“La presenza di Dio non mi ha mai abbandonato”. Così Domenico Quirico, inviato de La Stampa, racconta ai nostri microfoni i 152 giorni di prigionia in Siria. Ieri, il premier italiano, Enrico Letta, parlando alla Camera della difficile situazione siriana ha ricordato il cronista e il gesuita padre Paolo dall’Oglio, ancora in mano ai gruppi armati. Tra le fila dei sequestrati, figurano anche due vescovi di Aleppo, due sacerdoti e oltre 24 giornalisti, tra siriani e straneri. Massimiliano Menichetti ha raccolto la testimonianza di Domenico Quirico:
Radio Vaticana - R. – Diciamo che la cosa che mi ha più colpito – e ho avuto anche altre esperienze di sequestri in altre parti del mondo – è la totalità del male, che è come se Dio avesse consegnato al diavolo questo Paese, dicendogli: “Questo Paese è tuo: fanne quello che vuoi! E tutti quelli che vi entreranno, io non li aiuterò più”. A un certo punto, io ho pensato questo: la totalità del male. Io non ho mai provato in nessun altro posto, nello stesso modo, nella stessa misura, nella stessa tremenda completezza, l’assolutezza della mancanza di pietà, di compassione, di rispetto per l’altro che soffre.
D. – Che cosa ha mosso, secondo te, il tuo rapimento, il vostro rapimento?
R. – Un’orribile cosa che si chiama avidità: null’altro. Nessuna motivazione ideologica, neppure esasperata, folle, nessun fanatismo. Semplicemente la vecchia, antica, lercia, avidità umana.
D. – Nel tuo lungo pezzo sulla “Stampa” scrivi: “In tutta questa esperienza, c’è molto Dio”. Che cosa vuoi dire?
R. – Voglio dire, che fortunatamente, essendo io credente, avevo accanto a me qualcosa che non mi ha mai abbandonato, neppure quando per alcuni momenti ho sentito l’assenza di Dio: ed è la presenza di Dio, l’atto semplicissimo del pregare. Questa è stata presente per tutti i 152 giorni della mia detenzione: Dio era là, la fede era lì, in molti modi, non mi ha mai abbandonato.
D. – Hai avuto la pistola puntata alla tempia, senza sapere se avrebbero sparato: che cosa hai pensato, in quei momenti?
R. – Non so se hai letto il racconto che Dostojevski fa della stessa esperienza che aveva subito dopo la rivoluzione decabrista... La cosa che colpisce di più è l’orribile sensazione di piacere che un altro essere umano prova a farti paura. Prova piacere ad annusare, toccare la tua paura. E questo provoca, da un lato, angoscia e dall’altro lato una rabbia terribile: ti vergogni di aver paura di fronte a quell’uomo che ti minaccia con la pistola.
D. – Due finte esecuzioni, due fughe. Siete stati trattati male. Mangiavi avanzi, dovevi chiedere per ogni cosa. In un’intervista hai detto che non hai rancore nei confronti dei tuoi carcerieri: come è possibile?
R. – Ci sono due vie che si possono seguire, dopo un’esperienza del genere: l’una è la via dell’odio, della rabbia, della voglia di vendetta, che forse è la più facile, la più semplice, lastricata di meno ostacoli, la si può imboccare facilmente: non è difficile. E’ gente che mi ha rubato cinque mesi di esistenza, cinque mesi di sentimenti, di passioni, di amori, di cose che potevo fare e che non potevo fare, di cose che non ho visto e non vedrò mai più, che non potrò più recuperare in alcun modo. La seconda via è quella del perdono: è la più complicata, la più complessa, credo impraticabile. Bisogna essere santi: io non sono un santo. Però, imboccare la via dell’odio è un errore, perché trasformerebbe il male che queste persone mi hanno fatto in qualche cosa di permanente. Cioè, sarei un uomo peggiore di quello che ero prima di questa esperienza e sarebbe in una certa misura il modo in cui questa gente, che mi ha sequestrato, continuerebbe ad avermi nelle sue spire, nelle sue unghie, nei suoi artigli.
D. – Nel tuo secondo tentativo di fuga, sei riuscito a prendere un kalashnikov e una granata, però non li hai usati…
R. – Non lo so, francamente, se sarei stato in grado di utilizzare la granata, perché avrebbe significato ammazzare una persona. Io non penso di essere in grado di farlo, neppure in una situazione così estrema. Mettiamola in questo modo: sono felice di non aver lanciato quella granata.
D. – Dici: “Pier Piccinin ed io eravamo due credenti”. Vi siete incontrati nella fede?
R. – Questo sì, molte volte, anche se la nostra fede è molto diversa. La mia è una fede molto semplice, di quando ero bambino, delle preghiere che recitavo quando piccolo, maturata incontrando i sacerdoti di campagna, quando andavo a trovare mia nonna in vacanza, d’estate, in campagna. Come dico sempre, spingevano la bicicletta d’inverno nelle strade innevate, d’estate nella polvere dei campi, per andare a portare l’estrema unzione, la benedizione di Pasqua… Sacerdoti di Bernanos che magari non ne sapevano molto di teologia, ma la cui fede era granitica, che non esitava, che non aveva paura. La mia fede è molto semplice: è darsi, affidarsi, concedersi. La fede di Pier Piccinin è una fede più complicata, è un patto con Dio, la fede di Abramo… Ci siamo ritrovati nella preghiera, nella speranza, qualche volta anche nella sensazione che Dio ci avesse abbandonati, che fossimo soli: perché c’è stato anche quello. Ci siamo salvati perché eravamo in due, altrimenti saremmo impazziti.
D. – Che idea ti sei fatto della situazione siriana?
R. – Penso che in questo momento la Siria sia un Paese perduto. Perduto per l’umanità, per l’uomo. Perduto – ahimé – credo per molto tempo. Tra poco, forse da oggi, non si potrà più raccontarla, non si potrà più andarci. Non è soltanto un problema di tipo giornalistico: è un problema di assenza della testimonianza. La Siria esce dalla storia ed entra nelle spire di qualche cosa di terribile, tremendo… La storia di questo Paese, la rivoluzione mi ha un po’ tradito. Io ho creduto nella rivoluzione siriana, nei suoi giovani eroi, nei ragazzi di Aleppo, nei contadini del Jebel, di Idlib, che si battevano contro la dittatura… Adesso, tutto questo non esiste più: la primavera siriana è morta, è stra-morta. Ci sono i banditi e i fanatici, ci sono combattenti ribelli che pregano cinque volte al giorno, in cui l’invocazione a Dio è sempre lì, in cui i muezzin urlano l’appello alla preghiera ovunque, in cui prima della battaglia i combattenti si mettono in lunghe schiere con due kalashnikov imbracciato imboccano la loro via per la vittoria… Ed è il Paese in cui Dio è più lontano, in cui si fanno le cose più contrarie. I miei carcerieri pregavano a un metro da me ed erano gli stessi che poi mi gettavano il cibo come ad un cane o che mi picchiavano come una bestia.
D. – Tornerai in zone di crisi?
R. – Il mio concetto di giornalismo è semplice come la mia fede: cioè, scrivere ciò che uno vede, essere presenti laddove l’uomo soffre. Raccontare il dolore è una cosa molto complicata, che richiede molta onestà, e la prima onestà è di vederlo e condividerlo. Non si racconta chi soffre se non soffri anche tu. Allora, o lo faccio in questo modo o faccio un altro mestiere.
D. – Tutti noi ti stiamo chiedendo tante cose. C’è invece qualcosa che tu vorresti dire?
R. – Di non dimenticare le persone che sono ora nella stessa condizione in cui ero fino a domenica scorsa, perché la cosa più tremenda è l’idea di essere soli.
Radio Vaticana - R. – Diciamo che la cosa che mi ha più colpito – e ho avuto anche altre esperienze di sequestri in altre parti del mondo – è la totalità del male, che è come se Dio avesse consegnato al diavolo questo Paese, dicendogli: “Questo Paese è tuo: fanne quello che vuoi! E tutti quelli che vi entreranno, io non li aiuterò più”. A un certo punto, io ho pensato questo: la totalità del male. Io non ho mai provato in nessun altro posto, nello stesso modo, nella stessa misura, nella stessa tremenda completezza, l’assolutezza della mancanza di pietà, di compassione, di rispetto per l’altro che soffre.
D. – Che cosa ha mosso, secondo te, il tuo rapimento, il vostro rapimento?
R. – Un’orribile cosa che si chiama avidità: null’altro. Nessuna motivazione ideologica, neppure esasperata, folle, nessun fanatismo. Semplicemente la vecchia, antica, lercia, avidità umana.
D. – Nel tuo lungo pezzo sulla “Stampa” scrivi: “In tutta questa esperienza, c’è molto Dio”. Che cosa vuoi dire?
R. – Voglio dire, che fortunatamente, essendo io credente, avevo accanto a me qualcosa che non mi ha mai abbandonato, neppure quando per alcuni momenti ho sentito l’assenza di Dio: ed è la presenza di Dio, l’atto semplicissimo del pregare. Questa è stata presente per tutti i 152 giorni della mia detenzione: Dio era là, la fede era lì, in molti modi, non mi ha mai abbandonato.
D. – Hai avuto la pistola puntata alla tempia, senza sapere se avrebbero sparato: che cosa hai pensato, in quei momenti?
R. – Non so se hai letto il racconto che Dostojevski fa della stessa esperienza che aveva subito dopo la rivoluzione decabrista... La cosa che colpisce di più è l’orribile sensazione di piacere che un altro essere umano prova a farti paura. Prova piacere ad annusare, toccare la tua paura. E questo provoca, da un lato, angoscia e dall’altro lato una rabbia terribile: ti vergogni di aver paura di fronte a quell’uomo che ti minaccia con la pistola.
D. – Due finte esecuzioni, due fughe. Siete stati trattati male. Mangiavi avanzi, dovevi chiedere per ogni cosa. In un’intervista hai detto che non hai rancore nei confronti dei tuoi carcerieri: come è possibile?
R. – Ci sono due vie che si possono seguire, dopo un’esperienza del genere: l’una è la via dell’odio, della rabbia, della voglia di vendetta, che forse è la più facile, la più semplice, lastricata di meno ostacoli, la si può imboccare facilmente: non è difficile. E’ gente che mi ha rubato cinque mesi di esistenza, cinque mesi di sentimenti, di passioni, di amori, di cose che potevo fare e che non potevo fare, di cose che non ho visto e non vedrò mai più, che non potrò più recuperare in alcun modo. La seconda via è quella del perdono: è la più complicata, la più complessa, credo impraticabile. Bisogna essere santi: io non sono un santo. Però, imboccare la via dell’odio è un errore, perché trasformerebbe il male che queste persone mi hanno fatto in qualche cosa di permanente. Cioè, sarei un uomo peggiore di quello che ero prima di questa esperienza e sarebbe in una certa misura il modo in cui questa gente, che mi ha sequestrato, continuerebbe ad avermi nelle sue spire, nelle sue unghie, nei suoi artigli.
D. – Nel tuo secondo tentativo di fuga, sei riuscito a prendere un kalashnikov e una granata, però non li hai usati…
R. – Non lo so, francamente, se sarei stato in grado di utilizzare la granata, perché avrebbe significato ammazzare una persona. Io non penso di essere in grado di farlo, neppure in una situazione così estrema. Mettiamola in questo modo: sono felice di non aver lanciato quella granata.
D. – Dici: “Pier Piccinin ed io eravamo due credenti”. Vi siete incontrati nella fede?
R. – Questo sì, molte volte, anche se la nostra fede è molto diversa. La mia è una fede molto semplice, di quando ero bambino, delle preghiere che recitavo quando piccolo, maturata incontrando i sacerdoti di campagna, quando andavo a trovare mia nonna in vacanza, d’estate, in campagna. Come dico sempre, spingevano la bicicletta d’inverno nelle strade innevate, d’estate nella polvere dei campi, per andare a portare l’estrema unzione, la benedizione di Pasqua… Sacerdoti di Bernanos che magari non ne sapevano molto di teologia, ma la cui fede era granitica, che non esitava, che non aveva paura. La mia fede è molto semplice: è darsi, affidarsi, concedersi. La fede di Pier Piccinin è una fede più complicata, è un patto con Dio, la fede di Abramo… Ci siamo ritrovati nella preghiera, nella speranza, qualche volta anche nella sensazione che Dio ci avesse abbandonati, che fossimo soli: perché c’è stato anche quello. Ci siamo salvati perché eravamo in due, altrimenti saremmo impazziti.
D. – Che idea ti sei fatto della situazione siriana?
R. – Penso che in questo momento la Siria sia un Paese perduto. Perduto per l’umanità, per l’uomo. Perduto – ahimé – credo per molto tempo. Tra poco, forse da oggi, non si potrà più raccontarla, non si potrà più andarci. Non è soltanto un problema di tipo giornalistico: è un problema di assenza della testimonianza. La Siria esce dalla storia ed entra nelle spire di qualche cosa di terribile, tremendo… La storia di questo Paese, la rivoluzione mi ha un po’ tradito. Io ho creduto nella rivoluzione siriana, nei suoi giovani eroi, nei ragazzi di Aleppo, nei contadini del Jebel, di Idlib, che si battevano contro la dittatura… Adesso, tutto questo non esiste più: la primavera siriana è morta, è stra-morta. Ci sono i banditi e i fanatici, ci sono combattenti ribelli che pregano cinque volte al giorno, in cui l’invocazione a Dio è sempre lì, in cui i muezzin urlano l’appello alla preghiera ovunque, in cui prima della battaglia i combattenti si mettono in lunghe schiere con due kalashnikov imbracciato imboccano la loro via per la vittoria… Ed è il Paese in cui Dio è più lontano, in cui si fanno le cose più contrarie. I miei carcerieri pregavano a un metro da me ed erano gli stessi che poi mi gettavano il cibo come ad un cane o che mi picchiavano come una bestia.
D. – Tornerai in zone di crisi?
R. – Il mio concetto di giornalismo è semplice come la mia fede: cioè, scrivere ciò che uno vede, essere presenti laddove l’uomo soffre. Raccontare il dolore è una cosa molto complicata, che richiede molta onestà, e la prima onestà è di vederlo e condividerlo. Non si racconta chi soffre se non soffri anche tu. Allora, o lo faccio in questo modo o faccio un altro mestiere.
D. – Tutti noi ti stiamo chiedendo tante cose. C’è invece qualcosa che tu vorresti dire?
R. – Di non dimenticare le persone che sono ora nella stessa condizione in cui ero fino a domenica scorsa, perché la cosa più tremenda è l’idea di essere soli.
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