domenica, agosto 11, 2013
Ha destato clamore, in questi giorni, la vendita del “Washington Post” al fondatore del collosso digitale "Amazon", Jeffrey Bezos, per la cifra di 250 milioni di dollari

Radio Vaticana - La storica testata statunitense passa dunque dalla famiglia Graham ad uno degli uomini di punta del mondo del web. Si tratta di un esempio di integrazione dei media, sempre più forte. A sottolinearlo è il mass-mediologo Mario Morcellini, intervistato da Alessandro Gisotti:
R. – Non è vero che è la Rete a mangiarsi la carta stampata, per una ragione che i numeri rendono assolutamente inequivocabile: la piena integrazione tra informazione tradizionale e i linguaggi della Rete è l’unica che dà risultati positivi. In passato i giornali cartacei hanno pensato in qualche misura di salvarsi con una piccola “vetrinizzazione” di quello che già facevano nel cartaceo. Quella si è rivelata un’esperienza fallimentare, non meno di quella della politica italiana di esportare sulla Rete i vecchi linguaggi e il vecchio tradizionalismo del mainstream. Ciò che è decisivo, invece, è quella che ho chiamato “piena integrazione” e il cambio di linguaggio. L’informazione si salva, infatti, se in qualche modo smaterializza il “difficilese”, il “politichese” dei propri linguaggi e cambia cosmologia, cambia interessi culturali, propri e dei lettori.

D. – Questo – pensiamo anche ai social network – ha qualcosa da dire molto agli operatori dell’informazione...
R. – Ci vuole una vera e propria rivoluzione culturale, bisogna dirlo. Il giornalismo è abituato a far riferimento a pochi soggetti sociali, spesso alle élite e ai più forti e potenti. La Rete ha affermato un tipo di antropologia diversa e, va detto, la Rete è lo strumento più democratico che noi conosciamo: porta alla ribalta soggetti che a volte diventano anche giornalisti, ma che comunque sono narratori e impongono un’agenda e una priorità di temi radicalmente diversa dagli editorialisti e dai pastoni del vecchio quotidiano. E’ chiaro, quindi, che l’elettroshock culturale è davvero un’operazione inevitabile. Bisogna che gli operatori dei media sentano profondamente il cambiamento del mondo, perché se non lo sentono, purtroppo, andranno alla deriva.

D. – Non è un caso ovviamente che queste cose che vediamo vengano dagli Stati Uniti...
R. – Non è un caso per due motivi: l’innovazione lì è più rapida e, secondo elemento, è un Paese intimamente democratico, in cui l’elitismo che è caratteristico di tutte le società moderne è corretto da una forte vena missionaria di ispirazione, comunque, cristiana, anche se non necessariamente cattolica. E, dunque, è in quel Paese che la Rete viene più presa sul serio che in altri Paesi del mondo. Non è un caso che da lì vengano lezioni sia di democrazia sia di radicale innovazione comunicativa, persino in un mondo un po’ snob come quello del giornalismo.

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