giovedì, gennaio 02, 2014
“Il vero scandalo moderno non è la separazione, ma un matrimonio duraturo”.  

Radio Vaticana - Parola del regista Pupi Avati, che nei giorni scorsi ha debuttato con successo su Raiuno con la miniserie “Un matrimonio”. La fiction racconta la storia di due ragazzi che si sposano nel dopoguerra e, superando le difficoltà, si ritrovano insieme ancora oggi dopo cinquant’anni. Ascoltiamo lo stesso Pupi Avati al microfono di Antonella Pilia: ascolta
R. – Sono arrivato a 49 anni di matrimonio, quindi so che cos’è un matrimonio e ritengo di essere legittimato a parlarne, mentre avverto che in tutto il Paese chi parla di famiglia il più delle volte è chi ha un matrimonio magari andato male dopo il quarto anno e si trova già al secondo matrimonio, o comunque non ha maturato quella che è la conoscenza di un rapporto così speciale, così particolare, così misterioso, così sacrale, come è l’unione di un uomo e una donna che si promettono la vicinanza, la reciproca protezione nel generare dei figli, garantire loro due genitori… Due persone che, insomma, si sono impegnate in un patto quando del matrimonio non sapevano nulla, perché chi si va a sposare in genere, giustamente, non sa nulla di quello che poi è la realtà di una convivenza e la scopre nell’arco dei decenni che vanno a susseguirsi. Oggi, io che la conosco, mi sento legittimato a poter raccontare quella che è stata la mia esperienza perché altri poi decidano – ed io mi auguro positivamente – di assumere questo tipo di impegno.

D. – Parlare di un matrimonio duraturo oggi è controcorrente nell’ambiente cinematografico?

R. – Lo è in modo così radicato che quando sono andato a proporre sei anni fa in Rai questo progetto dicendo: “Vorrei raccontare un matrimonio che dura 50 anni”, il funzionario che avevo di fronte mi disse: “Ma allora è un film in costume, fatto di crinoline e parrucche, ottocentesco”... Questo, perché i matrimoni di 50 anni oggi, secondo un’opinione pubblica, non esistono. Non è assolutamente così. È vero che il matrimonio è anzitutto in crisi, che le separazioni e i divorzi sono – ahimè - in aumento. Ma di matrimoni che resistono in questo Paese ce ne sono ancora tanti, fortunatamente. E quindi è a quella parte che io, in qualche modo, mi rivolgo nella consapevolezza che un buon matrimonio produce dei buoni figli, quindi dei buoni italiani, dei giovani che socialmente, culturalmente, intellettualmente ed eticamente avranno un comportamento, secondo me, che ci garantisce di più e meglio negli anni.

D. – Quindi, indebolire la famiglia significa in qualche modo indebolire la società stessa…

R. – Dovrebbe. E lo sto suggerendo a tutte le persone di potere con le quali mi incontro. Le poche volte che mi capita di incontrarli, dico loro: “Vi preoccupate così tanto di tante tematiche che riguardano sempre e solo gli aspetti finanziari. Perché non date un po’ più di energia, di carburante alle famiglie e non le incoraggiate a essere tali? Quindi, produttrici di italiani di qualità?”. Credo che se in passato noi eravamo orgogliosi del nostro Paese, del comportamento dei nostri cittadini, era perché c’erano delle famiglie straordinarie, con dei genitori straordinari, assolutamente imparagonabili a quelli che sono i genitori di oggi, soprattutto per quanto riguarda la figura più erosa, che è venuta più a mancare, quella che ha subito - secondo me - il deterioramento maggiore: la figura paterna. Noi abbiamo dei pessimi papà.

D. – A che cosa è dovuto, secondo lei?

R. – Secondo me, è dovuto al relativismo, al fatto che ognuno di noi si faccia una sorta di “morale prêt-à-porter”, non avverta le responsabilità del proprio ruolo all’interno di un contesto familiare, e che soprattutto i genitori maschi, i papà, antepongano a tutto la carriera, la loro professione. Sono sposati con la loro professione, non con la loro moglie.


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