Si pianteranno 366 piantine e si accenderà un lume per ricordare i migranti morti in mare il 3 ottobre: «Un Giardino della memoria che affonda le sue radici nel dolore», commenta il sindaco. Intanto nella ludoteca voluta dal papa i bambini superstiti giocano e colorano cercando normalità
Città Nuova - È trascorso un mese da quella tragica mattina, quando un barcone carico di migranti affonda davanti alla costa di Lampedusa e seppellisce in mare 366 uomini, donne e bambini, che a quel mare avevano affidato una nuova speranza di vita, divenuta invece morte disperata. Cala Galera, la riserva naturale dell’isola, oggi si popolerà di 366 piantine, una per ciascuna vittima di un assurdo naufragio che ha continuato a restare tale anche sulla terraferma, dove le promesse di funerali di Stato, di ricongiungimento con i familiari, di seppellimento dei bambini nel cimitero locale sono naufragate appena cessata la commozione di rito.
Non è così per i lampedusani, che quelle vittime le hanno recuperate e poi composte nelle bare, che hanno provato a confortare i familiari, che hanno sulla loro pelle provato il disagio dell’impotenza e la rabbia per aiuti mai sufficienti e mai tempestivi, spesso incuranti dell’affetto e dei sentimenti. Loro hanno scelto altri funerali, attraverso questi arbusti senza nome, come tanti dei 366 morti recuperati e di quelli che il mare ha seppellito senza fargli mai toccare terra.
«Sarà un rito di memoria e di speranza – spiega il sindaco Giusi Nicolini –. Sarà il saluto di Lampedusa a quei ragazzi, i nostri ragazzi, ma anche a tutti i naufraghi di cui non si è mai avuta notizia. Vogliamo dirgli che il loro sacrificio non sarà stato vano, perché lavoreremo affinché l’Italia e l’Europa adottino politiche migratorie nuove e civili, improntate al principio dell’accoglienza e del rispetto dei diritti umani». Questo è il senso di questo Giardino della memoria, le cui radici affondano in un dolore che deve diventare impegno. Un lumino acceso accanto a queste piante mentre suona una campana nautica concluderà questo rito laico per i migranti morti.
Intanto, nella ludoteca voluta dal papa i bambini colorano e giocano: qui la tragedia non sembra neppure sfiorarli, anche se i disegni sono la costante fotografia di quella notte. Gran parte di loro sono siriani, più femmine che maschi. Frequentano il centro a gruppi di venti per tre ore al giorno, assistiti da tre operatori di Save the children affiancati dai volontari della Caritas e da alcuni lampedusani che hanno deciso di offrire qualche ora della loro giornata per non far mancare il senso di famiglia.
Spesso li accompagnano le mamme e c’è anche qualche papà che afferra il dizionario arabo-inglese per far comprendere il suo dramma e la sua speranza. Questa gente non è partita in cerca di fortuna: ha sfidato la guerra per non morire sotto le bombe, rischiando però di morire in mare e di stenti.
Non mancano le contraddizioni dell’assistenza in questi giorni di emergenza prolungata: i bambini non possono far merenda fuori dal centro perché non si conoscono le reali condizioni di salute e le intolleranze ai cibi, l’abbigliamento è spesso trasandato, le scarpe sono bucate e già rotte. I lampedusani si domandano come si gestisce realmente la distribuzione dei pasti e del vestiario all’interno del centro, si chiedono perché i volontari non possono rifornire gli ospiti del necessario se non fuori da quel cancello, in strada o durante incontri casuali. «I sopravvissuti sperimentano una miseria ingiusta», denunciano alcune famiglie, che intanto offrono la loro casa per ospitare almeno qualche ora i bimbi.
Intanto il Cisom, il Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta, ha offerto un servizio di sostegno psicologico agli abitanti dell’isola, sottoposti a situazioni di stress prolungate a cui non erano minimamente preparati. «Ne abbiamo bisogno – conferma Giovanna –. Quello che abbiamo vissuto e che continuiamo a vivere non si può affrontare senza un aiuto serio. Le immagini di quei morti, di chi annegava davanti ai nostri occhi, lo strazio delle famiglie: non possono chiederci di affrontare tutto questo da soli. Noi avevamo un lavoro, una vita, ora abbiamo sempre la tragedia a farci compagnia». Le richieste di chi è vivo non possono restare senza risposte.
Città Nuova - È trascorso un mese da quella tragica mattina, quando un barcone carico di migranti affonda davanti alla costa di Lampedusa e seppellisce in mare 366 uomini, donne e bambini, che a quel mare avevano affidato una nuova speranza di vita, divenuta invece morte disperata. Cala Galera, la riserva naturale dell’isola, oggi si popolerà di 366 piantine, una per ciascuna vittima di un assurdo naufragio che ha continuato a restare tale anche sulla terraferma, dove le promesse di funerali di Stato, di ricongiungimento con i familiari, di seppellimento dei bambini nel cimitero locale sono naufragate appena cessata la commozione di rito.
Non è così per i lampedusani, che quelle vittime le hanno recuperate e poi composte nelle bare, che hanno provato a confortare i familiari, che hanno sulla loro pelle provato il disagio dell’impotenza e la rabbia per aiuti mai sufficienti e mai tempestivi, spesso incuranti dell’affetto e dei sentimenti. Loro hanno scelto altri funerali, attraverso questi arbusti senza nome, come tanti dei 366 morti recuperati e di quelli che il mare ha seppellito senza fargli mai toccare terra.
«Sarà un rito di memoria e di speranza – spiega il sindaco Giusi Nicolini –. Sarà il saluto di Lampedusa a quei ragazzi, i nostri ragazzi, ma anche a tutti i naufraghi di cui non si è mai avuta notizia. Vogliamo dirgli che il loro sacrificio non sarà stato vano, perché lavoreremo affinché l’Italia e l’Europa adottino politiche migratorie nuove e civili, improntate al principio dell’accoglienza e del rispetto dei diritti umani». Questo è il senso di questo Giardino della memoria, le cui radici affondano in un dolore che deve diventare impegno. Un lumino acceso accanto a queste piante mentre suona una campana nautica concluderà questo rito laico per i migranti morti.
Intanto, nella ludoteca voluta dal papa i bambini colorano e giocano: qui la tragedia non sembra neppure sfiorarli, anche se i disegni sono la costante fotografia di quella notte. Gran parte di loro sono siriani, più femmine che maschi. Frequentano il centro a gruppi di venti per tre ore al giorno, assistiti da tre operatori di Save the children affiancati dai volontari della Caritas e da alcuni lampedusani che hanno deciso di offrire qualche ora della loro giornata per non far mancare il senso di famiglia.
Spesso li accompagnano le mamme e c’è anche qualche papà che afferra il dizionario arabo-inglese per far comprendere il suo dramma e la sua speranza. Questa gente non è partita in cerca di fortuna: ha sfidato la guerra per non morire sotto le bombe, rischiando però di morire in mare e di stenti.
Non mancano le contraddizioni dell’assistenza in questi giorni di emergenza prolungata: i bambini non possono far merenda fuori dal centro perché non si conoscono le reali condizioni di salute e le intolleranze ai cibi, l’abbigliamento è spesso trasandato, le scarpe sono bucate e già rotte. I lampedusani si domandano come si gestisce realmente la distribuzione dei pasti e del vestiario all’interno del centro, si chiedono perché i volontari non possono rifornire gli ospiti del necessario se non fuori da quel cancello, in strada o durante incontri casuali. «I sopravvissuti sperimentano una miseria ingiusta», denunciano alcune famiglie, che intanto offrono la loro casa per ospitare almeno qualche ora i bimbi.
Intanto il Cisom, il Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta, ha offerto un servizio di sostegno psicologico agli abitanti dell’isola, sottoposti a situazioni di stress prolungate a cui non erano minimamente preparati. «Ne abbiamo bisogno – conferma Giovanna –. Quello che abbiamo vissuto e che continuiamo a vivere non si può affrontare senza un aiuto serio. Le immagini di quei morti, di chi annegava davanti ai nostri occhi, lo strazio delle famiglie: non possono chiederci di affrontare tutto questo da soli. Noi avevamo un lavoro, una vita, ora abbiamo sempre la tragedia a farci compagnia». Le richieste di chi è vivo non possono restare senza risposte.
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