domenica, gennaio 19, 2014
Sta raccogliendo consensi, Il Visitatore di Eric-Emmanuel Schmitt riletto da Binasco, con Alessandro Haber e Alessio Boni. Uno spettacolo godibile, che aiuta a riflettere. Intervista a Boni.

Città Nuova - Al Franco Parenti di Milano per due settimane il teatro è stato sempre sold-out. Si sono dovute aggiungere delle sedie per non mandare via la gente. E teatri sempre pieni anche nelle altre città dove è approdato lo spettacolo, nella prima parte della tournée iniziata a ottobre e ancora in corso. «Un successo impensato - confessa Alessio Boni -. Nessuno di noi se l’aspettava così». Perché, proporre un testo impegnativo, quale è Il Visitatore di Eric-Emmanuel Schmitt, che pone riflessioni sull'esistenza di Dio, sul bene e sul male, sull'amore, la libertà, la storia, il senso della vita, insomma, sui massimi sistemi, è rischioso, abituati come siamo all'ottundimento televisivo delle menti e dello spirito, all'imperante intrattenimento ridanciano.

Eppure il pubblico esce contento, dopo essere rimasto inchiodato alla poltrona per oltre novanta minuti assistendo al dialogo tra uno strano visitatore – che capiremo essere Dio in persona - e Freud, nella cui casa si è misteriosamente introdotto. Col razionale padre della psicanalisi ingaggia un corpo a corpo verbale, un duello di opinioni, pensieri, concetti, che sollevano dubbi, riflessioni, ripensamenti. Tutto questo si svolge dentro la cornice storica della tragedia del nazismo, nella sera dell’annessione dell’Austria alla Germania. Quella del 22 aprile 1938. Visto l'argomento della pièce e il contesto, si penserebbe ad un tedioso dramma filosofico, ad una disputa cervellotica. E invece siamo dentro una commedia brillante, intelligentemente leggera, a tratti commovente, esilarante, che ci fa sorridere ponendoci quesiti seri, esistenziali, che riguardano tutti.

Cosa si prova a calarsi nei panni nientemeno che di Dio? 

«Non sono io che mi sono messo nei suoi panni. Sarebbe impossibile. È Lui che si è scelto un corpo, che potrebbe essere il mio: cioè di un attore che nascerà anni dopo Freud (lo dice Schmitt nel testo). Il compito mio è stato trovare la spiritualità, il mistero, la gioiosità, l’ironia, la rabbia, che può avere un’entità che entra nel corpo di uno che esisterà anni dopo. La cosa più difficile è stata cercare di eclissarsi dallo standard canonico di dover imparare la memoria, le pause, sezionare le battute del testo. E sentirsi inadeguati».

Valerio Binasco, il regista, ha operato dei tagli al testo. So che lo avete fatto insieme. Con quale criterio avete lavorato in questo senso? 

«Col criterio di focalizzarsi sulla crisi di Freud, quella di uno che può essere l’uomo di oggi, cioè io, tu, chiunque. Freud è colto all’età di 82 anni, quindi con una saggezza umana e una forma compiuta. Sa che presto morirà di tumore, e quindi diventa anche più puerile, più fanciullo. Si lascia anche trascinare dal dialogo con Dio, pensando di trovarsi davanti ad un pazzo, abituato com’è ad avere a che fare con i matti».

Nel lavoro col regista ci sono stati dei momenti di difficoltà? 

«Sì, e anche di crisi. Soprattutto di sprone da parte di Binasco. Non è come altri personaggi definiti che ho fatto, tipo Ulisse o Caravaggio. Per un simile ruolo è stato inevitabile porsi delle domande su come andare in scena. Come si vuol rappresentare? Il solo pensare di identificarsi con Dio sarebbe una follia. E neanche con Cristo, in quanto uomo. Ho cercato di fare spazio dentro di me; non per essere vuoto, ma perché tutto possa accadere nel momento che lo fai. Il tentativo è di dare spazio all’essenzialità dell’evento, a quello che dici con Freud, come a quello che diresti con chiunque ti sta di fronte. È un interagire continuo e innovativo secondo lo stato d’animo. È difficile da spiegarti. Perché è imprendibile. Questa è una commedia che vuole portare la gente a mettersi in discussione giocando in scena, anche con ironia, ma che porta a una riflessione sull’ateismo e la fede. O comunque sulla crisi dell’uomo».

Qual è, secondo te, il punto centrale del testo? 

«È l’uomo nel suo dubbio, nel suo “non sapere”, nel sentire che c’è un mistero. Freud incanala tutto nella scienza, e allora Dio gli va addosso, nel senso che lo provoca, anche divertendosi, perché forse si annoia. Freud gli domanda perché non sia andato a visitare un prete piuttosto che lui. E Dio gli risponde che la gente è talmente abituata a parlare in suo nome che sentirebbe di dare fastidio. “Trovo molto noiosa la conversazione con gli ammiratori”, dice. “Invece è meglio stare con uno che mi contrasta”. Lo diceva anche, a suo modo, Alda Merini: “Ringrazio i miei nemici perché sono i più attenti a ciò che scrivo”. Ed è vero».

Freud è un ateo convinto, e ha scritto dei tomi su questo. Nello spettacolo lo afferma anche che non c’è bisogno di Dio. Gli atomi e la fisica bastano… 

«Per lui Dio è un’invenzione geniale degli uomini, è soltanto un’allucinazione consolatoria. Questo lo scrive Schmitt prendendo da dati storici. E gli crea il dubbio. Poi si lascia andare, entra nel gioco e ci sta bene, però ha paura di credere. Personalmente ho colto spesso più spiritualità in un ateo che non in un credente. Credo che ci sia più spiritualità, per esempio, in un quadro di Caravaggio che in altri quadri pietistici. Eppure Caravaggio era un libertino. Però amava. Qual è allora l’amore assoluto? È difficile definirlo perché l’uomo è troppo sfaccettato. Ognuno in questo testo prenderà del suo. Il teatro te lo permette. Ed è fantastico, perché il testo non dà risposte. Non vuole, infatti, insegnare niente a nessuno, né convertire. Ma lascia una traccia, succede qualcosa nello spettatore».

La materia trattata è quasi tutta filosofica. Come avete lavorato per renderlo più digeribile possibile a un pubblico abituato ad altro tipo di intrattenimento? 

«Si è lavorato tantissimo sull’analisi del testo, togliendo certi “merletti” presenti nello scritto integrale che sembra voler fare una sorta di lezione. Valerio è entrato a tagliare non di fioretto, ma di spada, attraverso più stesure. Fino ad arrivare a una compiutezza».

Il testo, però, nelle intenzioni dell’autore, non è un trattato ma una commedia… 

«Sì, però si può spostare facilmente la chiave di lettura in una direzione o in un’altra. Si può calcare la mano, per esempio, sul fatto che Dio odi il Terzo Reich di cui si sente la presenza fuori dalla finestra. Binasco invece ha puntato sul fatto che Dio lascia gli uomini liberi: liberi di fare il bene come anche il male, altrimenti che libertà sarebbe? Dio ama il capitano del Terzo Reich tanto quanto il prete. Ama me, te, perché siamo tutti suoi figli. Anche se si sbaglia. Cerca di indirizzare questa libertà in un’etica, di fare capire il mistero della vita».

Tutti i temi che emergono sono trattati, però, con leggerezza, con ironia… 

«Ti ho detto da dove siamo partiti, ma quello che si vede in scena è molto più profondo, ed è reso tutto in maniera musicale, leggera. È uno spartito lieve, ma con l’orrore che lo circonda per il contesto drammatico in cui si svolge, con la disperazione di Freud che deve arrivare allo spettatore. Ci sono delle cose che lui dice in cui mi viene da parteggiare per Freud, e altre in cui parteggio per Dio».

C’è una forte dialettica fra i due, che fa parte dell’uomo: un confronto e una ricerca in cui è contemplato il dubbio… 

«Esatto. Ed è la cosa che più mi è piaciuta nel testo. Anche perché non esprime nessun giudizio che possa ghettizzare né gli atei, o chi crede».

Il testo suscita varie riflessioni: sulla fede, sull’amore, sul bene e il male. Cosa ha suscitato in te come persona? 

«Ha alimentato ancora di più il dubbio in generale. Ha toccato a trecentosessanta gradi qualcosa di me».

Da tempo vivi fuori città, in campagna. E non per snobismo. Da cosa è nata questa scelta? 

«Siamo immersi in suoni fasulli. E ci involgariamo sempre più. Non farsi involgarire è difficilissimo. Ho scelto di vivere in campagna perché mi sento fagocitato dalla società, dentro uno spartito dettato da un direttore d’orchestra che è l’Occidente, il consumismo, la corsa. Io ho necessità di contemplare la vita. Per questo ho scelto la campagna, la natura. Ne ho bisogno come l’aria. Se stessi sempre in città morirei. Ho la necessità di osservare la natura. Che è l’equilibrio. E l’ascolto. Io mi sento fortunato a fare l’attore perché posso eclissarmi, creare un vuoto dentro da riempire, far parte di una sorta di terapia di gruppo col pubblico. In questo spettacolo mi ha fatto anche male parlare dei sentimenti umani. Entrare nel testo con grande umiltà e disponibilità non è stato facile. Ho impiegato del tempo, facendo anche degli esercizi fisici pazzeschi a terra creati da Valerio, perché non riuscivo a sbloccarmi, abituati come siamo, involontariamente, a chiuderci. Stiamo sempre in difesa. Soprattutto adesso, con la crisi che respiriamo. Che non è una crisi economica, come vogliono farci credere, ma una crisi etica, nata anni fa, e che adesso è diventata la punta di un iceberg. Il problema è che tutti pensiamo al nostro orticello personale. La vita, invece, è l’arte dell’incontro, del dare. Qual è la funzione del teatro? Qual è il suo senso vero, alto, profondo? Il teatro è deriso dai nostri ministri della cultura perché nel capitalismo in cui viviamo non cambierà mai le sorti della storia e dell’economia, perché non è tangibile. Però è sacro. È sacro perché può cambiare il pubblico. E basterebbe che ne cambi anche uno solo, e facendo riflettere. Allora, tornando a Il Visitatore, di questo spettacolo vorrei che rimanesse al pubblico il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto, e che uscisse con una grande riflessione. E il sorriso dentro».

Prossime date: Palermo, Teatro Biondo, dal 21 al 26; Brindisi, Nuovo teatro Verdi, il 28; Lecce, il 29.

di Giuseppe Distefano


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