino me, ne stendo io un paio’)»: così Rocco Chinnici era solito scherzare con i suoi tre figli, Caterina, Elvira e Giovanni, quando la discussione tra loro ricadeva sulle minacce di morte che gli venivano rivolte.
Liberainformazione - Un modo ironico ma forzato per esorcizzare la paura di quei giorni, evocando l’immagine di uomo, pur di difendersi, pronto a ricorrere alla violenza, quanto invece di più lontano alla sua indole. Il consigliere istruttore fu strappato alla famiglia dall’autobomba che Cosa nostra piazzò sotto casa, senza alcuna possibilità di reazione da parte degli uomini della scorta, sorpresi dalla terribile deflagrazione. Insieme a lui, infatti, venerdì 29 luglio 1983 morirono due carabinieri, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Sono passati ormai trent’anni da quella calda mattina palermitana, quando Cosa nostra impresse una svolta stragista alla sua strategia d’attacco allo Stato: «Palermo come Beirut» intitolarono i quotidiani dell’epoca, quasi sorpresi dalla capacità militare delle cosche. Sono passati ormai trent’anni e di Rocco Chinnici si è scritto e detto meno di quanto si sarebbe dovuto scrivere e dire, anche per comprendere meglio quello che sarebbe avvenuto dopo nove anni, a Capaci e via D’Amelio, quando a saltare per aria furono i suoi allievi Falcone e Borsellino.
Ecco perché “Così non si può vivere” di Fabio De Pasquale ed Eleonora Iannelli è un libro prezioso, perché colma un vuoto di informazione imperdonabile e lo fa con dovizia di particolari e documentazione. A partire dal racconto dei famigliari, degli amici e dei colleghi, si ricostruisce la storia di un uomo e l’insegnamento di un magistrato che tracciò la rotta delle future intuizioni e degli indiscutibili successi del pool dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, da lui fondato ma poi guidato da Nino Caponnetto. Un gruppo di giudici che ruppero con la tradizione di un Palazzo di Giustizia, fin troppo sonnolento e più sensibile alle richieste della politica e dell’economia che alla domanda di giustizia, in un contesto dove i poteri criminali erano un fattore di pesante inquinamento.
Chinnici e i suoi con pazienza iniziarono a connettere fili altrimenti isolati, a ricostruire il passaggio delle ricchezze mafiose, arrivando alla “zona grigia”, ai santuari inviolabili, come quelli retti dagli esattori di Salemi, i i cugini Salvo, legati al sistema di potere democristiano allora dominante. Il giudice insisteva per accomunare in un unico filone i mandanti e gli esecutori degli omicidi eccellenti che, negli anni precedenti, avevano insanguinato le strade di Palermo: da Pier Santi Mattarella a Gaetano Costa, da Pio La Torre a Carlo Alberto dalla Chiesa. Le sue intuizioni troveranno poi conferma nell’ordinanza istruttoria del primo maxiprocesso alle cosche. Sicuramente la sua determinazione contribuì al suo progressivo isolamento, come testimoniato dai figli di Chinnici: «Papà fu lasciato solo, offerto ai suoi carnefici». Nessuno pagò per il mancato allarme, che sarebbe dovuto seguire alle rivelazioni dell’ambiguo Bou Chebel Ghassan: una strage annunciata che, come per via D’Amelio, segnò la resa incondizionata di uno Stato incapace di proteggere i suoi uomini migliori.
A impreziosire il libro anche le pagine del diario privato del magistrato, pubblicate anche in versione autografa. Un diario che quando fu pubblicato da “L’Espresso” innescò furibonde polemiche, a partire dai giudizi dati sui suoi colleghi, compromessi alcuni, ma insospettabili altri, come lo stesso Falcone. Ulteriore merito di De Pasquale e Iannelli è quello di aver riportato alla luce il fascicolo processuale a carico dell’ex presidente della Corte d’Assise d’Appello di Messina, Giuseppe Recupero. Sul dibattimento retto allora da Recupero gravò il sospetto di un aggiustamento, attuato mediante la corruzione del giudice, per arrivare all’assoluzione dei fratelli Greco quali mandanti della strage di via Pipitone Federico. Inizialmente l’inchiesta fu trasferita a Reggio Calabria, ma dopo la dichiarazione di incompetenza, venne successivamente incardinata a Palermo. Per oltre quindici anni del fascicolo si perse ogni traccia, fino alle ricerche dei due autori del libro, che hanno portato alla riapertura del caso da parte della Procura della Repubblica. Nel frattempo, però, il principale indiziato, il giudice Recupero, è morto da cinque anni..
Il libro si chiude con la testimonianza dell’impegno civile di Rocco Chinnici, il primo magistrato a capire che nel dialogo con le nuove generazioni vi era una possibilità di affrancamento delle stesse dalla cultura mafiosa. Ecco perché si spese fino all’ultimo per incontrare studenti e liceali, per metterli in guardia dal pericolo fascino esercitato dalla mafia e dai pericoli insiti nelle sostanze stupefacenti, distribuite dalle cosche. «Non è tutto vero – sosteneva Chinnici – quel che si dice sulla mafia. Non è vero che sia così estesa. Non è vero che sia così potente. Non è vero infine che abbia creato una mentalità, un comportamento, un costume. Quindi non ritengo affatto giustificata l’opinione di taluni studiosi, specie stranieri, i quali dicono che il siciliano è mafioso. […] La gente non vuole la mafia. I giovani non vogliono la mafia.. ». Una profonda fiducia nel cambiamento possibile animò fino all’ultimo il consigliere istruttore. Trent’anni dopo questa sua incrollabile fiducia nella possibilità di sconfiggere la violenza mafiosa è il suo lascito più luminoso.
Liberainformazione - Un modo ironico ma forzato per esorcizzare la paura di quei giorni, evocando l’immagine di uomo, pur di difendersi, pronto a ricorrere alla violenza, quanto invece di più lontano alla sua indole. Il consigliere istruttore fu strappato alla famiglia dall’autobomba che Cosa nostra piazzò sotto casa, senza alcuna possibilità di reazione da parte degli uomini della scorta, sorpresi dalla terribile deflagrazione. Insieme a lui, infatti, venerdì 29 luglio 1983 morirono due carabinieri, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Sono passati ormai trent’anni da quella calda mattina palermitana, quando Cosa nostra impresse una svolta stragista alla sua strategia d’attacco allo Stato: «Palermo come Beirut» intitolarono i quotidiani dell’epoca, quasi sorpresi dalla capacità militare delle cosche. Sono passati ormai trent’anni e di Rocco Chinnici si è scritto e detto meno di quanto si sarebbe dovuto scrivere e dire, anche per comprendere meglio quello che sarebbe avvenuto dopo nove anni, a Capaci e via D’Amelio, quando a saltare per aria furono i suoi allievi Falcone e Borsellino.
Ecco perché “Così non si può vivere” di Fabio De Pasquale ed Eleonora Iannelli è un libro prezioso, perché colma un vuoto di informazione imperdonabile e lo fa con dovizia di particolari e documentazione. A partire dal racconto dei famigliari, degli amici e dei colleghi, si ricostruisce la storia di un uomo e l’insegnamento di un magistrato che tracciò la rotta delle future intuizioni e degli indiscutibili successi del pool dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, da lui fondato ma poi guidato da Nino Caponnetto. Un gruppo di giudici che ruppero con la tradizione di un Palazzo di Giustizia, fin troppo sonnolento e più sensibile alle richieste della politica e dell’economia che alla domanda di giustizia, in un contesto dove i poteri criminali erano un fattore di pesante inquinamento.
Chinnici e i suoi con pazienza iniziarono a connettere fili altrimenti isolati, a ricostruire il passaggio delle ricchezze mafiose, arrivando alla “zona grigia”, ai santuari inviolabili, come quelli retti dagli esattori di Salemi, i i cugini Salvo, legati al sistema di potere democristiano allora dominante. Il giudice insisteva per accomunare in un unico filone i mandanti e gli esecutori degli omicidi eccellenti che, negli anni precedenti, avevano insanguinato le strade di Palermo: da Pier Santi Mattarella a Gaetano Costa, da Pio La Torre a Carlo Alberto dalla Chiesa. Le sue intuizioni troveranno poi conferma nell’ordinanza istruttoria del primo maxiprocesso alle cosche. Sicuramente la sua determinazione contribuì al suo progressivo isolamento, come testimoniato dai figli di Chinnici: «Papà fu lasciato solo, offerto ai suoi carnefici». Nessuno pagò per il mancato allarme, che sarebbe dovuto seguire alle rivelazioni dell’ambiguo Bou Chebel Ghassan: una strage annunciata che, come per via D’Amelio, segnò la resa incondizionata di uno Stato incapace di proteggere i suoi uomini migliori.
A impreziosire il libro anche le pagine del diario privato del magistrato, pubblicate anche in versione autografa. Un diario che quando fu pubblicato da “L’Espresso” innescò furibonde polemiche, a partire dai giudizi dati sui suoi colleghi, compromessi alcuni, ma insospettabili altri, come lo stesso Falcone. Ulteriore merito di De Pasquale e Iannelli è quello di aver riportato alla luce il fascicolo processuale a carico dell’ex presidente della Corte d’Assise d’Appello di Messina, Giuseppe Recupero. Sul dibattimento retto allora da Recupero gravò il sospetto di un aggiustamento, attuato mediante la corruzione del giudice, per arrivare all’assoluzione dei fratelli Greco quali mandanti della strage di via Pipitone Federico. Inizialmente l’inchiesta fu trasferita a Reggio Calabria, ma dopo la dichiarazione di incompetenza, venne successivamente incardinata a Palermo. Per oltre quindici anni del fascicolo si perse ogni traccia, fino alle ricerche dei due autori del libro, che hanno portato alla riapertura del caso da parte della Procura della Repubblica. Nel frattempo, però, il principale indiziato, il giudice Recupero, è morto da cinque anni..
Il libro si chiude con la testimonianza dell’impegno civile di Rocco Chinnici, il primo magistrato a capire che nel dialogo con le nuove generazioni vi era una possibilità di affrancamento delle stesse dalla cultura mafiosa. Ecco perché si spese fino all’ultimo per incontrare studenti e liceali, per metterli in guardia dal pericolo fascino esercitato dalla mafia e dai pericoli insiti nelle sostanze stupefacenti, distribuite dalle cosche. «Non è tutto vero – sosteneva Chinnici – quel che si dice sulla mafia. Non è vero che sia così estesa. Non è vero che sia così potente. Non è vero infine che abbia creato una mentalità, un comportamento, un costume. Quindi non ritengo affatto giustificata l’opinione di taluni studiosi, specie stranieri, i quali dicono che il siciliano è mafioso. […] La gente non vuole la mafia. I giovani non vogliono la mafia.. ». Una profonda fiducia nel cambiamento possibile animò fino all’ultimo il consigliere istruttore. Trent’anni dopo questa sua incrollabile fiducia nella possibilità di sconfiggere la violenza mafiosa è il suo lascito più luminoso.
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