A due anni esatti dalla morte di Muhammar Gheddafi, la Libia è ancora alla ricerca di stabilità
Radio Vaticana - Divisioni interne, strapotere dei "signori della guerra" e commercio di armi fanno di questo Paese uno dei più pericolosi al mondo. E nonostante l’indifferenza della comunità internazionale e del mondo mediatico la violenza è pressoché quotidiana, anzi in aumento dopo il blitz del 5 ottobre di un commando statunitense, che ha portato alla cattura di Abu Anas al-Libi, considerato il leader di Al Qaeda in Libia. Sulla situazione attuale in cui versa il Paese nordafricano, Salvatore Sabatino ha intervistato Riccardo Redaelli, esperto di Paesi arabi dell’Università Cattolica di Milano, appena rientrato da Tripoli: ascolta
R. - E’ una situazione in forte peggioramento sia dal punto di vista della sicurezza, sia dal punto di vista della polarizzazione politica. In questi due anni il governo libico non è riuscito a dare stabilità e soprattutto non è riuscito a coinvolgere tutte le parti del nuovo sistema - quindi le milizie, i partiti islamisti, i vari partiti post-Ghedaffi - a lavorare per una nuova Costituzione assieme e per stabilizzare questo Paese.
D. - Gheddafi - al potere, lo ricordiamo, per 42 anni - nonostante tutti i problemi, era riuscito a mantenere l’unità del Paese. Oggi ci sono, invece, tutte queste divisioni e queste tensioni. Ma, secondo lei, sono più legate a motivazioni economiche o politiche?
R. - Un mix di motivazioni. Va detto che Gheddafi aveva sì tenuto assieme il Paese, ma ne aveva annichilito la burocrazia e l’amministrazione: aveva reso molto deboli le proprie forze militari. Oggi il fallimento del post-Gheddafi è soprattutto nell’incapacità di prendere le tante milizie che sono nate e riunirle in un’unica organizzazione statuale. E le varie milizie si fronteggiano, spesso taglieggiano, non rispettano il governo, non rispettano le forze armate regolari. Tutto ciò sta portando il Paese verso un’anarchia, aggravata dal fatto che in Libia tutti sono armati: si stimano 60 milioni di armi per 6 milioni di abitanti.
D. - Una situazione, dunque, davvero drammatica. Molti osservatori parlano di una grande responsabilità della Comunità internazionale che, al momento dell’attacco, fu unita nel dire “cerchiamo di eliminare Gheddafi”, ma che poi ha abbandonato questo Paese. Anche lei è d’accordo con quest’analisi?
R. - Sostanzialmente sì. La Comunità internazionale - come dire - è entrata, spinta da Francia e Gran Bretagna nella guerra contro Gheddafi, senza un piano preciso. Non si sono volute inviare truppe di terra e il tipo di assistenza fornita si è rivelata insufficiente; ma certo anche i libici hanno contribuito a questo stato di cose, con una rissosità fra i vari partiti, con spinte autonomiste o quasi secessioniste in varie parti del Paese. Del resto va detto che la Libia - come dire - non era abituata a gestirsi in modo democratico e non aveva un’amministrazione efficiente.
D. - Bisogna anche sottolineare che la Libia, tra l’altro, rappresenta un grave rischio anche per i Paesi limitrofi, a causa del commercio di armi che sta facendo entrare nel Paese guerriglieri e combattenti appartenenti alla galassia di al-Qaeda. Come si possono definire attualmente i rapporti tra la Libia e i Paesi confinanti?
R. - E’ difficile dirlo in pochi secondi: preoccupanti con l’Egitto, instabili con la Tunisia. In realtà il vero problema sono tutte le frontiere meridionali, che sono frontiere lunghissime migliaia di chilometri, nel deserto e impossibili da controllare. Non è solo la Libia che è in difficoltà, è tutto il Maghreb, ma anche l’Egitto e tutta l’Africa sub-sahariana, che fatica a contenere le tendenze estremiste del terrorismo islamista, i gruppi tribali in lotta fra di loro. In generale possiamo dire che la Libia è inserita in una regione in enorme difficoltà.
Radio Vaticana - Divisioni interne, strapotere dei "signori della guerra" e commercio di armi fanno di questo Paese uno dei più pericolosi al mondo. E nonostante l’indifferenza della comunità internazionale e del mondo mediatico la violenza è pressoché quotidiana, anzi in aumento dopo il blitz del 5 ottobre di un commando statunitense, che ha portato alla cattura di Abu Anas al-Libi, considerato il leader di Al Qaeda in Libia. Sulla situazione attuale in cui versa il Paese nordafricano, Salvatore Sabatino ha intervistato Riccardo Redaelli, esperto di Paesi arabi dell’Università Cattolica di Milano, appena rientrato da Tripoli: ascolta
R. - E’ una situazione in forte peggioramento sia dal punto di vista della sicurezza, sia dal punto di vista della polarizzazione politica. In questi due anni il governo libico non è riuscito a dare stabilità e soprattutto non è riuscito a coinvolgere tutte le parti del nuovo sistema - quindi le milizie, i partiti islamisti, i vari partiti post-Ghedaffi - a lavorare per una nuova Costituzione assieme e per stabilizzare questo Paese.
D. - Gheddafi - al potere, lo ricordiamo, per 42 anni - nonostante tutti i problemi, era riuscito a mantenere l’unità del Paese. Oggi ci sono, invece, tutte queste divisioni e queste tensioni. Ma, secondo lei, sono più legate a motivazioni economiche o politiche?
R. - Un mix di motivazioni. Va detto che Gheddafi aveva sì tenuto assieme il Paese, ma ne aveva annichilito la burocrazia e l’amministrazione: aveva reso molto deboli le proprie forze militari. Oggi il fallimento del post-Gheddafi è soprattutto nell’incapacità di prendere le tante milizie che sono nate e riunirle in un’unica organizzazione statuale. E le varie milizie si fronteggiano, spesso taglieggiano, non rispettano il governo, non rispettano le forze armate regolari. Tutto ciò sta portando il Paese verso un’anarchia, aggravata dal fatto che in Libia tutti sono armati: si stimano 60 milioni di armi per 6 milioni di abitanti.
D. - Una situazione, dunque, davvero drammatica. Molti osservatori parlano di una grande responsabilità della Comunità internazionale che, al momento dell’attacco, fu unita nel dire “cerchiamo di eliminare Gheddafi”, ma che poi ha abbandonato questo Paese. Anche lei è d’accordo con quest’analisi?
R. - Sostanzialmente sì. La Comunità internazionale - come dire - è entrata, spinta da Francia e Gran Bretagna nella guerra contro Gheddafi, senza un piano preciso. Non si sono volute inviare truppe di terra e il tipo di assistenza fornita si è rivelata insufficiente; ma certo anche i libici hanno contribuito a questo stato di cose, con una rissosità fra i vari partiti, con spinte autonomiste o quasi secessioniste in varie parti del Paese. Del resto va detto che la Libia - come dire - non era abituata a gestirsi in modo democratico e non aveva un’amministrazione efficiente.
D. - Bisogna anche sottolineare che la Libia, tra l’altro, rappresenta un grave rischio anche per i Paesi limitrofi, a causa del commercio di armi che sta facendo entrare nel Paese guerriglieri e combattenti appartenenti alla galassia di al-Qaeda. Come si possono definire attualmente i rapporti tra la Libia e i Paesi confinanti?
R. - E’ difficile dirlo in pochi secondi: preoccupanti con l’Egitto, instabili con la Tunisia. In realtà il vero problema sono tutte le frontiere meridionali, che sono frontiere lunghissime migliaia di chilometri, nel deserto e impossibili da controllare. Non è solo la Libia che è in difficoltà, è tutto il Maghreb, ma anche l’Egitto e tutta l’Africa sub-sahariana, che fatica a contenere le tendenze estremiste del terrorismo islamista, i gruppi tribali in lotta fra di loro. In generale possiamo dire che la Libia è inserita in una regione in enorme difficoltà.
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