venerdì, novembre 01, 2013
Si è concluso ieri nell’aula della Corte speciale mista per il genocidio cambogiano il processo agli ultimi due gerarchi del regime dei Khmer rossi ancora alla sbarra.

Misna - Dei cinque ammessi al giudizio dopo l’avvio dei lavori nel 2006, Kang Kek Iew (Duch), responsabile del centro di detenzione e sterminio di Tuol Sleng, è stato condannato all’ergastolo nel febbraio 2012; Ieng Sary, ministro degli Esteri, è morto lo scorso marzo e sua moglie Ieng Thirith, cognata di Pol Pot e ministro dell’Educazione, è stata riconosciuta in condizioni di demenza avanzata e incapace di partecipare alle udienze.

Sul banco degli imputati sono rimasti quello che è sempre stato considerato il numero due del regime, Nuon Chea, e Khieu Samphan, allora capo dello Stato. Per entrambi è stato chiesto l’ergastolo e la sentenza è attesa entro la prima metà del 2014.

Oggi, l’ottantasettenne Nuon Chea e l’ottantaduenne Khieu Samphan, sotto processo da due anni per crimini contro l’umanità e genocidio attuati dal 1975 al 1979 quando almeno 1,5 milioni di cambogiani morirono per le conseguenze del regime dei Khmer Rossi, hanno negato ancora una volta ogni responsabilità.

“Non era a conoscenza dei crimini commessi”, ha detto Nuon Chea, ma ha ammesso un certo disagio per non essere stato in grado di controllare le azioni del regime: “Voglio esprimere il mio profondo rimorso e la responsabilità morale nei confronti delle vittime e dei cambogiani che hanno così tanto sofferto”, ha concluso il suo intervento. L’ex gerarca ha anche ribadito la convinzione che il regime sia stato infiltrato dall’esterno, dai nemici statunitense e vietnamita, e che per questo sia stato sovvertito “il sogno utopistico di una società ugualitaria”.

Khieu Samphan ha confutato che, data la sua posizione, non poteva ignorare quello che succedeva attorno a lui. “Pensate davvero – ha detto chiedendo ‘un verdetto equo’ – che quanto è successo è quello che avrei voluto accadesse alla mia gente?. Oggi è chiaro che tutti si aspettano da me solo una cosa: che ammetta la mia colpevolezza per i reati che mi vengono addebitati”.


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