Gli Stati generali dell’economia verde stanno per iniziare: garantire spazio a ricerca e cultura.La partita si giocherà tutta sugli investimenti in conoscenza, ma l’Italia (e l’Europa) rimane indietro nella competizione tecnologica internazionale
GreenReport - Di green economy si continua a parlare e a ragionare nonostante il persistere della crisi internazionale, e spesso anzi come opportunità per un rilancio dell’economia dei paesi occidentali, tra i più colpiti dalla recessione. Ma se questo ha un senso, è bene chiarire una volta di più che il concorso della green economy ad una nuova fase di sviluppo economico è collegato alla messa in moto di processi di innovazione capaci di innervare un profondo cambiamento nel sistema della produzione e dei consumi, investendo in conoscenza e generando nuovi saperi.
Paradigmatico è indubbiamente lo sviluppo delle tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili. E’ dal 2005 (anno dell’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto) che assistiamo ad un continuo ed incessante aumento degli investimenti in questo “settore” a livello mondiale e nemmeno la crisi è riuscita a scalfirne l’espansione. Gli aggiornamenti forniti annualmente dal Rapporto dell’Unep registrano peraltro non solo un’ascesa esponenziale di questi investimenti, ma anche un ruolo sempre più centrale dei paesi emergenti di nuova industrializzazione (Cina, India e Brasile, solo per citare i più rilevanti), che stanno tracciando le direttrici di una nuova divisione internazionale del lavoro basata sullo sviluppo di competenze tecnologiche. Se in un primo momento queste economie hanno beneficiato dell’impulso derivante dai consistenti investimenti dei maggiori paesi occidentali, la fase più recente testimonia infatti una crescita sempre più significativa di autonomi investimenti in ricerca e sviluppo e l’avvio di un’autonoma attività di innovazione, capace di indirizzare lo sviluppo delle economie nazionali.
Non è un caso, quindi, che tali paesi abbiano ridotto ad appena un 15% la distanza che li separa dalle economie avanzate negli investimenti in tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili e al ritmo esistente sembra ragionevole supporre che tra pochi anni la maggior parte di questi investimenti avrà luogo proprio in queste aree.
La recente “guerra dei dazi” tra Europa e Cina sui pannelli solari è in qualche modo un segnale forte di questo nuovo contesto in tumultuoso movimento. E mentre la cronaca si è concentrata nel dar conto della misura della concorrenza sleale da parte della Cina nelle esportazioni di fotovoltaico, quella che non sembra essere emersa è una valutazione della reale posizione dell’Europa nel merito. Se è vero infatti che a partire dal 2005 si è assistito ad una rapida diffusione del fotovoltaico nell’area, è anche vero che al suo interno i diversi paesi hanno mostrato una diversa capacità di sviluppare competenze tecnologiche per dare vita ad una nuova filiera industriale, e di soddisfare almeno parte dei consumi energetici da questa fonte con tecnologie prodotte a livello nazionale.
Germania e Italia sono a questo proposito due casi esemplari: l’una come Paese che ha investito nel fotovoltaico – e che non a caso ha tenuto a “dirigere” la trattiva con la Cina, andando all’attacco in un primo momento ma sollecitando gli altri paesi UE alla prudenza in un secondo momento per evitare lo scontro – l’altra come Paese totalmente dipendente dalle importazioni.
I dati del 2012 relativi al crollo delle importazioni di fotovoltaico dei principali paesi europei (vedi grafico a lato, ndr), a seguito della brusca contrazione della domanda dovuta alla crisi e della sospensione degli incentivi di sostegno al “settore”, danno un’idea più complessiva della non trascurabile e diffusa dipendenza europea dalla produzione estera, ma anche della diversa intensità di tale dipendenza nelle varie economie. Mentre sul versante orientale già spunta una redistribuzione molto forte delle esportazioni cinesi tra Hong Kong, Corea, Singapore, Taiwan e Malaysia, dove si sono dirette delocalizzazioni mirate a superare i vincoli derivanti dall’imposizione di dazi. Ma è evidente che quest’ultimo è solo un espediente del momento, e che la partita si giocherà tutta sulle tecnologie, cosa che, a giudicare dai dati Unep, gli investitori hanno capito molto bene.
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