giovedì, ottobre 31, 2013
Passioni e umiliazioni raccontate in un antico alfabeto inventato dalle donne, ignorato dagli uomini e di recente studiato dai linguisti. 

di Paolo Di Mizio 

Una “lingua segreta delle donne”, inventata dalle antiche donne cinesi per comunicare tra loro senza essere capite dagli uomini. Da oltre vent’anni anni questa notizia periodicamente torna all’attenzione dei mass-media occidentali. Ogni volta viene “riscoperta” e ogni volta viene un po’ “romanzata”. Ma è una notizia parzialmente inesatta, anche se ciò nulla toglie al suo fascino e al suo alone di fiabesco. Sì, in Cina è esistita fino a tempi recenti una “lingua delle donne”. Ma non è vero che fosse una lingua “segreta” e tantomeno che fosse usata dalle donne esclusivamente per tenere gli uomini all’oscuro dei loro pensieri, delle loro trame, e soprattutto dei loro dolori.

La realtà è diversa. La “lingua delle donne” non è in effetti una lingua parlata ma solo un sistema di scrittura. E, come tutti i sistemi di scrittura, trasferiva in segni ortografici la lingua orale normalmente usata. In particolare stiamo parlando della regione dello Hunan, nella della Cina meridionale. La lingua Hunan era una variante del cinese Han, il quale poi divenne la lingua ufficiale della Cina.

Tale sistema di scrittura – e questo sì, è straordinario e senza paralleli in qualsiasi altra cultura – fu inventato esclusivamente da donne, e venne creato da loro perché a loro veniva negato l’accesso all’istruzione. I maschi potevano imparare a leggere e scrivere, mentre le femmine, esseri inferiori nell’antica società cinese (ma solo in quella?), non potevano frequentare le scuole ed essere alfabetizzate.

La stupefacente invenzione del nushu – così si chiama la “scrittura delle donne” – risalirebbe a circa 2.500 anni fa. Stando agli ultimi studi, questo sistema di scrittura femminile, trasmesso di madre in figlia, sarebbe sopravvissuto sino a tempi recenti. Una decina di anni fa si segnalavano in Cina tre donne ancora viventi, capaci di utilizzare il nushu appreso da bambine: una delle tre sarebbe ormai centenaria e le altre due avrebbero entrambe 74 anni d’età, ma non siamo in grado di dire se alcuna di loro sia ancora in vita.

Certo è che questo sistema di scrittura cadde in disuso dopo l’avvento al potere di Mao Tze Tung (o Mao Zedong come si scrive oggi). Il regime comunista, in nome della universalità della cultura, vietò l’uso del nushu. Le donne vennero ammesse nelle scuole, alla pari degli uomini, per apprendere la scrittura ufficiale cinese.

L’antica scrittura “delle donne” si restrinse dunque ad un utilizzo clandestino, sempre più raro, limitato alle generazioni più adulte, non più in età scolastica, e praticato soltanto nelle zone rurali più lontane e isolate. Col tempo, di fatto, il nushu si è estinto. Era esistito per 2.500 anni, tesoro nascosto di una cultura femminile e perciò “figlia di un dio minore”.

Risalgono a una cinquantina d’anni fa i primi, rari studi di linguistica dedicati al nushu, ad opera di studiosi cinesi. Ma è solo negli ultimi vent’anni, con l’apertura della Cina al nuovo corso del “capitalismo comunista”, che si è acceso un nuovo interesse per le tradizioni culturali e si sono moltiplicate le ricerche linguistiche rivolte a questo sistema di scrittura, il quale rappresenta una vera avventura dell’ingegno umano.

Nel 1989 per la prima volta i mass-media occidentali riportarono la notizia dell’esistenza in Cina di una “lingua segreta delle donne”. Come abbiamo detto, la notizia, in quei termini, era ed è inesatta, in quanto le donne dello Hunan non inventarono una lingua, ma si limitarono – e non è poco! – a creare un sistema di scrittura.

Ma la cosa forse più straordinaria di tutte, in questa straordinaria vicenda, è che quel sistema di scrittura – nella sua natura, nella concezione, nella genesi – fu radicalmente diverso dal sistema di scrittura “maschile”, cioè dalla scrittura ideografica utilizzata dalla cultura ufficiale dell’epoca.

Le donne dello Hunan, infatti, nell’inventare una scrittura, utilizzarono un sistema che oggi definiamo “sillabico”, dove ogni simbolo scritto rappresenta il suono di una sillaba.

La popolazione dello Hunan, invece, nella scrittura “ufficiale”, usava e aveva sempre usato la scrittura ideogrammattica, che è ancora oggi il sistema in uso in Cina. La differenza – profondissima – sta nel fatto che il sistema sillabico con un segno riproduce un suono, mentre nella scrittura per ideogrammi – diciamo così per semplificare – ogni simbolo rappresenta non un suono bensì un’idea, un concetto.

Esistono altri esempi di scrittura sillabica in varie zone del mondo e in varie epoche. Per esempio, il giapponese moderno ha una scrittura sillabica. Ed è di tipo sillabico anche la “lineare B”, scrittura usata nell’antica Creta e mai decifrata.

Noi europei usiamo invece un sistema di scrittura alfabetico, dove ogni simbolo scritto rappresenta un singolo suono, di una singola vocale o consonante, ma non di una sillaba.

Ora, sia la scrittura sillabica sia la scrittura alfabetica erano totalmente sconosciute in Cina, nella regione dello Hunan, 2.500 anni fa. Le donne di quella regione e di quel tempo compirono dunque un prodigio di natura cognitiva e creativa. Del tutto ignare, realizzarono una vera e propria “rivoluzione culturale”.

E infine non è vero che il nushu, la scrittura delle donne, fosse una scritturra segreta. In realtà non poteva sfuggire agli uomini che le loro sorelle, mogli, figlie, comunicavano con quei segni scritti, e quindi essi erano perfettamente consapevoli dell’esistenza di quel codice.

Alcuni di loro se lo fecero insegnare, certamente, ma non ne approfondirono lo studio, e generalmente i maschi disdegnarono – considerandola “cosa inferiore”, “cosa di donne” – quella “piccola scrittura” composta di circa 700 simboli, non paragonabile – secondo i maschi dell’epoca – alla loro “grande scrittura” con sistema ideogrammatico composta di alcune migliaia di simboli.

Pertanto il nushu non fu una scrittura segreta e incomprensibile ai maschi: fu invece una scrittura nota ma “incompresa” dai maschi, per loro stessa incuria e sottovalutazione.

Quanto all’utilità per le donne di esprimersi con una scrittura a loro riservata, stava nel fatto che – tagliate fuori dall’istruzione e quindi dalla possibilità di comunicare per iscritto – esse sentirono il bisogno di uno strumento per trasmettersi i pensieri più intimi e raccontarsi a vicenda le poche gioie e i tanti dolori di una vita dura, in una società arcaica nella quale le donne venivano maritate da bambine a uomini che spesso non avevano mai visto prima e ai quali per tutta la vita avrebbero fatto da schiave nella casa e nel letto.

Tra i frammenti di scrittura nushu rintracciati dai linguisti, sono molti quelli che raccontano delle sofferenze femminili. E lo fanno spesso in versi (anche questa una stupefacente conferma dell’universalità della poesia). Ci narrano di episodi di vita reale, ci narrano di drammi, di esistenze infernali, di povere creature che vivevano soltanto per essere sfruttate, spemute, picchiate, umiliate.

Ci sono frammenti bellissimi, altamente poetici, che per certi aspetti ricordano i versi frammentati dei lirici greci.

Un frammento dice così: “Le mie cognate mi disprezzano / Da mangiare ho solo crusca / Con dell’acqua per farne una minestra / Mi costringono a fare tutti i lavori di casa”.

E un altro, bellissimo e terribile, dice: “Mio marito scommette al gioco / Mi dimentica per andare alle bische. / Non ne posso più di soffrire / Quando mi picchia e non posso fuggire. / Ho cercato di impiccarmi / Ma gli zii mi hanno fatto rinvenire”.


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