Non avere altro nome nella vita, e non compiere altra azione, che non sia strettamente collegata a Cristo.
Radio Vaticana - È con questo auspicio che Papa Francesco ha concluso questa mattina l’omelia della Messa presieduta nella Chiesa del Gesù, nel giorno in cui la Chiesa festeggia la ricorrenza liturgica del Santissimo Nome di Gesù, “titolo” dell’Ordine fondato da Sant’Ignazio di Loyola. Il Papa si è soffermato a lungo sulla figura di Pietro Favre, modello di santità sacerdotale nella Compagnia, canonizzato il 17 dicembre scorso. Il servizio di Alessandro De Carolis: ascolta
“Svuotati” perché pieni di Dio. Inquieti perché instancabili nel cercare Dio. Audaci perché capaci di una fede che sogna in grande, come sono i sogni di Dio. Insomma, uomini in perenne tensione per essere altri Cristo in terra. E non può essere altrimenti per uomini che Sant’Ignazio di Loyola radunò e raduna in una Compagnia che porta il nome stesso di Gesù. Papa Francesco riflette sul carisma del suo Ordine e lo fa concentrandosi su Pietro Favre, il confratello antico e modernissimo, proclamato Santo due settimane fa, che fu compendio vivente dei caratteri spirituali e apostolici che rendono un gesuita aderente al suo dover essere. A cominciare dal cuore, vuoto e svuotato per amore, come fu quello di Cristo:
“Siamo chiamati a questo abbassamento: essere degli ‘svuotati’. Essere uomini che non devono vivere centrati su se stessi perché il centro della Compagnia è Cristo e la sua Chiesa. E Dio è il Deus semper maior, il Dio che ci sorprende sempre. E se il Dio delle sorprese non è al centro, la Compagnia si disorienta. Per questo, essere gesuita significa essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guardando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza sosta. E questa è l’inquietudine della nostra voragine. Quella santa e bella inquietudine”.
Inquieti fino a che punto? La verifica che Papa Francesco propone si basa su un confronto: un gesuita può chiedersi se “ha conservato l’inquietudine della ricerca o se invece si è atrofizzato”. In realtà, per chi milita nella Compagnia non c’è alternativa: “Bisogna cercare Dio per trovarlo – afferma il Papa – e trovarlo per cercarlo ancora e sempre”:
“Solo questa inquietudine dà pace al cuore di un gesuita, una inquietudine anche apostolica, non ci deve far stancare di annunciare il kerygma, di evangelizzare con coraggio. È l’inquietudine che ci prepara a ricevere il dono della fecondità apostolica. Senza inquietudine siamo sterili”.
È a questo punto che Papa Francesco chiama sulla ribalta Pietro Favre. Lui fu tutto questo, l’“uomo dei grandi desideri”, “spirito inquieto, indeciso, mai soddisfatto”, animato dal “vero spirito che muove all’azione”:
“Abbiamo anche noi grandi visioni e slancio? Siamo anche noi audaci? Il nostro sogno vola alto? Lo zelo ci divora? Oppure siamo mediocri e ci accontentiamo delle nostre programmazioni apostoliche da laboratorio? Ricordiamolo sempre: la forza della Chiesa non abita in se stessa e nella sua capacità organizzativa, ma si nasconde nelle acque profonde di Dio”.
Pietro Favre, ricorda ancora Papa Francesco, spese una vita intera per avere “familiarità con Dio”, per avere un cuore trapiantato in quello di Gesù. E con questi sentimenti fu fautore di dialogo nell’Europa divisa dalla Riforma di Lutero, con l’arma tutta cristiana della dolcezza:
“Mi viene da pensare alla tentazione, che forse possiamo avere noi e che tanti hanno, di collegare l’annunzio del Vangelo con bastonate inquisitorie, di condanna. No, il Vangelo si annunzia con dolcezza, con fraternità, con amore!“.
Di qui, la promessa finale del primo Papa gesuita della storia, a nome di tutta la Compagnia, di rimodellarsi sull’esempio del primo sacerdote gesuita della storia, il fratello Pietro che sotto l’influsso del “fascino” di Cristo compì, ha detto, vere e proprie “pazzie apostoliche”:
“Noi siamo piccoli, siamo peccatori, ma vogliamo militare sotto il vessillo della Croce nella Compagnia insignita del nome di Gesù. Noi che siamo egoisti, vogliamo tuttavia vivere una vita agitata da grandi desideri. Rinnoviamo allora la nostra oblazione all’Eterno Signore dell’universo perché con l’aiuto della sua Madre gloriosa possiamo volere, desiderare e vivere i sentimenti di Cristo che svuotò se stesso”.
“Svuotati” perché pieni di Dio. Inquieti perché instancabili nel cercare Dio. Audaci perché capaci di una fede che sogna in grande, come sono i sogni di Dio. Insomma, uomini in perenne tensione per essere altri Cristo in terra. E non può essere altrimenti per uomini che Sant’Ignazio di Loyola radunò e raduna in una Compagnia che porta il nome stesso di Gesù. Papa Francesco riflette sul carisma del suo Ordine e lo fa concentrandosi su Pietro Favre, il confratello antico e modernissimo, proclamato Santo due settimane fa, che fu compendio vivente dei caratteri spirituali e apostolici che rendono un gesuita aderente al suo dover essere. A cominciare dal cuore, vuoto e svuotato per amore, come fu quello di Cristo:
“Siamo chiamati a questo abbassamento: essere degli ‘svuotati’. Essere uomini che non devono vivere centrati su se stessi perché il centro della Compagnia è Cristo e la sua Chiesa. E Dio è il Deus semper maior, il Dio che ci sorprende sempre. E se il Dio delle sorprese non è al centro, la Compagnia si disorienta. Per questo, essere gesuita significa essere una persona dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guardando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza sosta. E questa è l’inquietudine della nostra voragine. Quella santa e bella inquietudine”.
Inquieti fino a che punto? La verifica che Papa Francesco propone si basa su un confronto: un gesuita può chiedersi se “ha conservato l’inquietudine della ricerca o se invece si è atrofizzato”. In realtà, per chi milita nella Compagnia non c’è alternativa: “Bisogna cercare Dio per trovarlo – afferma il Papa – e trovarlo per cercarlo ancora e sempre”:
“Solo questa inquietudine dà pace al cuore di un gesuita, una inquietudine anche apostolica, non ci deve far stancare di annunciare il kerygma, di evangelizzare con coraggio. È l’inquietudine che ci prepara a ricevere il dono della fecondità apostolica. Senza inquietudine siamo sterili”.
È a questo punto che Papa Francesco chiama sulla ribalta Pietro Favre. Lui fu tutto questo, l’“uomo dei grandi desideri”, “spirito inquieto, indeciso, mai soddisfatto”, animato dal “vero spirito che muove all’azione”:
“Abbiamo anche noi grandi visioni e slancio? Siamo anche noi audaci? Il nostro sogno vola alto? Lo zelo ci divora? Oppure siamo mediocri e ci accontentiamo delle nostre programmazioni apostoliche da laboratorio? Ricordiamolo sempre: la forza della Chiesa non abita in se stessa e nella sua capacità organizzativa, ma si nasconde nelle acque profonde di Dio”.
Pietro Favre, ricorda ancora Papa Francesco, spese una vita intera per avere “familiarità con Dio”, per avere un cuore trapiantato in quello di Gesù. E con questi sentimenti fu fautore di dialogo nell’Europa divisa dalla Riforma di Lutero, con l’arma tutta cristiana della dolcezza:
“Mi viene da pensare alla tentazione, che forse possiamo avere noi e che tanti hanno, di collegare l’annunzio del Vangelo con bastonate inquisitorie, di condanna. No, il Vangelo si annunzia con dolcezza, con fraternità, con amore!“.
Di qui, la promessa finale del primo Papa gesuita della storia, a nome di tutta la Compagnia, di rimodellarsi sull’esempio del primo sacerdote gesuita della storia, il fratello Pietro che sotto l’influsso del “fascino” di Cristo compì, ha detto, vere e proprie “pazzie apostoliche”:
“Noi siamo piccoli, siamo peccatori, ma vogliamo militare sotto il vessillo della Croce nella Compagnia insignita del nome di Gesù. Noi che siamo egoisti, vogliamo tuttavia vivere una vita agitata da grandi desideri. Rinnoviamo allora la nostra oblazione all’Eterno Signore dell’universo perché con l’aiuto della sua Madre gloriosa possiamo volere, desiderare e vivere i sentimenti di Cristo che svuotò se stesso”.
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