Le religiose dicono che stanno bene, ma i conti non tornano…
di Patrizio Ricci
Maloula è un villaggio cristiano a 56 km da Damasco incastonato tra le pareti rocciose dei monti Al Qalamoun. La sua particolarità è che nel sobborgo la gente parla ancora il dialetto aramaico, la lingua di Gesù. Le case e le chiese, i monasteri e i ruderi danno vita a un paesaggio di grande bellezza e suggestione. Da sempre, per queste sue caratteristiche, Maloula è centro mondiale di vita spirituale e religiosa, meta di pellegrini e della devozione di cristiani e mussulmani.
Ma queste sue caratteristiche non l’hanno preservata dalla guerra in corso: la flebile voce di rinnovamento che ha dato inizio alla rivolta siriana è stata usata (con l’appoggio delle potenze regionali ostili al governo attuale) come pretesto preordinato per lanciare la jihad e dar vita al grande califfato islamico. Per questo il conflitto siriano da lotta per la libertà ha gradualmente assunto i connotati di un’aggressione etnica e religiosa verso le minoranze. Di conseguenza, Maloula è stata attaccata la prima volta a settembre proprio a motivo della sua natura di simbolo e memoria vivente della cristianità.
Durante quei combattimenti, gli aggressori jihadisti hanno devastato il villaggio, saccheggiato e distrutte le chiese, divelto crocefissi, infierito sulla popolazione civile che non è riuscita a fuggire. In quell’occasione le monache greco-ortodosse del monastero di Santa Tecla erano rimaste a pregare, barricate nel loro convento. Quando, con una sortita, l’esercito le ha raggiunte per portarle in salvo, hanno declinato l’offerta scegliendo consapevolmente di restare.
Ricorderete il servizio della troupe TV di Rai News che durante quei tragici avvenimenti è riuscita a raggiungerle. Quel reportage è un prezioso documento: ci fornisce una lettura non ideologica e retorica degli avvenimenti, basata sui fatti riferiti dai diretti protagonisti. Racconta l’inviato di guerra Gian Micalessin: “Chiesi alla madre superiora se voleva venire con noi. Scosse il capo. Disse che il suo posto era accanto alle reliquie di Santa Tecla. Poi mi segnò la fronte, m’infilò nel giubbotto antiproiettile un’immagine della Madonna e mi disse: «Andatevene. Noi pregheremo per voi». Gli spari dei ribelli ci inseguirono dall’uscita del santuario fino a dove ci attendevano gli altri militari. Ma nessuno venne colpito”. Dice oggi Tony Capuozzo, citando quel reportage sul quotidiano ‘il Giornale’: “Oggi quel reportage è l’unica testimonianza del coraggio di quelle suore, della loro fede indomita, della loro incrollabile volontà di difendere i luoghi sacri”. Il racconto dei testimoni oculari è stato raccolto dalla troupe della Rai di Gian Micalessin e successivamente da quella di Mediaset di Tony Capuozzo e per la rubrica televisiva ‘Terra’.
Un giornalista di Associated Press racconta: “Ho visto i guerriglieri prendere cinque persone e minacciarle così: «O vi convertite all’islam oppure vi decapitiamo»”. I miliziani di al Nusra non hanno avuto pietà: il giovane Sarkis el Zakhm che ha rifiutato di ripudiare la propria fede è stato ucciso (“sono cristiano e se volete uccidermi per questo, fatelo”) insieme a Mikhael Taalab e Antoun Taalab. Purtroppo crimini simili, le esecuzioni dei cristiani, eseguiti in ‘odium fidei’ sono diventati sempre più frequenti e sono stati denunciati nell’ultimo rapporto dalla Organizzazione internazionale ‘Human Right Watch’.
Dopo quei tragici giorni di settembre, i profughi del villaggio fuggiti a Damasco, affranti, già chiamavano Maloula ‘terra dei martiri’. Abbracciare quel dolore ha condotto le religiose di Santa Tecla a prendere la dura decisione di restare: andare via sarebbe stato legittimo ma era anche volgere le spalle alla gente, dare ragione alla guerra e alla sopraffazione mentre restare era testimoniare che il cambiamento non viene dalla violenza e che solo Cristo può cambiare la vita degli uomini. Così sono stati mandati via gli orfani (il monastero ne ospitava alcuni), le novizie e la maggior parte delle monache. Sono rimaste in dodici: dodici per tutte.
Il resto è storia di questi giorni: i ribelli jadisti sono tornati in forze. Il villaggio era deserto. I pochi volontari rimasti a vigilare, sopraffatti, sono fuggiti. L’incursione di Maloula ha avuto tutti i connotati di una spedizione punitiva: sono state bruciate una sessantina di case tramite copertoni imbottiti di esplosivo. Quando sono arrivate, le forze governative non hanno trovato più le monache nel convento. Sulla sparizione si sono rincorse varie ipotesi, ma non quella più logica. I principali canali di comunicazione hanno taciuto la notizia; e laddove è passata, è stata edulcorata: al posto di ‘rapite’ o ‘sequestrate’ si è detto invece che le suore sono state ‘portate via’, ‘arrestate’o ‘prelevate’.
A rendere la vicenda più grottesca ci ha pensato il portavoce dei ribelli: in un dispaccio ripreso dalle agenzie ha dichiarato che le monache sono state ‘messe in salvo’. Paradossalmente si sono presi cura di loro gli stessi che hanno fatto saltare a colpi di kalashnikov il portone d’ingresso del monastero e che hanno saccheggiato e bruciato più di una volta i luoghi sacri. L’esponente dei ribelli delle ‘Brigate ribelli di Qalmoun’ ha dichiarato che le suore sono state rapite per preservare i rivoluzionari dalle forze del regime di Assad. Questa è un’altra espressione della nuova neo-lingua: ‘rapite per preservare i rivoluzionari dalle forze del regime di Assad’, che, tradotto, vuol dire evidentemente farle fare gli scudi umani.
Inaspettatamente ieri le monache sono apparse sul canale satellitare al Jazera del Qatar all’interno di un’abitazione della cittadina di Yabroud (caposaldo dei ribelli). Dopo aver visto il video, si è incerti se considerarlo una presa in giro o se seriamente i rapitori pretendono veramente che possa essere credibile. Private delle croci cristiane (che contraddistinguevano l’ordine) una suora dice: "Un gruppo ci ha portato qui e stiamo molto, molto bene con loro", e gli fa eco un’altra: “Siamo in una villa molto molto bella", smentendo che qualcuno le abbia rapite. Di diverso tenore il comunicato diffuso dal quotidiano pan-arabo Asharq al-Awsat, dove in un’intervista il portavoce del gruppo, Mohannad Abu al-Fidaa, ha detto: "Le suore sono in un luogo sicuro, ma non saranno rilasciate finchè non saranno accolte alcune richieste, prima tra tutte il rilascio di mille donne siriane rinchiuse nelle prigioni del paese”. E’ la classica ‘ciliegina sulla torta’: per la gentile ospitalità fornita sarebbe opportuno liberare 1000 donne legate alla guerriglia e detenute da Damasco.
E’ un déjà-vu e i conti non tornano: la versione dei ribelli fa acqua in numerosi punti ed è contraddittoria. In primo luogo abbiamo visto che le suore, in tempi non sospetti, hanno fatto già dichiarazioni non fraintendibili, perfettamente in linea con il loro stato e con la loro vocazione. In secondo luogo è oltremodo illogico che esse abbiano liberamente scelto di andare al seguito degli islamisti e invece non a Damasco, dove avrebbero trovato la folta comunità cristiana dei profughi di Maloula ad accoglierle.
Che la comunità internazionale accetti che i suoi ‘rivoluzionari’ portino via i religiosi ‘per metterli in salvo’ è un fatto grave. Quello che è accaduto alle claustrali del monastero di Santa Tecla domani potrà succedere altrove, e non certo per magnanimità.
di Patrizio Ricci
Maloula è un villaggio cristiano a 56 km da Damasco incastonato tra le pareti rocciose dei monti Al Qalamoun. La sua particolarità è che nel sobborgo la gente parla ancora il dialetto aramaico, la lingua di Gesù. Le case e le chiese, i monasteri e i ruderi danno vita a un paesaggio di grande bellezza e suggestione. Da sempre, per queste sue caratteristiche, Maloula è centro mondiale di vita spirituale e religiosa, meta di pellegrini e della devozione di cristiani e mussulmani.
Ma queste sue caratteristiche non l’hanno preservata dalla guerra in corso: la flebile voce di rinnovamento che ha dato inizio alla rivolta siriana è stata usata (con l’appoggio delle potenze regionali ostili al governo attuale) come pretesto preordinato per lanciare la jihad e dar vita al grande califfato islamico. Per questo il conflitto siriano da lotta per la libertà ha gradualmente assunto i connotati di un’aggressione etnica e religiosa verso le minoranze. Di conseguenza, Maloula è stata attaccata la prima volta a settembre proprio a motivo della sua natura di simbolo e memoria vivente della cristianità.
Durante quei combattimenti, gli aggressori jihadisti hanno devastato il villaggio, saccheggiato e distrutte le chiese, divelto crocefissi, infierito sulla popolazione civile che non è riuscita a fuggire. In quell’occasione le monache greco-ortodosse del monastero di Santa Tecla erano rimaste a pregare, barricate nel loro convento. Quando, con una sortita, l’esercito le ha raggiunte per portarle in salvo, hanno declinato l’offerta scegliendo consapevolmente di restare.
Ricorderete il servizio della troupe TV di Rai News che durante quei tragici avvenimenti è riuscita a raggiungerle. Quel reportage è un prezioso documento: ci fornisce una lettura non ideologica e retorica degli avvenimenti, basata sui fatti riferiti dai diretti protagonisti. Racconta l’inviato di guerra Gian Micalessin: “Chiesi alla madre superiora se voleva venire con noi. Scosse il capo. Disse che il suo posto era accanto alle reliquie di Santa Tecla. Poi mi segnò la fronte, m’infilò nel giubbotto antiproiettile un’immagine della Madonna e mi disse: «Andatevene. Noi pregheremo per voi». Gli spari dei ribelli ci inseguirono dall’uscita del santuario fino a dove ci attendevano gli altri militari. Ma nessuno venne colpito”. Dice oggi Tony Capuozzo, citando quel reportage sul quotidiano ‘il Giornale’: “Oggi quel reportage è l’unica testimonianza del coraggio di quelle suore, della loro fede indomita, della loro incrollabile volontà di difendere i luoghi sacri”. Il racconto dei testimoni oculari è stato raccolto dalla troupe della Rai di Gian Micalessin e successivamente da quella di Mediaset di Tony Capuozzo e per la rubrica televisiva ‘Terra’.
Un giornalista di Associated Press racconta: “Ho visto i guerriglieri prendere cinque persone e minacciarle così: «O vi convertite all’islam oppure vi decapitiamo»”. I miliziani di al Nusra non hanno avuto pietà: il giovane Sarkis el Zakhm che ha rifiutato di ripudiare la propria fede è stato ucciso (“sono cristiano e se volete uccidermi per questo, fatelo”) insieme a Mikhael Taalab e Antoun Taalab. Purtroppo crimini simili, le esecuzioni dei cristiani, eseguiti in ‘odium fidei’ sono diventati sempre più frequenti e sono stati denunciati nell’ultimo rapporto dalla Organizzazione internazionale ‘Human Right Watch’.
Dopo quei tragici giorni di settembre, i profughi del villaggio fuggiti a Damasco, affranti, già chiamavano Maloula ‘terra dei martiri’. Abbracciare quel dolore ha condotto le religiose di Santa Tecla a prendere la dura decisione di restare: andare via sarebbe stato legittimo ma era anche volgere le spalle alla gente, dare ragione alla guerra e alla sopraffazione mentre restare era testimoniare che il cambiamento non viene dalla violenza e che solo Cristo può cambiare la vita degli uomini. Così sono stati mandati via gli orfani (il monastero ne ospitava alcuni), le novizie e la maggior parte delle monache. Sono rimaste in dodici: dodici per tutte.
Il resto è storia di questi giorni: i ribelli jadisti sono tornati in forze. Il villaggio era deserto. I pochi volontari rimasti a vigilare, sopraffatti, sono fuggiti. L’incursione di Maloula ha avuto tutti i connotati di una spedizione punitiva: sono state bruciate una sessantina di case tramite copertoni imbottiti di esplosivo. Quando sono arrivate, le forze governative non hanno trovato più le monache nel convento. Sulla sparizione si sono rincorse varie ipotesi, ma non quella più logica. I principali canali di comunicazione hanno taciuto la notizia; e laddove è passata, è stata edulcorata: al posto di ‘rapite’ o ‘sequestrate’ si è detto invece che le suore sono state ‘portate via’, ‘arrestate’o ‘prelevate’.
A rendere la vicenda più grottesca ci ha pensato il portavoce dei ribelli: in un dispaccio ripreso dalle agenzie ha dichiarato che le monache sono state ‘messe in salvo’. Paradossalmente si sono presi cura di loro gli stessi che hanno fatto saltare a colpi di kalashnikov il portone d’ingresso del monastero e che hanno saccheggiato e bruciato più di una volta i luoghi sacri. L’esponente dei ribelli delle ‘Brigate ribelli di Qalmoun’ ha dichiarato che le suore sono state rapite per preservare i rivoluzionari dalle forze del regime di Assad. Questa è un’altra espressione della nuova neo-lingua: ‘rapite per preservare i rivoluzionari dalle forze del regime di Assad’, che, tradotto, vuol dire evidentemente farle fare gli scudi umani.
Inaspettatamente ieri le monache sono apparse sul canale satellitare al Jazera del Qatar all’interno di un’abitazione della cittadina di Yabroud (caposaldo dei ribelli). Dopo aver visto il video, si è incerti se considerarlo una presa in giro o se seriamente i rapitori pretendono veramente che possa essere credibile. Private delle croci cristiane (che contraddistinguevano l’ordine) una suora dice: "Un gruppo ci ha portato qui e stiamo molto, molto bene con loro", e gli fa eco un’altra: “Siamo in una villa molto molto bella", smentendo che qualcuno le abbia rapite. Di diverso tenore il comunicato diffuso dal quotidiano pan-arabo Asharq al-Awsat, dove in un’intervista il portavoce del gruppo, Mohannad Abu al-Fidaa, ha detto: "Le suore sono in un luogo sicuro, ma non saranno rilasciate finchè non saranno accolte alcune richieste, prima tra tutte il rilascio di mille donne siriane rinchiuse nelle prigioni del paese”. E’ la classica ‘ciliegina sulla torta’: per la gentile ospitalità fornita sarebbe opportuno liberare 1000 donne legate alla guerriglia e detenute da Damasco.
E’ un déjà-vu e i conti non tornano: la versione dei ribelli fa acqua in numerosi punti ed è contraddittoria. In primo luogo abbiamo visto che le suore, in tempi non sospetti, hanno fatto già dichiarazioni non fraintendibili, perfettamente in linea con il loro stato e con la loro vocazione. In secondo luogo è oltremodo illogico che esse abbiano liberamente scelto di andare al seguito degli islamisti e invece non a Damasco, dove avrebbero trovato la folta comunità cristiana dei profughi di Maloula ad accoglierle.
Che la comunità internazionale accetti che i suoi ‘rivoluzionari’ portino via i religiosi ‘per metterli in salvo’ è un fatto grave. Quello che è accaduto alle claustrali del monastero di Santa Tecla domani potrà succedere altrove, e non certo per magnanimità.
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