Oggi il Myanmar ha fatto un altro passo verso la liberazione di tutti i prigionieri politici, concordata con la comunità internazionale entro la fine dell’anno.
Misna - A conferma dell’intenzione del presidente riformista Thein Sein di mantenere gli impegni, oggi ha perdonato altri 56 incarcerati per ragioni ideologiche o di coscienza e si può così presentare con un credito maggiore all’incontro del Forum per l’Asia orientale che inizia domani a Bandar Seri Begawan, capitale del Brunei.> Nell’assise, che radunerà i capi di stato di 18 paesi, inclusi Stati Uniti (rappresentati dal segretario agli Esteri John Kerry), Russia, Cina, India, Indonesia e Giappone, il Myanmar sarà chiamato anche a spiegare le tensioni anti-islamiche in corso e come il governo intende porvi fine. Al centro della discussione ci sarà anche la richiesta di provvedimenti concreti a tutela della minoranza Rohingya musulmana, oggi di fatto apolide ma in maggioranza concentrata nelle regioni occidentali birmane.
La decisione odierna è in linea con simili iniziative che in passato hanno accompagnato o preceduto importanti eventi internazionali. Uno strumento per dimostrare la volontà democratica del governo che due anni fa ha sostituito un cinquantennale regime militare, ma che vive sotto la pesante tutela dei generali, ai quali la nuova costituzione affida un ruolo di primo piano nel parlamento e nel paese. Se il precedente regime negava addirittura la presenza di dissidenti dietro le sbarre, il governo attuale ha avviato una loro scarcerazione graduale. Sono forse 150 gli oppositori ancora in detenzione e tra questi, come pure tra coloro che sono stati liberato oggi, diversi esponenti delle etnie kachin e shan, per decenni in conflitto contro il governo centrale.
Misna - A conferma dell’intenzione del presidente riformista Thein Sein di mantenere gli impegni, oggi ha perdonato altri 56 incarcerati per ragioni ideologiche o di coscienza e si può così presentare con un credito maggiore all’incontro del Forum per l’Asia orientale che inizia domani a Bandar Seri Begawan, capitale del Brunei.> Nell’assise, che radunerà i capi di stato di 18 paesi, inclusi Stati Uniti (rappresentati dal segretario agli Esteri John Kerry), Russia, Cina, India, Indonesia e Giappone, il Myanmar sarà chiamato anche a spiegare le tensioni anti-islamiche in corso e come il governo intende porvi fine. Al centro della discussione ci sarà anche la richiesta di provvedimenti concreti a tutela della minoranza Rohingya musulmana, oggi di fatto apolide ma in maggioranza concentrata nelle regioni occidentali birmane.
La decisione odierna è in linea con simili iniziative che in passato hanno accompagnato o preceduto importanti eventi internazionali. Uno strumento per dimostrare la volontà democratica del governo che due anni fa ha sostituito un cinquantennale regime militare, ma che vive sotto la pesante tutela dei generali, ai quali la nuova costituzione affida un ruolo di primo piano nel parlamento e nel paese. Se il precedente regime negava addirittura la presenza di dissidenti dietro le sbarre, il governo attuale ha avviato una loro scarcerazione graduale. Sono forse 150 gli oppositori ancora in detenzione e tra questi, come pure tra coloro che sono stati liberato oggi, diversi esponenti delle etnie kachin e shan, per decenni in conflitto contro il governo centrale.
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