C'è un tempo per prevedere e uno per recriminare
di Elisabetta Lo Iacono
Torre dei Venti - E il nostro Paese è troppo spesso quello del secondo tempo, del correre ai ripari, del giocare la partita agli ultimi minuti, del lagnarsi, dell'indignarsi e del protestare. Ma a cose fatte, talvolta per intempestività, tante altre volte per il timore di non essere ascoltati che diventa spesso palese certezza e quindi esperienza. Quando la partita ha in palio la vita delle persone, allora il gioco si fa pesante, le regole vanno osservate e gli occhi devono rimanere aperti e vigili. Come lo sono quelli di coloro che vivono o assistono a prevaricazioni, situazioni al limite, che denunciano e lanciano gridi di allarme e ai quali non rimane altro, in fondo, che una bara o una pacca sulla spalla.
I tragici fatti di Lampedusa sono cronaca di questi giorni, con quelle traversate verso la speranza che invece pongono fine a tante vite desiderose di avere qualcosa di più, per sé e per i propri figli, rispetto a regimi che soffocano le basilari libertà dell'individuo, a situazioni di estrema povertà, a tunnel infiniti di guerre. Le centinaia di morti ingoiati dal mare dei vacanzieri, intrappolati in quelle barche condotte da tanti Caronte senza un briciolo di anima, non devono sorprendere ma solo far indignare e porre un ultimatum improcrastinabile a chi ha responsabilità di governo, questa volta ovviamente a carattere europeo.
Non possono sorprendere questi incidenti prevedibili, i barconi stracolmi di centinaia di persone in balia di un mare troppo grande per quelle condizioni di navigazione disperate. Dopo i morti della scorsa estate e la visita di papa Francesco, che richiamò gli occhi del mondo sull'isola siciliana cercando di parlare anche ai cuori incapaci di condividere quelle sofferenze, sembrava si fosse toccato il fondo e non rimanesse altro che invertire rotta.
Sembrava, dinanzi alle orecchie sorde della comunità internazionale, all'insensibilità di frange ideologiche nostrane che puntano alla creazione di territori "puri", richiamando storie del passato che ben conosciamo e che, proprio per questo, fanno venire i brividi. Eppure quel mare si è ingoiato altre famiglie intere, nonostante i ripetuti appelli del sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini che ha visto il proprio territorio divenire un obitorio a cielo aperto, un luogo di dolore e di morte, non solo negli occhi dei sopravvissuti ai naufragi ma anche dei lampedusani che da mesi devono convivere, impotenti, con un dolore penetrante.
La prevenzione, dunque, quel deterrente che avrebbe potuto impedire tante altre morti. Se solo le logiche politiche e i calcoli internazionali avessero limato i loro interessi a favore di uno slancio di umanità. Ma si sa, la prevenzione è strumento per le lunghe distanze temporali e spesso appare quasi come una rivendicazione da utopisti, da coloro che non sanno come vanno le cose, che non stanno seduti sugli scranni a decidere le sorti degli altri uomini ma che ne condividono, nel silenzio, problemi, sofferenze e rischi quotidiani.
La prevenzione, anche nel nostro Paese, appare sempre più la negazione di garanzie dovute.
Se la comunità internazionale avesse stretto subito le maglie del dibattito con iniziative concrete, probabilmente quel mare avrebbe fatto meno vittime.
E che dire dei quotidiani casi di femminicidio, molti dei quali annunciati e consumati grazie a cavilli e norme incapaci di tutelare le vittime di precedenti e reiterate violenze?
Per non parlare dell'incapacità ad arginare i danni causati da tante calamità naturali: costruzioni non rispondenti alle norme antisismiche oppure edifici costruiti in luoghi strappati ai corsi d'acqua.
La storia del nostro Paese e le lapidi di molte vittime sono spesso macchiate dalle responsabilità o dalla leggerezza di troppi che sono stati incapaci di attuare azioni di prevenzione e, quindi, di tutelare tante vite. La cronaca gira velocemente le proprie pagine e con esse la memoria, basterà soltanto recriminare e alzare il dito contro qualcun altro, versare qualche lacrima, apparire indignati e ricoprire le proprie responsabilità con fiumi di parole imbonitrici. In ogni modo non bisognerà aspettare più di tanto, altre vittime saranno già dietro l'angolo dell'indifferenza.
di Elisabetta Lo Iacono
Torre dei Venti - E il nostro Paese è troppo spesso quello del secondo tempo, del correre ai ripari, del giocare la partita agli ultimi minuti, del lagnarsi, dell'indignarsi e del protestare. Ma a cose fatte, talvolta per intempestività, tante altre volte per il timore di non essere ascoltati che diventa spesso palese certezza e quindi esperienza. Quando la partita ha in palio la vita delle persone, allora il gioco si fa pesante, le regole vanno osservate e gli occhi devono rimanere aperti e vigili. Come lo sono quelli di coloro che vivono o assistono a prevaricazioni, situazioni al limite, che denunciano e lanciano gridi di allarme e ai quali non rimane altro, in fondo, che una bara o una pacca sulla spalla.
I tragici fatti di Lampedusa sono cronaca di questi giorni, con quelle traversate verso la speranza che invece pongono fine a tante vite desiderose di avere qualcosa di più, per sé e per i propri figli, rispetto a regimi che soffocano le basilari libertà dell'individuo, a situazioni di estrema povertà, a tunnel infiniti di guerre. Le centinaia di morti ingoiati dal mare dei vacanzieri, intrappolati in quelle barche condotte da tanti Caronte senza un briciolo di anima, non devono sorprendere ma solo far indignare e porre un ultimatum improcrastinabile a chi ha responsabilità di governo, questa volta ovviamente a carattere europeo.
Non possono sorprendere questi incidenti prevedibili, i barconi stracolmi di centinaia di persone in balia di un mare troppo grande per quelle condizioni di navigazione disperate. Dopo i morti della scorsa estate e la visita di papa Francesco, che richiamò gli occhi del mondo sull'isola siciliana cercando di parlare anche ai cuori incapaci di condividere quelle sofferenze, sembrava si fosse toccato il fondo e non rimanesse altro che invertire rotta.
Sembrava, dinanzi alle orecchie sorde della comunità internazionale, all'insensibilità di frange ideologiche nostrane che puntano alla creazione di territori "puri", richiamando storie del passato che ben conosciamo e che, proprio per questo, fanno venire i brividi. Eppure quel mare si è ingoiato altre famiglie intere, nonostante i ripetuti appelli del sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini che ha visto il proprio territorio divenire un obitorio a cielo aperto, un luogo di dolore e di morte, non solo negli occhi dei sopravvissuti ai naufragi ma anche dei lampedusani che da mesi devono convivere, impotenti, con un dolore penetrante.
La prevenzione, dunque, quel deterrente che avrebbe potuto impedire tante altre morti. Se solo le logiche politiche e i calcoli internazionali avessero limato i loro interessi a favore di uno slancio di umanità. Ma si sa, la prevenzione è strumento per le lunghe distanze temporali e spesso appare quasi come una rivendicazione da utopisti, da coloro che non sanno come vanno le cose, che non stanno seduti sugli scranni a decidere le sorti degli altri uomini ma che ne condividono, nel silenzio, problemi, sofferenze e rischi quotidiani.
La storia del nostro Paese e le lapidi di molte vittime sono spesso macchiate dalle responsabilità o dalla leggerezza di troppi che sono stati incapaci di attuare azioni di prevenzione e, quindi, di tutelare tante vite. La cronaca gira velocemente le proprie pagine e con esse la memoria, basterà soltanto recriminare e alzare il dito contro qualcun altro, versare qualche lacrima, apparire indignati e ricoprire le proprie responsabilità con fiumi di parole imbonitrici. In ogni modo non bisognerà aspettare più di tanto, altre vittime saranno già dietro l'angolo dell'indifferenza.
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