sabato, agosto 31, 2013
“Credo nei mass media”: quella frase, buttata lì, tra una domanda ed una denuncia da Libero Grassi nell’intervista a Samarcanda dell’11 aprile 1991, è passata quasi inosservata, coperta dalla forza della tragedia,dopo il suo assassinio di 22 anni fa. Eppure in quella frase c’era una denuncia fortissima ed una speranza tenue.

Liberainformazione - Libero Grassi, che aveva rifiutato di pagare il pizzo, denunciava, affidandosi ai giornali ed alla TV, il suo isolamento a Palermo, tra i suoi colleghi commercianti ed imprenditori, ma anche nella società civile. Se ne è ben accorto l’ex presidente della Confindustria siciliana, Ivan Lo Bello, nell’anniversario del 2011, quando chiese pubblicamente scusa alla famiglia di Libero Grassi, per quell’isolamento di 20 anni prima. Era solo: non soltanto nel rifiutare il “pizzo” a quello “zio Stefano” che lo chiamava per offrire “protezione” alla sua azienda tessile in cambio di quella tangente mensile che tutti pagavano (e in molti continuano a pagare) a Palermo. Ancor più solo era Libero Grassi nel voler denunciare quelle richieste, considerate, allora certamente più di oggi, normali dalla maggioranza dei commercianti ed imprenditori della sua città, nel complice assenso delle associazioni di categoria.

E nell’incertezza anche della magistratura siciliana, cui apparteneva quel giudice che Libero Grassi citò nella sua intervista a Samarcanda, denunciano le parole del magistrato, il quale, pur considerando abominevole il pagamento del pizzo, aveva dichiarato ad un giornale che se tutti avessero denunciato o si fossero ribellati, si sarebbe distrutta l’industria siciliana. “Se tutti si comportassero come me,non si distruggono le aziende, ma gli estorsori” aveva detto invece Libero Grassi, aggiungendo: “Io non sono pazzo a denunciare, io non pago perché non voglio dividere le mie scelte con i mafiosi… Perché io ho fatto semplicemente il mio mestiere di mercante. C’è un mercato? Bene, io non posso cedere le mie decisioni imprenditoriali alla criminalità”. Perché, da imprenditore, uomo politico e di cultura, Libero Grassi aveva ben compreso che pagare il pizzo significava mettersi nelle mani dei mafiosi, osservare non solo le scelte di Cosa Nostra, ma anche condividerne i metodi violenti, l’economia nera ed occulta. E non essere più uomo libero.

“E’ una questione di dignità”, aveva concluso Libero Grassi in quella intervista, che segnò ulteriormente il suo destino. Perché, nonostante la tenue speranza che dallo Stato come dalla società palermitana venisse un moto d’orgoglio e di ribellione, dopo le sue denuncia ai giornali ed alle TV aumentarono viceversa isolamento e dileggio. Ma che si è messo in testa questo qui? Aveva commentato qualcuno dei suoi colleghi già il 10 gennaio di quel 1991, quando Libero Grassi scrisse in prima pagina, sul “Giornale di Sicilia” la sua prima denuncia pubblica: “Caro estorsore”. Aveva scritto: “Volevo avvertire il nostro ignoto estorsore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere.. Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al ‘Geometra Anzalone’ e diremo no a tutti quelli come lui”.

Era una sfida aperta alla mafia, da un uomo che si chiamava Libero in onore di Giacomo Matteotti. Nato a Catania da famiglia antifascista aveva studiato a Roma e Palermo: voleva diventare diplomatico ,ma alla fine aveva seguito le orme del padre commerciante, prima a Gallarate e poi dal 1961 a Palermo, dove aveva aperto uno stabilimento tessile, per dare speranza ad un futuro industriale anche in Sicilia. Era uomo politico, attivo nel Partito Repubblicano ; scriveva sui giornali ma soprattutto amava la libertà di impresa e la libertà da ogni condizionamento. La sua sfida fu anche un affronto a Cosa Nostra; perché significava una ribellione ad uno “status quo” consolidato negli anni, con una convivenza tacita ed accettata tra mafia, economia e politica. Per questo la sua sfida era un pericolo per la mafia; Libero Grassi aveva rotto il muro dell’omertà e del silenzio. Fu l’inizio di un percorso. Ma l’isolamento cui andò incontro circondò progressivamente lui e la sua famiglia: quando fu ucciso,il 29 agosto 1991, si stava recando a piedi alla sua azienda, con quelli eleganti sandali di cuoio,diventati un simbolo,unico segno visibile del suo corpo martoriato da 4 devastanti colpi di pistola sotto quel lenzuolo bianco ,macchiato di sangue . Era solo, senza scorta; solo in una città che non aveva capito o non voleva capire. Capirono subito Falcone e Borsellino il senso del suo sacrificio: capimmo anche noi giornalisti in quella stagione nella quale i giornali e telegiornali cominciarono ad aprirsi alla società, alle lotte contro la mafia. Come non ricordare la serata dedicata proprio a Libero Grassi che Michele Santoro e Maurizio Costanzo del 26 settembre 1991, momento straordinario di televisione e di comunicazione che segnò quel risveglio sociale che poi esplose dopo i tragici attentati di Capaci e Via D’Amelio.

Capirono soprattutto i commercianti di Capo D’Orlando, che incominciarono quella ribellione al pizzo, in nome del sacrificio di Libero Grassi, che li portò a fondare la prima associazione antiracket,avendo capito, Tano Grasso per primo, che solo l’unione degli imprenditori e commercianti nella denuncia personale e collettiva come associazione, metteva con le spalle al muro la mafia ed il racket. Un insegnamento ancora valido quello di Libero Grassi. Anzi: oggi più forte che mai, perché, 22 anni dopo quell’orrendo omicidio, il pizzo continua ad essere pagato. Ma contemporaneamente, sono nate tante associazioni,dalla prima Fai di Capo D’Orlando ad Addio Pizzo di Palermo, senza dimenticare i commercianti di Gela, di Napoli, di Roma o Catania che si sono organizzati ,con la Confesercenti ,arrivando ai protocolli per la legalità,primo fra tutti quello voluto da Ivan Lo Bello che, da leader della Confindustria in Sicilia, ha portato nel 2007 all’approvazione del codice etico che recita: “Gli imprenditori associati adottano quale modello comportamentale la non sottomissione a qualunque forma di estorsione, usura o ad altre tipologie di reato poste in essere da organizzazioni criminali e/o mafiose. Gli imprenditori associati sono fortemente impegnati a chiedere la collaborazione delle forze dell’ordine e delle istituzioni preposte, denunciando direttamente o con l´assistenza del sistema associativo, ogni episodio di attività direttamente o indirettamente illegale di cui sono soggetti passivi”.

Ma dopo la legge che favorisce la denuncia e quella contro l’Usura, i troppi ritardi burocratici, l’esiguità dei fondi a disposizione e soprattutto l’assenza ancora di un comune e diffuso sentimento comune di legalità e senso dei diritti-doveri del cittadini, fanno ancora sopravvivere quel racket che fa da base e da sfondo alle organizzazioni mafiose. E quindi torna attuale l’esempio di Libero Grassi: la forza dell’antimafia consiste nell’unione delle forze, delle intelligenze, delle denunce e del riscatto di tutti i cittadini, contro le intimidazioni e le richieste di estorsione. Sta alle istituzioni ed alla politica favorire le denunce e la ricerca della legalità, con leggi apposite e senza abbassare l’impegno politico.

E sta poi a noi tutti, giornalisti e persone del mondo dell’informazione, saper capire come e quando tenere i riflettori accesi su questi fenomeni, spiegare il pericolo del racket e l’importanza dell’antiracket, fare da legame tra l’opinione pubblica tutta e le associazioni,i commercianti ed imprenditori che si ribellano alle mafie . Per dare fiducia a quella frase di Libero Grassi: “Credo nei media”.

Per lui non arrivammo in tempo ad esaudire quella sua speranza. Oggi in suo nome dobbiamo aprire le telecamere, gli occhi, i giornali ed i microfoni a chi si ribella per costruire quel fronte unito che può finalmente far finire la lunga storia sanguinaria delle estorsioni, dei racket e delle connivenze mafiose.

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