La testimonianza di Domenico Colapinto, uno dei pescatori che per primo ha soccorso i naufraghi di Lampedusa. Erano stremati, senza vestiti. «Ho potuto salvarne solo 18, mentre gli altri alzavano le braccia e venivano seppelliti dalle onde».
Città Nuova - La voce di Domenico Colapinto è impastata di incredulità e di dolore. Stava rientrando da una notte in mare con la sua barca quando arrivato all’altezza della Tabaccara, una delle calette dell’isola di Lampedusa, ha visto uno scafo e insieme alla sagoma della barca centinaia e centinaia di corpi in mare, alcuni ancora in vita, altri già annegati. Lui non ha chiuso gli occhi di fronte a questa massa umana precipitata in acqua. Tanti li buttavano gli scafisti, altri si lanciavano alla ricerca della salvezza «Mentre ne recuperavo uno, vedevo un altro andare a fondo e non potevo fare niente. Ne ho salvati 18 e ho recuperato i cadaveri di due donne». Il racconto concitato della tragedia che stamattina si è consumata sulle coste di questo scoglio del Mediterraneo si anima di particolari: «In gran parte erano senza vestiti, unti di grasso o di gasolio ed era difficile poterli recuperare. Ci scivolavano dalle mani, erano stremati e il nostro equipaggio non riusciva quasi a issarli a bordo. Poi gli abbiamo dato pantaloni, camice, magliette: tutto quello che di asciutto e pulito avevamo a bordo».
L’equipaggio di Domenico non ha numeri di una nave: sono appena in tre. «Gli abbiamo buttato i salvagenti, li avvicinavamo per prenderli a bordo e nel frattempo il barcone si allontanava scaraventandone altri in mare. Abbiamo avvertito la capitaneria, ma non sappiamo se sono riusciti a fermare questi assassini». Sono parole di condanna e di rabbia, quelle che esprime contro questi mercanti di morte che tante volte «la fanno franca perché si mescolano tra di loro o fuggono su altre barche amiche».
Domenico non immaginava certo di diventare l’eroe di questa tragedia. Vive a Rimini e da cinque mesi si è trasferito sull’isola per portare avanti la sua attività di pesca a strascico con il fratello e il nipote. «Ne abbiamo visti morire tanti davanti ai nostri occhi, tante donne, tanti bambini. Siamo stremati e mi accompagna una sensazione brutta. Ho il cuore pesante. Oggi doveva essere una giornata di lavoro e invece…». E invece una nuova tragedia investe Lampedusa.
Mentre Domenico parla, decine e decine di sacchi blu vengono affiancati sul molo Favarolo. Contengono i corpi recuperati: ci sono tante donne, come Domenico aveva visto, di nazionalità eritrea, ghanese e somala. L’isola è sotto shock: una cappa di morte di proporzioni mai viste è calata sugli abitanti. «Non abbiamo neppure le bare per poterli riporre in un luogo degno» è il commento a caldo di uno dei lampedusani accorsi al porto, mentre la sirena delle autoambulanze continua a ferire le orecchie. Anche il sindaco Giusi Nicolini è sul molo a capire, a chiedere aiuto. Questo naufragio non è l’ennesimo: è sul serio una tragedia e ancora una volta Lampedusa è sola.
Città Nuova - La voce di Domenico Colapinto è impastata di incredulità e di dolore. Stava rientrando da una notte in mare con la sua barca quando arrivato all’altezza della Tabaccara, una delle calette dell’isola di Lampedusa, ha visto uno scafo e insieme alla sagoma della barca centinaia e centinaia di corpi in mare, alcuni ancora in vita, altri già annegati. Lui non ha chiuso gli occhi di fronte a questa massa umana precipitata in acqua. Tanti li buttavano gli scafisti, altri si lanciavano alla ricerca della salvezza «Mentre ne recuperavo uno, vedevo un altro andare a fondo e non potevo fare niente. Ne ho salvati 18 e ho recuperato i cadaveri di due donne». Il racconto concitato della tragedia che stamattina si è consumata sulle coste di questo scoglio del Mediterraneo si anima di particolari: «In gran parte erano senza vestiti, unti di grasso o di gasolio ed era difficile poterli recuperare. Ci scivolavano dalle mani, erano stremati e il nostro equipaggio non riusciva quasi a issarli a bordo. Poi gli abbiamo dato pantaloni, camice, magliette: tutto quello che di asciutto e pulito avevamo a bordo».
L’equipaggio di Domenico non ha numeri di una nave: sono appena in tre. «Gli abbiamo buttato i salvagenti, li avvicinavamo per prenderli a bordo e nel frattempo il barcone si allontanava scaraventandone altri in mare. Abbiamo avvertito la capitaneria, ma non sappiamo se sono riusciti a fermare questi assassini». Sono parole di condanna e di rabbia, quelle che esprime contro questi mercanti di morte che tante volte «la fanno franca perché si mescolano tra di loro o fuggono su altre barche amiche».
Domenico non immaginava certo di diventare l’eroe di questa tragedia. Vive a Rimini e da cinque mesi si è trasferito sull’isola per portare avanti la sua attività di pesca a strascico con il fratello e il nipote. «Ne abbiamo visti morire tanti davanti ai nostri occhi, tante donne, tanti bambini. Siamo stremati e mi accompagna una sensazione brutta. Ho il cuore pesante. Oggi doveva essere una giornata di lavoro e invece…». E invece una nuova tragedia investe Lampedusa.
Mentre Domenico parla, decine e decine di sacchi blu vengono affiancati sul molo Favarolo. Contengono i corpi recuperati: ci sono tante donne, come Domenico aveva visto, di nazionalità eritrea, ghanese e somala. L’isola è sotto shock: una cappa di morte di proporzioni mai viste è calata sugli abitanti. «Non abbiamo neppure le bare per poterli riporre in un luogo degno» è il commento a caldo di uno dei lampedusani accorsi al porto, mentre la sirena delle autoambulanze continua a ferire le orecchie. Anche il sindaco Giusi Nicolini è sul molo a capire, a chiedere aiuto. Questo naufragio non è l’ennesimo: è sul serio una tragedia e ancora una volta Lampedusa è sola.
Enza Billeci, Maddalena Maltese
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