sabato, settembre 07, 2013
Dal Panchem Lama all'attivista laotiano, sono migliaia le persone segregate perché considerate una "minaccia" da istituzioni e governi. Per gli attivisti i casi denunciati sono solo la punta dell'iceberg, ma la realtà è ben peggiore. I governi negano il problema e solo quattro nazioni hanno ratificato i trattati internazionali.

Bangkok (AsiaNews/Agenzie) - Un tratto comune unisce il Panchem Lama Gedhun Choekyi Nyima in Tibet, il presidente dell'Associazione avvocati musulmani in Thailandia e un attivista per i diritti dei contadini in Laos. Sono vittime dei cosiddetti "sequestri di Stato", prelevati e mantenuti in stato di segregazione in luoghi nascosti e sconosciuti perché rappresentano figure "sensibili" a livello politico e religioso, o per la loro battaglia pro diritti umani. Col passare del tempo si fanno sempre più scarne le possibilità di ottenere giustizia per i "detenuti di Stato" e i loro familiari, a dispetto di una pratica aberrante che si diffonde sempre più in tutto il continente asiatico. Aileen Bacalso, segretario generale di Asian Federation Against Disappearances (Afad), associazione che si occupa dei casi di sparizioni, conferma il fenomeno: "L'Asia, il continente più vasto in termini di territorio e popolazione, ha registrato il più alto numero di casi recenti". Inoltre, i sequestri accertati sono di gran lunga inferiori ai dati reali, soprattutto nei Paesi in cui vi è al potere un regime repressivo o teatro di conflitti armati.

In realtà, secondo gli attivisti sarebbero decine di migliaia i casi di "sparizioni" in Asia ma solo una piccolissima parte viene documentata, per il timore di ritorsioni delle autorità. Nel rapporto 2012 del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite, tra le nazioni asiatiche lo Sri Lanka ha registrato 5.676 casi "eccellenti e documentati", le Filippine 621, il Nepal 458, Timor Est 428, India 353, Indonesia 162, Pakistan 99, Thailandia 71, Cina 30 e Corea del Nord 20. Casi, secondo l'Onu, che costituiscono "la punta dell'iceberg".

In Tibet, il Panchem Lama aveva solo sei anni quanto è stato prelevato dalle autorità cinesi; era il 1995 e da allora non si hanno avuto più notizie della seconda carica religiosa del buddismo tibetano. Tuttavia, secondo gruppi attivisti della zona vi sarebbero ancora centinaia di monaci, attivisti e laici nelle mani della polizia di Pechino, che applica gli stessi metodi per reprimere il dissenso interno e nelle regioni autonome teatro di scontri etnici, come lo Xinjiang musulmano. Nazioni del Sud-est asiatico come Thailandia, Indonesia, Filippine e Laos sono anch'esse nel mirino di attivisti e gruppi pro diritti umani. Dalle sparizioni forzate ordinate da Jakarta durante la dittatura del generale Suharto negli anni '90, al più recente caso del vincitore del Nobel asiatico laotiano Sombath Somphone, dal dicembre scorso nelle mani delle autorità di Vientiane.

Per gli attivisti e i gruppi che si battono per la liberazione dei "desaparecidos" il problema maggiore è costituito dal fatto che i governi del continente negano il problema, affermando che non vi sono casi di sparizioni forzate. E solo quattro Paesi - Giappone, Kazakistan, Iraq e Cambogia - hanno ratificato la convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dai "sequestri di Stato". L'Onu auspica un passaggio dall'epoca dell'impunità a quella della responsabilità per i governi, mentre le famiglie pregano e sperano che i loro congiunti possano fare presto ritorno a casa.

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